CONVERSAZIONI D’ARTE:Incontro con l’artista Rosemarie Sansonetti di Maria Vinella
Rosemarie Sansonetti, pugliese, maestro d’arte di raffinata sensibilità. Dopo una breve esperienza a Roma come scenografa per gli spettacoli di un gruppo di teatro sperimentale, approfondisce gli studi artistici presso l’ISIA di Firenze e all’Accademia di Belle Arti di Bari dove si diploma in Scultura. Nei primi anni novanta fonda la galleria Museo Nuova Era, che tuttora dirige occupandosi dell’organizzazione di mostre d’arte contemporanea ed eventi culturali. Dalla prima metà degli anni ottanta avvia la sua attività espositiva.
Rosemarie, quale è stata la tua formazione iniziale? Come nasce il tuo interesse e la tua passione per l’arte?
Il mio interesse per l’arte nasce già dalle scuola elementare, grazie ad una maestra molto all’avanguardia nei programmi didattici che privilegiava gli aspetti legati alla creatività e all’utilizzo del disegno in ogni disciplina. L’influenza della mia famiglia è stata anche fondamentale, mia madre dipingeva e per un periodo ha praticato la ceramica. I miei genitori mi portavano a teatro e a visitare musei, abituandomi ai vari linguaggi visivi, da quelli antichi ai più contemporanei. Ricordo bene tutta la stagione teatrale del teatro Petruzzelli, nella Bari degli anni ottanta. Così ho scoperto il teatro d’avanguardia nazionale ed internazionale, molto importante per la mia formazione.
Come inizia il tuo lavoro? Da dove prende avvio la tua ricerca, che mi sembra orientata agli inizi verso una pittura d’impronta espressionista. Giusto?
La mia ricerca nasce attraverso la pittura d’impronta espressionista. Ma dopo un corso d’intaglio a Firenze ho sperimentato l’utilizzo del legno realizzando oggetti e sculture d’ispirazione tribale molto legate al mio intersesse di allora per la scultura africana. L’utilizzo della luce che in seguito caratterizzerà tutto il mio lavoro si manifesta in quel periodo con l’uso dei colori fluorescenti e delle lampade di wood che fanno parte dei primi esperimenti. In seguito il ricorrere alla luce come impronta e aura luminosa nelle fotocopie traslate e nei cristalli incisi con il laser è sotteso a indicare un fattore immateriale che tende ad una leggerezza estrema dell’ opera e allude ad una essenza spirituale. Lo stesso tema è affrontato in altro modo nella messa in scena di oggetti che sfidano i normali parametri spazio/temporali e la legge di gravità ponendosi al di là delle nostre percezioni razionali .
E in questo percorso, che importanza ha avuto per te e per la tua formazione l’incontro con Adele Plotkin?
Adele è stata mia maestra e in seguito amica. Lei mi ha trasferito il suo sapere ricevuto alla Yale University da Albers, il tutto filtrato dalla straordinaria capacità di sollecitare un molteplice sguardo percettivo. I suoi disegni - dove la duplice lettura obbligava a considerare spazio interno ed esterno e contemporaneamente a comprendere il vuoto che era parte fondamentale dell’insieme - mi ha insegnato moltissimo sugli equilibri da valutare in un’opera o nello spazio di un’installazione. Tutto il suo lavoro sull’ambiguità percettiva dettato dalla triade linea-contorno-spazio, da cui ho attinto ispirazione, è stato di forte impatto per la mia ricerca.
Come ti sei confrontata con la critica d’arte che ha seguito l’evoluzione del tuo lavoro? In cosa ti riconosci di più? In cosa ti rispecchi …
Tra i critici che hanno scritto di me è stato significativo il contributo di Lucrezia De Domizio di cui apprezzo la forte militanza nonché la grande autonomia culturale e di scelte relative agli artisti che segue e propone. Inoltre, il suo lavoro di promotrice di piccoli e grandi momenti di scambio tra intellettuali, curatori, artisti ha sempre stimolato incontri e conoscenze fondamentali per il mio lavoro.
Ti occupi preferibilmente di pittura, scultura, fotografia. Prediligi la fusione di codici o altro? Puoi raccontarci quali linguaggi preferisci?
