Ripensando Vincenzo Agnetti
A cura di: Maurizio Cesarini
Dalla metà degli anni ’50, Vincenzo Agnetti partecipa attivamente all’attività del gruppo di Azimuth con Piero Manzoni, Enrico Castellani, Agostino Bonalumi, Davide Boriani ed altri, collaborando significativamente con la rivista edita dal gruppo.di Maurizio Cesarini
Dalla metà degli anni ’50, Vincenzo Agnetti partecipa attivamente all’attività del gruppo di Azimuth con Piero Manzoni, Enrico Castellani, Agostino Bonalumi, Davide Boriani ed altri, collaborando significativamente con la rivista edita dal gruppo.
Compie vari viaggi, Argentina, Stati Uniti, Africa, sfiorando persino il Polo Nord, per dedicarsi ad attività extra-artistiche e maturare una lucidità di pensiero ed una analisi dell’atto e della forma dell’arte, che si svilupperà decisamente in tutta la sua produzione arrivando a definirne i temi con assoluta coerenza e rigore.
Un assioma significativo del pensiero di Agnetti è la proposizione Essere o Essere, dove la tradizionale antinomia tra due alterità è risolta nel paradosso di una unicità distinta, già questo mostra il terreno in cui si sviluppa la ricerca dell’artista e delimita un campo operativo che adotta attraverso il linguaggio analitico ed il suo resto poetico evocativo possibilità di estensioni di senso e contraddizioni implicite nel linguaggio stesso, evidenziate sino ad una deflagrante possibilità semantica.
Altra contraddizione (apparente), appare l’opera nella quale l’artista dichiara Quando mi vidi non c’ero significativamente intitolata Autoritratto, lo stesso autore afferma che fare testo significa svilire l’oggetto, per mettere a fuoco il concetto; l’oggetto in questione è l’artista stesso che scompare nel momento in cui si percepisce. La sua imago presuppone un riflesso ed un oggetto, lo specchio che ne ridà l’immagine, la sparizione quindi non è totale, bensì sostituita dalla asserzione linguistica. Il linguaggio dunque sostituisce l’ingombro oggettuale della presenza fisionomica e propone una presenza che attraverso la parola presuppone l’assenza.
L’assenza, appunto, non è in Agnetti una condizione del negativo, della mancanza, anzi si pone come affermazione precisa di una idea di spazio e di tempo concreti, e solidamente definiti, tanto che lo spostamento del senso non si dà come semplice astrazione concettuale, ma come concretezza dell’esperienza.
Altro importante concetto è l’idea del dimenticare, Agnetti stesso afferma: ”la cultura è l’apprendimento del dimenticare”, non come oblio, ma come lui stesso definisce, dimenticare a memoria; torna quindi una sorta di apparente ossimoro, ma la logica che sovrintende il pensiero dell’autore, afferma ancor più decisamente una sorta di assenza che diviene al dunque piena presenza.
È del 1969 il Libro dimenticato a memoria che consiste in un volume al quale l’artista ha tagliato tutta la parte scritta, evidenziando un vuoto enigmatico. Ecco l’acutezza sottilmente filosofica, non disgiunta da uno struggente senso poetico; le esperienze di vita, i pensieri sono dimenticati a memoria, nel senso che permangono oltre l’attimo che li produce e sono dimenticati da se stessi nell’atto in cui si manifestano.
Quindi appare evidente che l’antinomia delle proposizioni linguistiche che Agnetti utilizza trova una intima coerenza in un pensiero che va oltre la materialità e quindi la non contraddittorietà degli eventi, in favore di una concettualità analitica, ma pur sempre velata di poetica ironia.
La traslazione da un linguaggio all’altro è un aspetto caratterizzante dell’opera di Agnetti, consapevole del fatto che pur adottando una prassi precisa, il passaggio non è senza conseguenze, pensiamo ad esempio alla Macchina drogata, del 1968, dove l’artista utilizza una calcolatrice Divisumma 14 Olivetti, in cui sostituisce i 10 numeri con altrettante lettere dell’alfabeto, così che tutte le parole venivano generate da calcoli che presupponevano una matrice matematica. Inoltre l’operazione generativa della parola era affidata al pubblico che diveniva, paradossalmente ricordando una celebre poesia di Majakovskij, il creatore del linguaggio.
Inoltre le parole ottenute da operazioni aritmetiche sono ingrandite ed esposte, così che l’idea non è semplicemente sostitutiva, né puramente performativa, ma mette in discussione l’essenza stessa del linguaggio e quindi della cultura dominante, essendo questo il suo specchio più immediato.
