Renzo Bellanca, l’attraversamento della memoria

A cura di: Rocco Zani

Renzo Bellanca, l’attraversamento della memoria Le cifre di biacca sono impresse nel reticolo di una carta remota. O su di essa costruiti con l’artificio di una calcografia manuale, stimata, scrupolosa “come di una materia tangibilmente presente, con croste e spessori” che sottraggono fiato e tentano di ridare ai capitoli della narrazione un ordine, uno schieramento. 

Le cifre di biacca sono impresse nel reticolo di una carta remota. O su di essa costruiti con l’artificio di una calcografia manuale, stimata, scrupolosa “come di una materia tangibilmente presente, con croste e spessori” che sottraggono fiato e tentano di ridare ai capitoli della narrazione un ordine, uno schieramento. Cifre numeriche e letterali come timbri sonori su tessuti offerti al ricamo dell’immaginario. Ovvero “stazioni” solide da cui intraprendere il viaggio.
Diamo un senso al percorso, allora. Nasce in Sicilia Renzo Bellanca. Ma non basta, perché non è la Sicilia dei flussi continentali  o quella dei  canovacci metropolitani; non è neppure la Sicilia del decorativismo o quella dialettale. Bellanca nasce ad Aragona, nell’Occhiu di Macalube, ovvero nella terra dell’argilla rovente dove tutto è immerso ma pronto a deflagrare, a restituire alla luce del giorno – o alle notti lunari – la pancia del sottosuolo. Per rivoli di fango e per suoni sordi, profondi, strozzati. Eppure liberatori. Una terra dove il grigio non è pertinenza dell’occhio comune ma mistura di pigmenti, del fuoco, delle crete, dell’acqua sotterranea, del cielo.  Dinanzi, il mare. Quel Mediterraneo che, come direbbe Erri De Luca “oggi trasporta vite in viaggio” e regola, quasi naturalmente, una contaminazione di sguardi, di parole, di sofferenze. Dinanzi, il mare.  Come prologo di ogni destinazione, non già come mezzo visionario dell’incedere ma strumento – esso stesso – di ogni cromia poetica: leggendario, pauroso,coscienza  indecifrabile.
E allora, se il presente è reticolo non ancora deliberato, è di certo il tempo trascorso – come memoria comune – a stabilire elementari conoscenze, a dettare la storia, a riscattare ogni bonaria ipotesi. Le cifre, siano esse numeri o parole, rafforzano, nella loro materia intenzionata la sostanza di una radice universale, come volano indispensabile di successive indagini. Sono ai margini della campitura a “spessorare” il tempo trascorso, la memoria, la presenza – quasi assillante – di un contenuto dal quale, inevitabilmente, ripartire. E’ quell’Occhiu di Macalube che ripristina – nell’impasto marcato della parola e del numero – i dialoghi millenari ravvisando in questi la dimensione della conoscenza: il dubbio guardingo, le lusinghe del divenire, l’occultamento e le declinazioni del tempo. Ecco, Renzo Bellanca sembra ridefinire – in particolar modo in queste opere inedite presentate nei rinnovati spazi de “La Saletta” – un sistema periferico cui guardare sempre con perentoria attenzione perché da quelle lettere – da quelle cifre – è conveniente ripartire trascinandosi dietro le pieghe del racconto comune.
 Dinanzi all’Occhiu c’è il mare. E pertanto l’altrove. Il luogo della verifica, dell’immaginario, certo. Ovvero la dimensione di ogni possibile svelamento, l’ignoto che è prerogativa quasi statutaria di nuovi sigilli, di inedite tracce, di esclusive impressioni.  Lo attraversa Renzo Bellanca, come navigante forestiero e a quell’anonimo sapere affida “suppliche” per avvistare nuovi responsi. A quel mare – che è controversia, timore, profezia, auspicio – Renzo Bellanca sembra consegnare la generosità del colore, le sue trasparenze, i bagliori dell’oro e del vermiglio, i sipari notturni del blu ovvero le grinze dell’ocre assolato. Come drappi tonali – vele del navigante – che smagliano la materia – le croste e gli spessori cifrati – e la stemperano per aliti e afflati.
 Ecco, a me pare che la narrazione pittorica di Renzo Bellanca sia “costruita” su piani apparentemente separati (per temporalità, per alibi, per sentenze) eppure capaci di fatali intendimenti come se uno strappasse all’altro il senso prezioso della razionalità, della storia, dell’origine per farne codice di progressiva osservazione, di sorpresa: e l’altro ampliasse, per millesimi, le prospettive esistenti.  Questa contesa di sguardi, posti quasi a retroguardia e ad avamposto dell’incedere segnano, a mio dire, il patrimonio linguistico di Bellanca pittore. Un racconto in cui il prologo (la memoria) non è condizione di diffuso ristagno ma fitta di echi e di humus; al pari dell’illusorio epilogo fatto di cambi di rotta, di ascolto, di rimandi.
Un viaggio imbastito sulle coniugazioni del colore, sui rilievi tonali, sugli incerti, e per questo straordinari, accordi. In un crocevia mille volte ribadito fino a farne – consapevolmente – una sorta di codice d’onore, o meglio, di respiro identificativo. Ma c’è dell’altro, ovvero il ricongiungimento con una tradizione pittorica tutta italiana (indissolubilmente italiana), non già quale evocazione di un limite o di un “cortile culturale” ma come filtro graduale e prolungato di una Storia unica e senza eguali. Che non è (soltanto) quella del secolo scorso ma che distilla identità remote per farne sillabario corrente, humus di inediti attraversamenti.  Nell’ocre e nel cadmio, nelle biacche terrose, ovvero nei radicali sconfinamenti tonali Renzo Bellanca pare far propri gli echi sostenuti di un tempo, culturale e artistico”  che è davvero patria comune. Ma il “richiamo ai padri” non è un limite o luogo di saccheggio; nel caso del pittore di Aragona è la conferma che l’Arte è una spirale di ascolto che raccoglie le voci e i riflessi, l’inganno e le offerte del sottosuolo. Come l’occhio. Quello di Macalube.

La Saletta, dal 24 maggio, la mostra “Carte”, opere inedite del Maestro siciliano

 

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