Berlingeri Cesare
Cesare Berlingeri è nato nel 1948 a Cittanova, in provincia di Reggio Calabria. Inizia a dipingere giovanissimo, nello studio di Cittanova del maestro Deleo, docente in pensione dell’Accademia di Liegi. Nel 1964 emigra in Piemonte dove lavora presso un decoratore di chiese. Nel ‘68 intraprende una serie di viaggi in Europa, conosce altri artisti e si confronta con il mondo della cultura contemporanea. A Roma, negli anni ’70, inizia a lavorare per il teatro e per la televisione come scenografo e costumista con il regista E. Vincenti. L’attività teatrale, alla quale si avvicina sempre profondamente da pittore, rappresenta una costante nel suo percorso artistico. Fino al 1974 è responsabile per il settore Arte dei centri servizi culturali CIF della Calabria. Ricerca una propria via espressiva sperimentando tecniche e maniere diverse di dipingere, utilizza agenti atmosferici quali vento, pioggia, fuoco che gli permettono di introdurre la casualità e materiali come la calce, il cemento, la carta straccia e la tela. Le opere di questo periodo sono presentate in occasione della sua prima personale, presso la Galleria AxA di Firenze (1975). Si tratta di lavori ad olio, estremamente materici sui quali l’artista interviene creando dei segni calligrafici mediante l’uso del fuoco. Nel 1976, per la prima rete RAI, realizza scene e costumi per uno spettacolo circense, collabora ad un laboratorio di ricerca gestuale e visiva e realizza un intervento pittorico-gestuale per una piazza calabrese. Sempre per la RAI, l’anno successivo, è impegnato in un’azione performativa di intervento sul paesaggio urbano. Ricostruisce, coinvolgendo la gente del luogo, il dramma di un paese calabrese colpito da un’alluvione. Berlingeri traccia sulla piazza spazi che ridisegnano i luoghi ormai distrutti, permettendo agli abitanti di riviverli simbolicamente per la durata dell’evento. Contemporaneamente a queste riprese, la Rai manda in onda il Faust di C. Marlowe con Tino Buazzelli, per il quale realizza scene e costumi. Inizia a lavorare alle Trasparenze (1978), successive al ciclo degli Strappi, riconfermando il suo studio sulla tela in continua evoluzione-trasformazione. Le Trasparenze rappresentano “una ricerca sulla tela e sulla sua penetrabilità, sulla visibilità dell’oltre la tela: un tentativo di non irrigidire il sistema della visibilità” C. Benincasa. Sono lavori costituiti da leggerissime tele di lino sovrapposte, ossia sovrapposizioni di superfici trasparenti che rimandano l’una all’altra e non nascondono i frammenti di colore e le piccole tele piegate che racchiudono. Questo ciclo viene presentato nel 1979 alla Galleria Soligo di Roma ed alla Galleria Civica di Saint Vincent. C. Vivaldi segnala così l’artista sul catalogo Bolaffi (1980): “Sono lieto di presentare un giovane pittore calabrese che, pur vivendo in un piccolo centro, è perfettamente inserito nella linea maestra della cultura internazionale. Si tratta di un artista di sicuro avvenire.” Nei primi anni Ottanta, in occasione della mostra “Racconti colorati”, alla galleria “Interarte” di Milano, espone grandi tele di lino caratterizzate da segni geometrici e calligrafici di grande liricità. Ripropone, in questa fase, lo stesso concetto delle Trasparenze, di una tecnica che per sovrapposizione non occulta, ma in questo caso attraverso l’uso dell’acquarello. Nel 1985 presenta alla Galleria “Soligo” il ciclo delle Fioriture, anch’esse grandi tele dipinte ad olio ed a smalti industriali con ampi gesti. Nel testo in catalogo, F. Menna ci fa notare come: “…l’artista lavori per serie, come questa delle Fioriture che dà corpo alla mostra odierna, o come le serie precedenti degli strappi e delle piegature: il che vuol dire che le opere singole si inseriscono in un discorso più articolato, dove ciascuna conferisce e riceve qualcosa dalle altre”. Partecipa anche alla mostra 5 mosaici per 5 artisti, assieme a Schifano, Mafonso, Parres e Festa, con il quale, pur nell’assoluta diversità, nasce una grande amicizia e si sviluppa una grande affinità intellettuale. Nel 1986 è invitato ad una collettiva a Tokio, “Mostra sul disegno italiano” ed alla XI Quadriennale di Roma. Alla personale, “Specchio rotto specchio”, espone opere di piccole e grandi dimensioni dai colori accesi, ottenuti con olio e pigmento. La “Galleria d’Arte Moderna” di Paternò (CT) ospita una sua personale, “Nero, Bianco, Rosso e Blu” (1989). I lavori presentati sono realizzati con una grande varietà di tecniche quali: pigmenti naturali, smalti, acrilici e cere. Sono per lo più dittici e trittici costituiti dall’accostamento di tele monocrome, segnate a volte da carbone e grafite, a lastre di ferro.
