LA PLASTICA TRA QUOTIDIANITÀ E ARTE strizzando un occhio all’eco-sostenibilità
Nell’anno della chimica un convegno dal titolo emblematico Arte e Plastica, tenutosi a Torino nel Centro dei Congressi dell’Unione industriale il 4 ottobre, ha ripercorso la storia di come le materie plastiche abbiano profondamente modificato il nostro modus vivendi, segnando le tappe di una progressiva evoluzione tra sperimentazione e tecnologia, e di come nelle loro sconfinate declinazioni siano diventate immagini del nostro tempo: dalle calze di nylon agli aerei, dai computer ai mobili, dagli utensili alle protesi usate in chirurgia.
di Loredana Rea
Nell’anno della chimica un convegno dal titolo emblematico Arte e Plastica, tenutosi a Torino nel Centro dei Congressi dell’Unione industriale il 4 ottobre, ha ripercorso la storia di come le materie plastiche abbiano profondamente modificato il nostro modus vivendi, segnando le tappe di una progressiva evoluzione tra sperimentazione e tecnologia, e di come nelle loro sconfinate declinazioni siano diventate immagini del nostro tempo: dalle calze di nylon agli aerei, dai computer ai mobili, dagli utensili alle protesi usate in chirurgia.
La plastica ha compiuto poco più di cento anni, anche se sembra non dimostrarli, proprio mentre le preoccupazioni per la sostenibilità ambientale tornano a porre l’accento sulla necessità di assicurare nel prossimo futuro l'utilizzo di fonti rinnovabili non inquinanti e completamente biodegradabili. Se, infatti, ci sono voluti pochi anni dalla sua commercializzazione per capire che le prospettive di utilizzo erano pressoché infinite, tanto da permetterne una diffusione capillare nella quotidianità di ognuno - buon isolante elettrico, chimicamente stabile, resistente al calore e agli urti, piacevole al tatto, praticamente indistruttibile e, soprattutto, economico - è altrettanto vero che il problema dell’impatto ambientale connesso all’alta capacità inquinante e la difficoltà di smaltimento dei materiali sintetici di derivazione plastica solo negli ultimi anni è arrivato alla ribalta, fra nuove urgenze di tutela dell'ambiente e progressi tecnici.
La storia inizia nel 1907, quando il chimico belga Leo Baekeland comincia a sviluppare un nuovo materiale, la polissi-metilen-glicolanidride, un polimero resinoso frutto di una reazione chimica tra fenoli e formaldeide, che battezza bachelite. Le sue principali caratteristiche sono l’estrema duttilità e la grande resistenza alle sollecitazioni, cui bisogna aggiungere la leggerezza, la solidità, le capacità isolanti, la stabilità chimica e infine l’economicità del processo produttivo, riunendo i vantaggi del legno, della ceramica e della gomma per prestarsi a infinite soluzioni. Dal 1910 quando negli Stati Uniti è fondata la General Bakelite Company, la produzione è in scala industriale per dare forma a oggetti quotidiani di largo consumo: radio, telefoni, vasi, vassoi, posacenere, penne e perfino calotte di accensione per le prime automobili.
Al 1928 risale la sperimentazione delle fibre poliammidiche, commercializzate con la denominazione di nylon, e la conseguente creazione dei primi tessuti sintetici, che negli anni quaranta rivoluzionano l'abbigliamento delle donne con la realizzazione di sottovesti e calze fino ad allora esclusivamente in seta.
Nel 1948 i laboratori di ricerca dell'aviazione degli Stati Uniti mettono a punto il plexiglass, la prima plastica trasparente e infrangibile in sostituzione del vetro.
Nel 1954, l'italiano Giulio Natta sfrutta le sue intuizioni sullo studio dei polimeri, realizzando, con la collaborazione di industrie italiane e americane, il polipropilene isottattico, una plastica particolarmente resistente alle alte temperature, poi ampiamente pubblicizzata con il nome di Moplen. Gino Bramieri in un Carosello tesseva le lodi delle bacinelle in materiale sintetico con la battuta “e mo’? …e mo’, moplen!” parafrasando appunto il nome del materiale con cui erano fabbricate. Nel 1963 l’'invenzione valse a Natta il Nobel per la chimica, accompagnato dalla lungimirante motivazione: “Lei è riuscito a preparare mediante un nuovo metodo macromolecole che hanno una struttura spaziale regolare. Le conseguenze scientifiche e tecniche della sua scoperta sono immense, e ancora non possono essere valutate pienamente”.
Oggi la ricerca si è rivolta soprattutto alle plastiche intelligenti, biodegradabili e conduttrici, e alle plastiche speciali, capaci di resistere a condizioni eccezionali di temperatura, di pressione, di sforzo, perfino in un ambiente estremo come il corpo umano, tanto che sono realizzate in plastica molte delle micro e macro protesi usate in chirurgia, per continuare la missione originaria di migliorare la qualità della vita.
