Catalano: il vuoto è forma, ma non solo
Le sue sorprendenti sculture dislocate in quattro suggestivi spazi a Venezia
di Michele De Luca
“Ogni tanto – ebbe a dire nel corso di un intervista il grande scultore giapponese Azuma, scomparso tre anni fa - vado in crisi perché non so dare senso al vuoto, ma il vuoto per magia si anima e diventa un pieno. Nel vuoto si annida lo spirito, cioè l’essenza delle cose e delle persone e rappresenta ciò che niente può annullare a differenza del pieno che il tempo corrode e distrugge”. Risuonano le parole, di un altro grande maestro, Henry Moore: “Il primo buco scavato nella pietra fu per me una vera rivelazione”. E il “buco”, si sa, è un “vuoto”. La dialettica pieno/vuoto è, praticamente, l’essenza stessa delle arti plastiche, come, per la fotografia, è quella tra luce ombra, forze complementari e che si esaltano a vicenda; ma nella scultura il “vuoto” acquista un particolare significato quando viene considerato non come un riflesso, oppure come un “risvolto della medaglia”, ma in sé, come fine di un preciso progetto creativo, come oggetto stesso della ricerca, in quanto, come ci dice ancora Azuma, “il vuoto è forma”. Come ha scritto Angelo Scardino (Grottaglie, Taranto, 1986) nel suo interessante libro “La scultura del vuoto”, pubblicato da da Ilmiolibro self publishing nella collana La community di ilmiolibro.it, “la scultura del vuoto tratta l’opera d’arte, ed in particolare la scultura, da un nuovo punto di vista. Anziché valorizzarla per il suo materiale e di conseguenza per la tecnica utilizzata, l’opera viene analizzata per il vuoto che essa contiene”; e ancora: “La scultura, fra le varie arti, occupa realmente uno spazio colmando un vuoto ed allo stesso tempo creandolo”.
Viene così delineato il perimetro di un campo di indagine in cui si può riconoscere, o comunque vedere impegnato lo scultore Bruno Catalano, nato in Marocco nel 1960, che vive e lavora in Francia, al quale, a distanza di due anni, la Galleria Ravagnan di Venezia torna a dedicargli una affascinante “mostra diffusa” (“Les Voyageurs”, che durerà fino a novembre) in concomitanza della 58° Biennale d’Arte di Venezia, dislocata in cinque diverse sedi espositive, tra San Marco e Dorsoduro: Chiesa di San Gallo, Teatro Goldoni, Sina Centurion Palace, la storica Ravagnan Gallery in Piazza San Marco e la nuova sede a Dorsoduro 686. L’esposizione raccoglie una trentina di opere recenti, figure capaci di instaurare un “dialogo” con questi suggestivi ed unici spazi della città lagunare fino a fondersi con essi, creando così, per sei mesi, suggestioni inattese e inimmaginabili con queste sorprendenti sculture in bronzo caratterizzate dalla totale mancanza della parte centrale del corpo, “nelle quali – come sottolinea Enzo Di Martino, curatore della mostra insieme a Lidia Panzeri - le parti vuote assumono la stessa importanza formale ed espressiva dei volumi pieni”.
Al di là, comunque, di quella che è la sua cifra espressiva e il suo originale “linguaggio” estetico, quello che polarizza il suo sforzo creativo e comunicativo, è il contenuto, ovvero la tematica, il “discorso” e l’esito poetico che sono al centro del suo lavoro. Che così ci ha illustrato: “Nel mio lavoro sono alla ricerca del movimento e dell’espressione dei sentimenti; faccio emergere dall’inerzia forme e riesco a levigarle fino a dare loro nuova vita. Proveniente dal Marocco anche io ho viaggiato con valigie piene di ricordi che rappresento così spesso nei miei lavori. Non contengono solo immagini tutte le opere di Catalano sono ricomponibili in un unico tema e in una unica ispirazione poetica, che si concreta in quella che può definirsi la “metafora” del viaggio; ma anche vissuto, i miei desideri: le mie origini in movimento”. Un’urgenza, insomma di dare testimonianza della propria vicenda umana, di un’esperienza autobiografica in cui si aggrovigliano, come si potrebbe dire, “necessità” e “virtù”; un intreccio, cioè, tra un “dover” partire” e un “voler” partire. Costretto infatti ad emigrare in Francia con la famiglia e sbarcato a Marsiglia, a diciotto anni diventa marinaio. L’esperienza dello “sradicamento” e il periodo passato in mare segneranno profondamente la sua esistenza. Marsiglia, dunque, è il suo punto di arrivo, dopo aver navigato per trent’anni senza una dimora fissa, approdando nei più diversi e remoti porti del mondo; ed è qui che ha iniziato la sua carriera: modellando l’argilla prima, la colatura in bronzo poi; la tecnica utilizzata per queste sculture è il bronzo, trattato a frammenti e colorato con tinte mai brillanti che conferiscono alle figure una patina d’altri tempi. Ispirato ai grandi maestri come Rodin , Giacometti , Camille Claudel, il marsigliese César (César Baldaccini) e soprattutto Bruno Lucchesi, da cui apprende la tecnica di modellare l’argilla, lo scultore riesce a superare la sfida dei suoi predecessori, aggiungendo una quarta dimensione nel suo tentativo surrealista, ben riuscito, di creare il vuoto nello spazio, utilizzando inizialmente l’argilla per evolvere in seguito verso l’uso del bronzo.
