Il “Bel Paese” Di George Tatge. Alla Galleria C2 di Firenze
Perugia. Terra vecchia e terra nuova è il primo libro realizzato nel 1984 dal fotografo italo-americano George Tatge (nato ad Istambul nel 1951, vive in Italia tra Firenze e Todi da circa quarant’anni, e quindi oramai ben più italiano che americano, nonostante gli sia rimasto qualche accento della sua madrelingua inglese), con il quale egli offriva un suggestivo ritratto in bianco e nero della città di Pietro Vannucci,di Michele De Luca
Perugia. Terra vecchia e terra nuova è il primo libro realizzato nel 1984 dal fotografo italo-americano George Tatge (nato ad Istambul nel 1951, vive in Italia tra Firenze e Todi da circa quarant’anni, e quindi oramai ben più italiano che americano, nonostante gli sia rimasto qualche accento della sua madrelingua inglese), con il quale egli offriva un suggestivo ritratto in bianco e nero della città di Pietro Vannucci, nel quale già il fotografo aveva delineato con chiarezza quello che, per i decenni a venire, sia nel lavoro che avrebbe svolto per lunghi anni presso la Fratelli Alinari di Firenze come direttore tecnico-fotografico, sia nella sua ricerca artistica più autonoma e certamente meno “professionale”, sarebbe stato l’ambito della sua ricerca, concentrata in una visione di quello che spesso, allo sguardo comune, è l’impercettibile trascorrere del tempo, in un confronto dialettico tra il passato e il presente; o, se si vuole – si perdoni il gioco di parole - nello scoprire, con una osservazione fatta di “tempi lunghi”, di rara sensibilità percettiva, il passato che è nel nostro presente e il presente che con la sua mutevolezza e il suo “effimero” rinnova – a volte purtroppo deturpandolo – il volto del passato. Per questo libro, cui val la pena di ricordare la collaborazione di una persona eccezionalmente squisita e colta come il professor Roberto Abbondanza, il quale fece da contrappunto alle immagini con le sue dotte didascalie, Tatge si avvalse della prefazione di un grande scrittore come Enzo Siciliano, il quale, tra l’altro, annotava: “Le foto di pietre, o quelle dove l’ombra degli archi spezza il giorno e crea drastico contrasto col geometrismo delle costruzioni, talvolta folle, sono fra le più impressionanti foto di città che ci sia toccato vedere. L’analiticità dell’obiettivo di Tatge si fa, in qualche caso, poesia”.
Da allora, con la fedele Deardorff, macchina a soffietto che realizza negativi di grande formato, e stampando personalmente i negativi, Tatge ha continuato il suo lavoro di artista che usa la fotografia fino a giungere ad essere conosciuto ed apprezzato anche dal grande pubblico, specie con la mostra “Presenze. Paesaggi italiani” allestita qualche tempo fa’ nelle sale di Villa Bardini a Firenze, in cui, come ebbe a scrivere in catalogo il curatore Walter Guadagnini, “quello di Tatge è un viaggio alla scoperta di porzioni di territorio italiano, sotto il segno di un'analisi che è insieme lirica e impietosa, curiosa e lucida, sempre sorprendente...”. Ed è un giudizio che ci illumina nel guardare le ventiquattro immagini che compongono ora il percorso della mostra presso lo Studio di Arte Contemporanea C2 sempre a Firenze (Via Ugo Foscolo, 6) , “Italia metafisica”, curata da Silvia Cangioli, la prima di una serie di esposizioni che l’artista Antonio Lo Pinto ha in programma di ospitare nel suo spazio luminoso e pieno di fascino, che un tempo accoglieva antichi lavatoi.
Divisa in tre sezioni, anche questa mostra è un “viaggio” alla ricerca delle tracce che l’uomo ha lasciato nel tempo sul territorio italiano attraverso l’architettura, sulle orme di Le Corbusier, che affermava: “L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce”. Tatge riesce magicamente a far convivere passato e presente nelle sue immagini così ricche di particolari, di sfumature e di giochi di luce; nella prima parte i monumenti antichi, testimoni viventi della classicità, che campeggiano maestosi ma sempre “dialogando” con il mondo di oggi, nella seconda è la geometria delle architetture contemporanee che si confronta talora con l’antico, mentre nella terza prendono il sopravvento costruzioni che trasmettono un forte e inquietante senso si precarietà, tema molto caro al fotografo. Il suo è un genere di fotografia – fa notare la Cangioli - che “richiede tempi lunghissimi: la ricerca attenta dell’inquadratura, l’attesa della luce giusta, la profondità di osservazione da grande artista”. Tatge ha sempre prediletto una fotografia ricca di simboli ed “apparizioni”, aperta a più strati di interpretazione: ogni immagine deve quindi esser guardata a lungo perché se ne possano cogliere diverse chiavi interpretative e scoprirne i dettagli fino a penetrare sotto la loro apparenza, per ammirarne anche la speciale nitidezza, e l’infinita varietà dei toni, che invitano a uno sguardo lungo e meditativo. Via via, diventa chiaro come ogni inquadratura si traduca in un vero e proprio “racconto”, ed ogni immagine oltre a raffigurare un luogo reale, possa diventare il riflesso dell’anima: lo specchio di un “paesaggio interiore”. Come dire, che l’apparire dei luoghi, agli occhi di Tatge, possa diventare il luogo dell’apparire.