Si intensificano le collaborazioni teatrali. Nel 1981 realizza una grande installazione per “La lunga notte di Medea” al teatro Piccolini di Firenze. Nel 1982, per la Biennale Teatro di Venezia, realizza una scenografia per “Il Candido ovvero…” di Leonardo Sciascia; nel 1987, per il teatro stabile di Calabria, cura le scene e i costumi di “Italian Opera Graffiti”.
Dal 1989 al 1995 è docente all’Accademia d’Arte Drammatica della Calabria. Durante questo periodo realizza scene e costumi per gli spettacoli che l’Accademia produce, tra i quali si ricordano: “Le parole, le emozioni, i linguaggi” (1989); “Rose di ghiaccio, studi in dieci movimenti” (1990); “Intrighi d’amore” (1991), per il quale realizza “una grande scena-piega che si apriva e richiudeva, variando lo spazio continuamente” (C. Berlingeri); “Albergo di montagna”, realizzato per il Festival Internazionale Teatro di Praga (1994); “La lunga notte di Medea”, per il Festival di Taormina Arte (1995). Chiamato dalla compagnia “Rossotiziano” di Napoli, nel 1998 cura scene e costumi per “Variazioni” (Majorana). Possiamo ben comprendere come il teatro gli offra la possibilità di sperimentare le sue tecniche pittoriche da una sua frase rilasciata in occasione di un’intervista riportata sul catalogo della mostra “Nero, Bianco, Rosso e Blu”: “A teatro potevo fare dei grandi quadri che si muovevano sul palcoscenico. Ho spinto al massimo la mia tendenza a fare del palcoscenico un quadro dinamico ed ho usato per questa operazione anche i personaggi come pure indicazioni di colore in movimento”.
I dipinti piegati vengono esposti nel ’90, dopo l’incontro con T. Trini che scrive: ”Ricordo che quando visitai lo studio di Taurianova, in preparazione di un’ampia mostra a Messina, Berlingeri duellava ancora con le perplessità dei suoi sostenitori, per lo più convinti che ‘quegli oggetti’ andassero fuori stile. Ma io ne fui subito entusiasta”. “Opere Recenti”, la mostra a cui Trini si riferisce, viene allestita nel foyer del Teatro Vittorio Emanuele, dove sono esposti alcuni dittici e per la prima volta le Piegature. Queste tele piegate ed impregnate di pigmento puro, abbozzate sin dal 1976 in piccole dimensioni, vengono adesso riprese e sviluppate. L’idea delle Piegature nasce da un ricordo della sua infanzia: un piccolo involucro di stoffa nero opaco che sua madre usava tenere al collo come amuleto. Ma l’atto del piegare grandi tele dipinte viene messo in pratica per la prima volta in teatro. Mentre lavora ad una scenografia dipinge una notte stellata su un grande fondale. A spettacolo finito, quando è giunto il momento di smontarlo, si rende conto come di piega in piega, questa grande tela diventi un fagotto di circa ottanta centimetri. In questi anni numerose sono le mostre personali e collettive nelle quali è esposto il suo nuovo lavoro con diversi apprezzamenti critici. Nel 1994 per la Fondazione Mudima di Milano crea una grande installazione a parete, Piegare la notte, composta da circa venti piegature, di dimensioni, forme e colori differenti. Segue la collettiva alla Civica Galleria d’Arte di Gallarate, Riflessione e ridefinizione della pittura astratta. La galleria La Polena di Genova gli dedica una personale Viaggi. In un’altra personale alla Fondazione Mudima (1999), sono esposti oltre alle Piegature, dei piccoli dipinti su piombo. Il piombo è per l’artista: “una materia sorda, una materia che assorbe. Una materia veramente silenziosa”. Sono presenti anche delle grandi tele segnate a carbone nelle quali affiorano “elementi figurali, segni quasi umani, ombre di presenze, cicli che discorrono” T.Trini. Nel 2001 la New Art Gallery, di Padova ospita Dipinti Piegati. In uno dei pensieri tratti dal diario di studio, l'artista, a proposito delle Piegature, dice: "sono pitture che recano in sé un atto sigillato, un atto che indica il tempo della loro elevazione futura come atto di nascita. Ogni piegatura possiede l'intera infinità delle piccole percezioni. Mi fa pensare all'intuizione leibniziana di una goccia d'acqua che possiede al suo interno un intero universo, le cui gocce d'acqua contengono al loro interno nuovi universi e così via all'infinito". Nel 2003 tiene una personale alla Mole Vanvitelliana di Ancona, progettando per i seminterrati una suggestiva installazione, Viaggi, opere anch'esse piegate, ma in questo caso più volumetriche e concepite per invadere lo spazio.