Questi anonimi corpi, pur così mutilati, sono in grado però di camminare, verso quale direzione non è dato saperlo; e gli elementi necessari e sufficienti per farlo – sembrano suggerirci le sue figure svuotate di buona parte centrale del corpo – sono la testa, una valigia e i piedi. La testa, ovviamente, per immaginare la meta e per conservare la memoria; la valigia per portare il ricambio della biancheria e i sogni; i piedi per muoversi. E naturalmente un paio di scarpe, possibilmente nuove, come cantava il grande Ettore Petrolini, per girare tutto il mondo. Quello che promana dalle sue sculture è una sorta di identificazione tra la vita dell’uomo e il viaggio; e con il viaggio, la nostalgia, l’inseparabile valigia per un artista costretto a lasciare da bambino il suo paese per altri lidi. Tutto ciò popola l’inquietudine e l’ansia creativa di Catalano, che si esprimono in una trasfigurazione artistica sofferta, densa di emozioni, di rimpianti, ma anche di speranza e di un bisogno irrefrenabile, quasi ossessivo, di approdare presso civiltà e culture nuove e sconosciute. Come Ulisse, come il veneziano Corto Maltese. Nelle sue “Città invisibili” scriveva Italo Calvino: “Si può viaggiare per migliaia di chilometri ma non si può mai allontanarsi veramente da se stessi”. Una tematica coinvolgente, dunque, legata alla nostra più scottante attualità, con gli esodi biblici e le complesse problematiche connesse ai fenomeni migratori di portata epocale. Mai tanta gente, da immemorabili tempi, si era visto “viaggiare”, come nel nostro tempo. Come oggi; e non per una scelta, ma per decidere se morire o vivere.
di Michele De Luca
“Ogni tanto – ebbe a dire nel corso di un intervista il grande scultore giapponese Azuma, scomparso tre anni fa - vado in crisi perché non so dare senso al vuoto, ma il vuoto per magia si anima e diventa un pieno. Nel vuoto si annida lo spirito, cioè l’essenza delle cose e delle persone e rappresenta ciò che niente può annullare a differenza del pieno che il tempo corrode e distrugge”. Risuonano le parole, di un altro grande maestro, Henry Moore: “Il primo buco scavato nella pietra fu per me una vera rivelazione”. E il “buco”, si sa, è un “vuoto”. La dialettica pieno/vuoto è, praticamente, l’essenza stessa delle arti plastiche, come, per la fotografia, è quella tra luce ombra, forze complementari e che si esaltano a vicenda; ma nella scultura il “vuoto” acquista un particolare significato quando viene considerato non come un riflesso, oppure come un “risvolto della medaglia”, ma in sé, come fine di un preciso progetto creativo, come oggetto stesso della ricerca, in quanto, come ci dice ancora Azuma, “il vuoto è forma”. Come ha scritto Angelo Scardino (Grottaglie, Taranto, 1986) nel suo interessante libro “La scultura del vuoto”, pubblicato da da Ilmiolibro self publishing nella collana La community di ilmiolibro.it, “la scultura del vuoto tratta l’opera d’arte, ed in particolare la scultura, da un nuovo punto di vista. Anziché valorizzarla per il suo materiale e di conseguenza per la tecnica utilizzata, l’opera viene analizzata per il vuoto che essa contiene”; e ancora: “La scultura, fra le varie arti, occupa realmente uno spazio colmando un vuoto ed allo stesso tempo creandolo”.