Il linguaggio che preferisco in assoluto è l’installazione o meglio l’opera ambientale, possibilmente site specific. È molto importante per me confrontarmi con lo spazio e i rapporti che questo determina tra i vari attori e fattori dell’allestimento. Sinceramente prediligo un approccio sinestetico che coinvolga a pieno tutti i sensi dell’osservatore; un approccio che possa coinvolgerlo in armonia con l’ambiente che lo ospita.
Rosemarie, come si lega il tuo lavoro di artista (e anche quello di insegnante di discipline visive) con la continua e faticosa attività di direzione di uno spazio espositivo?
Tutto si lega bene in realtà. Contemporaneamente alla mia attività artistica e a completamento di questa, seguo con soddisfazione la direzione di uno spazio culturale da me fondato nel 1990: il Museo Nuova Era. Il lavoro per la galleria mi ha permesso di creare una rete di sinergie che per me vale quanto realizzare un’opera. Il confronto con gli artisti, i curatori, la cura degli allestimenti e della comunicazione segna un valore aggiunto al mio lavoro e alla mia poetica facendola rientrare in una sorta di missione sociale e culturale che è sempre in divenire e si arricchisce continuamente di contributi umani ed intellettuali.
Cosa ti interessa di più nel rapporto con il pubblico, con l’osservatore …
Ho cominciato ad esporre negli anni ‘80 presso la piccola chiesetta di Polignano a Mare che era dedicata al grande Pino Pascali. Avevo 17 anni ed ero molto giovane e poco esperta del mondo dell’arte. Allora ricordo solo una grande emozione e un forte imbarazzo nel confrontarmi col pubblico. Con gli anni si diventa più maturi e si è più aperti e rilassati nei confronti degli spettatori con cui è sempre molto stimolante confrontarsi per carpire nuove chiavi di lettura del proprio lavoro.
In questi ultimi anni a quale serie di lavori ti senti più legata? Qual è la mostra che ti ha soddisfatto maggiormente?
La mostra a cui sono più legata è la personale “Domestiche sovversioni” dove ho messo in scena un ambiente domestico completamente sovvertito; i protagonisti erano gli oggetti, sorta di ready made trasformati nel riflesso di uno spazio interiore messo sotto sopra da alcuni avvenimenti della mia vita. Vi predominava il bianco assoluto, sorta di azzeramento per una potenziale ripresa. A questi oggetti si affiancava una clessidra ad acqua, simbolicamente legata al tempo liquido, regalmente poggiata su un cuscino di velluto, simbolo anch’esso di una ritrovata dimensione.
Invece “Scripta Lucis” è stata l’ultima mostra, a cura di Carmelo Cipriani presso Arte Fuori Centro di Roma. La prossima in primavera nello spazio di Lucio Rosato a Pescara con gli stessi lavori.
Qualche indicazione bibliografica per i nostri lettori che volessero conoscere meglio il tuo lavoro e le tue opere?
“La luce dell’anima” di Lucrezia De Domizio e autori vari, Silvana Editoriale. E forse a breve qualcosa ancora … Vedremo.
Rosemarie, quale è stata la tua formazione iniziale? Come nasce il tuo interesse e la tua passione per l’arte?
Il mio interesse per l’arte nasce già dalle scuola elementare, grazie ad una maestra molto all’avanguardia nei programmi didattici che privilegiava gli aspetti legati alla creatività e all’utilizzo del disegno in ogni disciplina. L’influenza della mia famiglia è stata anche fondamentale, mia madre dipingeva e per un periodo ha praticato la ceramica. I miei genitori mi portavano a teatro e a visitare musei, abituandomi ai vari linguaggi visivi, da quelli antichi ai più contemporanei. Ricordo bene tutta la stagione teatrale del teatro Petruzzelli, nella Bari degli anni ottanta. Così ho scoperto il teatro d’avanguardia nazionale ed internazionale, molto importante per la mia formazione.
Come inizia il tuo lavoro? Da dove prende avvio la tua ricerca, che mi sembra orientata agli inizi verso una pittura d’impronta espressionista. Giusto?
La mia ricerca nasce attraverso la pittura d’impronta espressionista. Ma dopo un corso d’intaglio a Firenze ho sperimentato l’utilizzo del legno realizzando oggetti e sculture d’ispirazione tribale molto legate al mio intersesse di allora per la scultura africana. L’utilizzo della luce che in seguito caratterizzerà tutto il mio lavoro si manifesta in quel periodo con l’uso dei colori fluorescenti e delle lampade di wood che fanno parte dei primi esperimenti. In seguito il ricorrere alla luce come impronta e aura luminosa nelle fotocopie traslate e nei cristalli incisi con il laser è sotteso a indicare un fattore immateriale che tende ad una leggerezza estrema dell’ opera e allude ad una essenza spirituale. Lo stesso tema è affrontato in altro modo nella messa in scena di oggetti che sfidano i normali parametri spazio/temporali e la legge di gravità ponendosi al di là delle nostre percezioni razionali .