T. Trini cura un’importante monografia sul suo lavoro edita da Skira. Il suo paese natale lo omaggia con una retrospettiva molto singolare, perché si avvale di lavori storici, figurativi che l’artista non sempre ama mostrare, proprio come i suoi disegni, poiché rappresentano una sorta di diario per immagini della sua vita. E’ invitato, dal Comune di Padova, a tenere una personale a Palazzo Moroni. Nel 2004 partecipa ad una collettiva al Museo Nazionale di Arezzo, “Da Picasso a Botero”. Un anno dopo la Calabria si fa promotrice di due ampie personali. La prima presso il Castello Aragonese di Reggio Calabria con un’ampia retrospettiva “La pittura piegata”. Per una delle sale, quella della torre, realizza Deposito di stelle, un’installazione composta da grandi piegature blu, accatastate su delle pedane di legno, per la quale V. Baradel scrive: “Il cielo notturno di Berlingeri precipita al fondo della torre del castello. La sua luce blu si fa colore solido ripiegandosi nello scrigno della tela. Volte stellate sono quelle di Giotto ad Assisi e a Padova. Il fondale del cielo, sempre lui, piegato e ripiegato ora giace a terra, salvato dalla cecità degli uomini e dei e messo al sicuro nelle segrete viscere della torre. L’alto e il basso si affratellano quando le stelle scendono nel punto più basso”. La seconda grande mostra in Calabria è l’antologica “Cesare Berlingeri, Materia” 1975 – 2005 che si tiene presso il Complesso Monumentale S. Giovanni, a Catanzaro. I Corpi sono l’ultimo ciclo dei suoi lavori. E’questo è il titolo della personale che si tiene nel 2006 a MUDIMAdrie, Anversa. Sono corpi d’aria, rivestiti da una superficie levigata, generati da una materia “che agisce come il pane, cioè respira, si gonfia, cresce come la vita, come gli alberi. E poi la curiosità più bella è che bastano tre chiodi puntati qui e là e questa forma cresce in maniera diversa…” C. Berlingeri. A Padova la Vecchiato New Art Galleries, presenta “Vele per nessun mare” (2007). I lavori proposti sono sculture, piegature in alluminio dipinte con pasta di smalto. Anche su questo metallo, come precedentemente per il ferro e per il piombo, avviene la ‘transustanziazione” attraverso il particolarissimo uso del colore.
Nel 2007 il MAC Museo de Goiania gli dedica un’ampia antologica: circa 200 opere illustrano il percorso dell’artista dagli anni Sessanta fino ai lavori più recenti. La stessa è ospitata nei mesi successivi al MAM Museo de Arte Moderna de Salvador de Baia ed al MAM Museo de Arte Moderna di Rio de Janeiro.
Tra il 2008 e il 2011 i suoi lavori vengono presentati a: 11 th International Cairo Biennale; Anniart 798 Factory, Pechino; CAMS, Centro Arti Musica e Spettacolo, Università della Calabria; Galleria Ellebi, Cosenza; Studio Lattuada, Milano.
Nel 2012 la Fondazione Rocco Guglielmo, la Fondazione Rotella e la Vecchiato Art Galleries organizzano a Catanzaro un’esposizione dal titolo “Ghiacci e ombre”. “(…) l’installazione dei Ventinove avvolti con ombra nell’azzurro (…) e Primordiale (…) sono due stazioni che avvicinano ulteriormente il nodo cruciale, rappresentato dalla presenza dell’umano in ogni forma visibile che ci circonda. La prima è una presenza culturale (…), l’effigie di un essere e di una sua azione ormai incomprensibile; la seconda, invece risale ancora più indietro nella definizione di questa specie di “ur-form”, di “forma originaria”(non a caso si titola “Primordiale”) dell’essere. In entrambi i casi si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un “ritrovamento”, all’emersione da un tempo diverso di qualcosa che ci riguarda da vicino e che un po’ ci inquieta perché, ancora una volta, ritroviamo le nostre fattezze. E la nostra coscienza – ma anche il nostro istinto – ci impone di guardarle come parte di noi”. (Marco Meneguzzo, curatore della mostra).
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