L’atto meccanico del calcolare innesca invece una sorta di evocazione di una lingua edenica, liberata da peso di dover essere e di dover rappresentare. Ma Agnetti non tralascia neanche l’aspetto assertivo della proposizione linguistica e verso la fine degli anni sessanta, la riflessione sul linguaggio si formalizza attraverso gli Assiomi, lastre di bachelite incise e trattate con colori all’acqua o alla nitro, ed i Feltri, pannelli incisi a fuoco o dipinti con colore caratterizzati da una sorta di ridondanza linguistica, a differenza di quelli in bachelite che appaiono caratterizzati da una certa freddezza mentale.
Ad esempio nell’Assioma del 1972, la lastra riporta la dicitura L’idea ferma diventa oggetto fine a se stesso, anche in questo caso appare evidente la poetica di Agnetti, l’idea seppur supportata dal linguaggio, se non evolve,se non si sviluppa in un senso ampio di possibilità interpretative,non appare null’altro che un oggetto che dichiara semplicemente se stesso.
Appare quindi estremamente significativa l’idea che la parola, il linguaggio, pur appartenendo ad una sfera concettuale, tuttavia non sono immuni da una possibile reificazione del senso. Ma c’è in Agnetti un altro aspetto significativo del pensiero, ed è il concetto di tempo; la serie di meridiane ovvero il Tempus mentis, in cui l’oggetto per la misurazione del tempo, ovvero la meridiana, non segna il trascorso temporale, individua invece attraverso l’ombra proiettata dallo gnomone, definizioni filosofiche aventi per argomento il tempo stesso, innescando un meccanismo tale per cui non è l’ora o il momento della giornata che viene evidenziato, in una traslitterazione del trascorre degli eventi che si fanno meditazione e pensiero.
L’idea di una temporalità circolare la si ritrova anche nella serie dei telegrammi in cui il senso della proposizione e della comunicazione si identificano nello stesso soggetto autoreferenziale di emittente e ricevente così che in questo caso seppur sostenuto dal trascorre temporale, l’invio ed il ricevimento, coincidono.
Nel 1973 realizza il suo lavoro forse più impegnativo Progetto per un Amleto politico, non a caso lo stesso artista definisce questo tipo di operazione teatro statico,adottando una tipologia installativa di tipo teatrale, ove però solo gli oggetti calcano la scena, mentre lo sviluppo dell’azione diviene l’interrogazione del fruitore verso l’ambiente che percepisce, trasformando così una idea dinamica e narrativa dell’evento di scena, in una condizione di interrogazione puramente mentale e concettuale. L’installazione si presenta come un palco vuoto circondato da bandiere di tutto il mondo, mentre la voce registrata dell’artista declina a mo’ di versi tutta una serie di numeri con diverse accentazioni ed intonazioni,così prende corpo e si puntualizza la sottile operazione dell’artista.
Come egli stesso afferma: ”Se uno di noi usa un linguaggio una disciplina qualsiasi per fare arte presto si troverà costretto ad azzerare, cioè riportare al punto di partenza la disciplina stessa”, frase significativa dal momento che la parola, con una operazione inversa a quella della macchina drogata, è traslata in numero, che in questo caso non indica una razionale operazione di calcolo, bensì evidenzia una universalità del comunicare, una sorta di lingua pre-babelica che si pone come base comune a tutta l’umanità. Ecco quindi che le bandiere che si danno come sostituto visivo dei popoli del pianeta divengono la metafora più urgente di un comunicare che non conosca barriere di lingua o cultura, ma che si ponga come una interazione fra gli uomini al di là dell’assetto geografico e politico al quale appartengono.
Di estrema importanza anche l’installazione Surplace, presentata alla Biennale di Venezia nel 1980 composta da quattro sculture attorno alle quali vi sono quattro fotografie che fungono da didascalia ad un lavoro tutto risolto nell’ambito di una definizione energetica della vita quotidiana, interrogandosi anche sul senso del linguaggio scultoreo.
Il gioco linguistico assume il valore di neologismo nella serie intitolata Photo-graffie, dove l’artista interviene su carta fotografica esposta alla luce e opportunamente trattata, incidendo segni che sono il residuo di un atto materiale ed espressivo, e che tradiscono il senso fotografico per eccellenza, ossia la sua perpetua riproducibilità.
L’intervento manuale non è che la materializzazione dell’idea, ovvero l’utilizzo di un medium come quello fotografico, per antonomasia l’idea stessa di riproducibilità, per ottenere invece opere che traducono una unicità manuale e programmatica nella stessa prassi adottata per realizzarle.