Paolo Gobbi "Ciò che si vede” di Maurizio Coccia

Paolo Gobbi "Ciò che si vede” di Maurizio Coccia
CIÒ CHE SI VEDE
1.
Di tutte le espressioni artistiche la musica è quella che raggiunge il massimo grado di astrazione. Se si esclude, naturalmente, quella nata per accompagnare le parole.
La musica non racconta. Non rappresenta. Non significa. Non comunica. È puro veicolo sensoriale per l’emozione. È universale. Versatile. Poliglotta. Senza tempo.
La pittura, invece, nasce come linguaggio decorativo, apotropaico e protettivo. Il suo vertice qualitativo è la perizia mimetica, la capacità simulativa, la somiglianza con la natura. Dalla scoperta della fotografia in avanti, però, le cose sono cambiate. E molto.
A quel punto, persa la battaglia per la riproduzione, da ornamento la pittura si fa riflessione, struttura cognitiva per l’indagine del reale. Il virtuosismo realizzativo è meno importante delle potenzialità analitiche. Per non dire della piacevolezza, ripudiata dalle avanguardie storiche. Fare pittura, quindi, da allora significa (anche) esaminare la natura del linguaggio artistico, la sua essenza percettiva.
 
2.
Nella tenace rarefazione visiva dei lavori di Paolo Gobbi, c’è il tentativo di collegare astrazione e analisi, emozione e verifica empirica. Si riferisce al modello figurativo delle avanguardie come a un ready-made linguistico, non un canone normativo. È un’iconografica austera, che privilegia il segno nella duplice accezione di segno/alfabeto e segno/negazione. Nel primo caso assume l’aspetto di filamenti fitomorfi, di esili architetture organiche. Come esercizi di geometria onirica. O di una biologia sperimentale e visionaria. Un tracciato evanescente a metà fra urbanistica e neuroscienza.
Quando invece ghermisce la materia, la scava e la elimina, Gobbi ricostruisce un immaginario rettilineo di evidenze contraddittorie, che sarebbe piaciuto al Barthes dei Frammenti. Gobbi, infatti, si concentra su una rigorosa bidimensionalità, frontale e senza esiti narrativi. Egli risale all’essenza della pittura, alla purezza adamantina del gesto tracciante. Così facendo ne esalta l’anatomia, la sintassi compositiva. Un costrutto visivo, cioè, non illusionistico. Una morfologia non scenografica. Una Gestalt autosufficiente, priva di licenze aneddotiche.
Tuttavia, ogni segno – in positivo o negativo – è la negazione stessa della bidimensionalità. Qui sta la tensione barthesiana delle contraddizioni. È l’espressione di una spazialità puramente ottica, non razionale. Un’estensione atmosferica esclusivamente pittorica dove si manifesta la realtà. Perché i frutti dell’immaginazione, per essere conosciuti, devono essere detti. E una volta detti, essi diventano – fugacemente, come la vita – veri.
 
3.
Le opere recenti di Paolo Gobbi hanno il vantaggio di essere segni privi di referente. O meglio, significanti senza significato. Ciò permette loro di attingere alla fonte originaria della pittura. Ossia al valore positivo di un insieme in cui tutte le unità sono interdipendenti e trovano senso compiuto all’interno del sistema (l’opera) che le ha generate e le contiene.
Le realizzazioni di cui parlo sembrano percorse da una luce polare. Hanno una gamma cromatica estremamente sofisticata, che muta col variare delle condizioni ambientali. Sono di una precisione non misurabile intellettualmente. Fanno venire in mente il termine inglese Rightness, che può significare “esattezza” e “rettitudine”, perché riguarda sia la tecnica sia l’etica.
Le figure di Gobbi organizzano lo spazio (soprattutto il vuoto) con la perentorietà dei fenomeni naturali. Immagini archetipiche che hanno sempre l’ultima parola. E indiscutibile adeguatezza, formale e sostanziale, grazie all’onestà del trovare in sé il proprio fine.
Rightness: la giustezza di ciò che si vede e non di ciò che si sa.
Maurizio Coccia



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