Inevitabilmente tutte le caratteristiche che hanno contribuito alla diffusione pressoché capillare della plastica, hanno stimolato fin da principio la creatività artistica, offrendo alla sperimentazione quegli sconfinamenti e quelle interferenze che costituiscono il tessuto vitale della contemporaneità. L’ingresso nel mondo dell’arte di tutti quei materiali sintetici di produzione industriale, avviene negli anni in cui si sviluppano i movimenti delle avanguardie storiche, ma il loro programmatico utilizzo è legato alla sperimentazione degli artisti costruttivisti e/o legati alle esperienze maturate nel Bauhaus.
Naum Gabo utilizza la celluloide per la costruzione delle sue sculture con l’intenzione di indagare i possibili effetti ottici di luminosità, trasparenza e leggerezza che la nuova resina permette in rapporto a strutture tridimensionali. Le prime opere di cui è rimasta documentazione risalgono al 1916, ma è accertato che già in anni precedenti realizza composizioni utilizzando questo nuovo materiale, prodotto attraverso la nitrazione della cellulosa e l’additivazione con la canfora.
La celluloide fabbricata in quei primi anni si è però rivelata poco stabile e quei lavori iniziali di Gabo sono andati completamente distrutti per il deterioramento del materiale. Quando poco dopo il 1920 è commercializzato l’acetato di cellulosa, più stabile rispetto alla celluloide, l’artista lo adotta per le sue Costruzioni nello spazio e, anzi, lo sostituisce all’altra materia, tanto che quasi tutte le opere di Gabo della seconda metà degli anni dieci conservate nei musei sono state ricostruite dall’artista stesso con acetati di cellulosa. Alla metà degli anni trenta inizia a utilizzare un altro materiale plastico il polimetacrilato di metile, denominato perspex, che riesce ad ottenere prima della sua commercializzazione grazie all’amicizia con uno dei dirigenti dall’industria che lo produce. L’utilizzo di nuovi materiali stimola la sua sensibilità plastica, tanto che nel 1937 per giustificarne criticamente la loro adozione scrive: “I materiali in scultura giocano un ruolo fondamentale, la genesi di una scultura è infatti determinata principalmente dal materiale di cui è composta. Non c’è limite alla varietà dei materiali che possono essere utilizzati in scultura. Intagliata, scolpita, modellata, una scultura non cessa di essere scultura finché le qualità estetiche rimangono in accordo con le proprietà specifiche del materiale utilizzato”.
Nel 1942 conosce il nylon, che da quel momento utilizza sistematicamente sotto forma di fibre e filamenti. Le qualità intrinseche alle materie plastiche, trasparenza, luminosità, duttilità, permettono, infatti, di costruire nuove forme giocate sull’estremo rapporto tra vuoto e luce. Insieme al fratello Antoni Pevsner, Gabo per tutta la sua lunga attività creativa sperimenta le possibilità espressive della plastica per creare forme capaci di comunicare la complessità del proprio tempo, in cui l’accellerazione tecnologica lasciava presagire la molteplicità di future opportunità.
A partire dagli anni venti materiali plastici trasparenti e opachi sono utilizzati anche da Laszló Moholy-Nagy, interessato a indagare le relazioni tra arte, scienza e industria. Comincia a dipingere su supporti trasparenti per moltiplicare gli affetti della luce sui pigmenti, successivamente usando celluloidi, acetati di cellulosa, bachelite, galalite e quindi plexiglass costruisce strutture tridimensionali in cui la pittura si rapporta a forme concave e convesse. I Dipinti di luce sono lastre e fogli di plastica foggiati e forati, la cui forma è definita ed esaltata dalla luce proveniente da lampade inserite nell’opera stessa. Il lavoro più complesso è certamente Modulatore di luce e di spazio, una struttura che azionata da un motore elettrico, attraverso uno studiato gioco di luci e trasparenze, crea sorprendenti forme plastiche in movimento.
Nel secondo dopoguerra può dirsi conclusa la fase pionieristica della sperimentazione delle diverse materie plastiche e si apre quella di un progressivo consolidamento delle innovazioni tecnologiche come indispensabile supporto al rinnovamento del linguaggio della ricerca contemporanea.
Nei musei accanto ai Cellotex di Burri compaiono allora opere in plexiglass di Archipenko e Louise Nevelson, in resine policrome di Miró e Niki de Saint Phalle, in poliestere e polimetacrilato di metile di Arman, in poliestere espanso di Dubuffet, in poliuretano di Pistoletto e Gilardi e ancora in resine sintetiche di Geoge Segal e Duane Hanson, fino ad arrivare a Tony Cragg che nel 1981 per Inghilterra vista dal nord, conservata alla Tate Modern di Londra, utilizza frammenti di plastica colorata raccolti nel greto dei fiumi e sul ciglio delle strade. E poi ancora le biciclette di Loris Cecchini, le tartarughe dorate e i suricati rosa di Cracking Art e i raccapriccianti plastici dei Chapman, senza dimenticare Mueck e Cattelan.