Viene così delineato il perimetro di un campo di indagine in cui si può riconoscere, o comunque vedere impegnato lo scultore Bruno Catalano, nato in Marocco nel 1960, che vive e lavora in Francia, al quale, a distanza di due anni, la Galleria Ravagnan di Venezia torna a dedicargli una affascinante “mostra diffusa” (“Les Voyageurs”, che durerà fino a novembre) in concomitanza della 58° Biennale d’Arte di Venezia, dislocata in cinque diverse sedi espositive, tra San Marco e Dorsoduro: Chiesa di San Gallo, Teatro Goldoni, Sina Centurion Palace, la storica Ravagnan Gallery in Piazza San Marco e la nuova sede a Dorsoduro 686. L’esposizione raccoglie una trentina di opere recenti, figure capaci di instaurare un “dialogo” con questi suggestivi ed unici spazi della città lagunare fino a fondersi con essi, creando così, per sei mesi, suggestioni inattese e inimmaginabili con queste sorprendenti sculture in bronzo caratterizzate dalla totale mancanza della parte centrale del corpo, “nelle quali – come sottolinea Enzo Di Martino, curatore della mostra insieme a Lidia Panzeri - le parti vuote assumono la stessa importanza formale ed espressiva dei volumi pieni”.
Al di là, comunque, di quella che è la sua cifra espressiva e il suo originale “linguaggio” estetico, quello che polarizza il suo sforzo creativo e comunicativo, è il contenuto, ovvero la tematica, il “discorso” e l’esito poetico che sono al centro del suo lavoro. Che così ci ha illustrato: “Nel mio lavoro sono alla ricerca del movimento e dell’espressione dei sentimenti; faccio emergere dall’inerzia forme e riesco a levigarle fino a dare loro nuova vita. Proveniente dal Marocco anche io ho viaggiato con valigie piene di ricordi che rappresento così spesso nei miei lavori. Non contengono solo immagini tutte le opere di Catalano sono ricomponibili in un unico tema e in una unica ispirazione poetica, che si concreta in quella che può definirsi la “metafora” del viaggio; ma anche vissuto, i miei desideri: le mie origini in movimento”. Un’urgenza, insomma di dare testimonianza della propria vicenda umana, di un’esperienza autobiografica in cui si aggrovigliano, come si potrebbe dire, “necessità” e “virtù”; un intreccio, cioè, tra un “dover” partire” e un “voler” partire. Costretto infatti ad emigrare in Francia con la famiglia e sbarcato a Marsiglia, a diciotto anni diventa marinaio. L’esperienza dello “sradicamento” e il periodo passato in mare segneranno profondamente la sua esistenza. Marsiglia, dunque, è il suo punto di arrivo, dopo aver navigato per trent’anni senza una dimora fissa, approdando nei più diversi e remoti porti del mondo; ed è qui che ha iniziato la sua carriera: modellando l’argilla prima, la colatura in bronzo poi; la tecnica utilizzata per queste sculture è il bronzo, trattato a frammenti e colorato con tinte mai brillanti che conferiscono alle figure una patina d’altri tempi. Ispirato ai grandi maestri come Rodin , Giacometti , Camille Claudel, il marsigliese César (César Baldaccini) e soprattutto Bruno Lucchesi, da cui apprende la tecnica di modellare l’argilla, lo scultore riesce a superare la sfida dei suoi predecessori, aggiungendo una quarta dimensione nel suo tentativo surrealista, ben riuscito, di creare il vuoto nello spazio, utilizzando inizialmente l’argilla per evolvere in seguito verso l’uso del bronzo.
Questi anonimi corpi, pur così mutilati, sono in grado però di camminare, verso quale direzione non è dato saperlo; e gli elementi necessari e sufficienti per farlo – sembrano suggerirci le sue figure svuotate di buona parte centrale del corpo – sono la testa, una valigia e i piedi. La testa, ovviamente, per immaginare la meta e per conservare la memoria; la valigia per portare il ricambio della biancheria e i sogni; i piedi per muoversi. E naturalmente un paio di scarpe, possibilmente nuove, come cantava il grande Ettore Petrolini, per girare tutto il mondo. Quello che promana dalle sue sculture è una sorta di identificazione tra la vita dell’uomo e il viaggio; e con il viaggio, la nostalgia, l’inseparabile valigia per un artista costretto a lasciare da bambino il suo paese per altri lidi. Tutto ciò popola l’inquietudine e l’ansia creativa di Catalano, che si esprimono in una trasfigurazione artistica sofferta, densa di emozioni, di rimpianti, ma anche di speranza e di un bisogno irrefrenabile, quasi ossessivo, di approdare presso civiltà e culture nuove e sconosciute. Come Ulisse, come il veneziano Corto Maltese. Nelle sue “Città invisibili” scriveva Italo Calvino: “Si può viaggiare per migliaia di chilometri ma non si può mai allontanarsi veramente da se stessi”. Una tematica coinvolgente, dunque, legata alla nostra più scottante attualità, con gli esodi biblici e le complesse problematiche connesse ai fenomeni migratori di portata epocale. Mai tanta gente, da immemorabili tempi, si era visto “viaggiare”, come nel nostro tempo. Come oggi; e non per una scelta, ma per decidere se morire o vivere.