Rita Mele e Annibale Vanetti “Cartografie dalla soglia: l’anima e le forme”

A cura di: Testo di Marcello Carlino

Rita Mele e Annibale Vanetti “Cartografie dalla soglia: l’anima e le forme”
Martedì 16 gennaio 2024 alle ore 17,00 a GUARCINO (FR), nella Sala Polivalente del Museo d’Arte Contemporanea del Piccolo Formato MAC. GUARCINO, apre al pubblico la mostra:
Rita Mele e Annibale Vanetti “Cartografie dalla soglia: l’anima e le forme” testo critico di Marcello Carlino.
L’esposizione sarà visitabile fino a sabato 17 febbraio 2024, dal lunedì al sabato, dalle ore 16,30 alle 19,00, previa prenotazione.
Questo è un viaggio nella geografia del profondo, su rotte parallele lungo i segni e i colori, verso un che di insondato, verso una terra misteriosa che appare per Rita Mele e Annibale Vanetti, ciascuno salpato dal suo porto, la meta cercata, il luogo da attingere.
Come quando un piccolo vortice si schiude sulla superficie delle acque, prefigurando il nonsoché impreveduto di un maelstrom che però attrae e seduce, un sipario si apre nelle opere di Rita Mele, e lembi di carta carnosa si scostano, sembrando mostrare un recesso che sta prima e oltre le apparenze, sembrando segnare l’ingresso in una sognata camera segreta. E il sipario è bianco, perciò tinto di sacralità; e il bianco, mentre rimanda al valore della essenzialità, fa le viste di una scabra intensità che sa della materia dell’umano; e i lembi alle soglie dell’affaccio hanno identitaria sostanza femminile così accennando ad un ritorno in immersione, a ritroso, nel tempo di una genesi. Nondimeno, che affiorino sprazzi di scrittura indecifrata ovvero orli smangiati di un singolare libro d’artista, e che a calcare la scena si offra, contro il bianco, lo scuro di un groviglio che non si lascia sbrogliare: tutto ciò attesta che dietro l’immagine rinvenuta si cela un’altra immagine da trovare, che la ricerca è infinita, che il sipario non può che aprirsi infinitamente sul teatro di un oltre che è sipario, a sua volta, da aprire su di un altro oltre.
Ad un filosofo tra i più grandi del Novecento si deve un titolo, L’anima e le forme, che può leggersi come un indice potenziale delle opere di Annibale Vanetti nel loro significato più autentico, nella humus del loro radicarsi e germogliare.
Graticci di colori ibridati, quali intrecci di lane densamente tramate, sono toccati da smagliature, in vista di impianti e talee, che circoscrivono puntiformi avvistamenti rossi; più tenui palpiti di corpuscoli cromatici, schiariti dalla luce, pulsano frammentarie ed episodiche occorrenze al di sotto della superficie la cui sagoma, dal primo piano, finge la consistenza di una lastra di calcare; e graffi che sembrano comporre sequenze di graffiti sono in procinto di una paleontologia che ha scavato nella lontana realtà dell’essere. Il cucito fitto di fili di colore, intonati al bruno, e le venature marmorizzate che sanno di pietre, e i graffiti in aggetto sono le forme che si addensano, che si concentrano. E le screziature di rosso sono lave effuse dalle viscere della terra; e il chiarore è il riverbero del fuoco che le incendia; e la paleontologia chiamata per allusioni segna l’orientamento verso una storia che è prima di ogni storia: sono queste le parole silenti dell’anima, che si mostra coperta dalle forme, sono le tracce semantiche dell’origine, del luogo fondativo da cui tutto è cominciato e tutto ricomincia.
L’anima è da cercare, è cercata sotto il nascondimento delle forme; e le forme disegnano le rotte del viaggio sulle piste dell’anima che l’arte insistentemente imprende. Nascondimento (nel nascondimento la sola possibilità di una dicibiltà, di una effabilità in potenza) e rivelazione e lampi di una epifania sempre agli inizi (che non dura, che non si completa) sono interessati da un gioco di specchi e di necessari rimandi che il piccolo formato accoglie e concentra e rilancia.

Marcello Carlino



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