E in questo percorso, che importanza ha avuto per te e per la tua formazione l’incontro con Adele Plotkin?
Adele è stata mia maestra e in seguito amica. Lei mi ha trasferito il suo sapere ricevuto alla Yale University da Albers, il tutto filtrato dalla straordinaria capacità di sollecitare un molteplice sguardo percettivo. I suoi disegni - dove la duplice lettura obbligava a considerare spazio interno ed esterno e contemporaneamente a comprendere il vuoto che era parte fondamentale dell’insieme - mi ha insegnato moltissimo sugli equilibri da valutare in un’opera o nello spazio di un’installazione. Tutto il suo lavoro sull’ambiguità percettiva dettato dalla triade linea-contorno-spazio, da cui ho attinto ispirazione, è stato di forte impatto per la mia ricerca.
Come ti sei confrontata con la critica d’arte che ha seguito l’evoluzione del tuo lavoro? In cosa ti riconosci di più? In cosa ti rispecchi …
Tra i critici che hanno scritto di me è stato significativo il contributo di Lucrezia De Domizio di cui apprezzo la forte militanza nonché la grande autonomia culturale e di scelte relative agli artisti che segue e propone. Inoltre, il suo lavoro di promotrice di piccoli e grandi momenti di scambio tra intellettuali, curatori, artisti ha sempre stimolato incontri e conoscenze fondamentali per il mio lavoro.
Ti occupi preferibilmente di pittura, scultura, fotografia. Prediligi la fusione di codici o altro? Puoi raccontarci quali linguaggi preferisci?
Il linguaggio che preferisco in assoluto è l’installazione o meglio l’opera ambientale, possibilmente site specific. È molto importante per me confrontarmi con lo spazio e i rapporti che questo determina tra i vari attori e fattori dell’allestimento. Sinceramente prediligo un approccio sinestetico che coinvolga a pieno tutti i sensi dell’osservatore; un approccio che possa coinvolgerlo in armonia con l’ambiente che lo ospita.
Rosemarie, come si lega il tuo lavoro di artista (e anche quello di insegnante di discipline visive) con la continua e faticosa attività di direzione di uno spazio espositivo?
Tutto si lega bene in realtà. Contemporaneamente alla mia attività artistica e a completamento di questa, seguo con soddisfazione la direzione di uno spazio culturale da me fondato nel 1990: il Museo Nuova Era. Il lavoro per la galleria mi ha permesso di creare una rete di sinergie che per me vale quanto realizzare un’opera. Il confronto con gli artisti, i curatori, la cura degli allestimenti e della comunicazione segna un valore aggiunto al mio lavoro e alla mia poetica facendola rientrare in una sorta di missione sociale e culturale che è sempre in divenire e si arricchisce continuamente di contributi umani ed intellettuali.
Cosa ti interessa di più nel rapporto con il pubblico, con l’osservatore …
Ho cominciato ad esporre negli anni ‘80 presso la piccola chiesetta di Polignano a Mare che era dedicata al grande Pino Pascali. Avevo 17 anni ed ero molto giovane e poco esperta del mondo dell’arte. Allora ricordo solo una grande emozione e un forte imbarazzo nel confrontarmi col pubblico. Con gli anni si diventa più maturi e si è più aperti e rilassati nei confronti degli spettatori con cui è sempre molto stimolante confrontarsi per carpire nuove chiavi di lettura del proprio lavoro.
In questi ultimi anni a quale serie di lavori ti senti più legata? Qual è la mostra che ti ha soddisfatto maggiormente?
La mostra a cui sono più legata è la personale “Domestiche sovversioni” dove ho messo in scena un ambiente domestico completamente sovvertito; i protagonisti erano gli oggetti, sorta di ready made trasformati nel riflesso di uno spazio interiore messo sotto sopra da alcuni avvenimenti della mia vita. Vi predominava il bianco assoluto, sorta di azzeramento per una potenziale ripresa. A questi oggetti si affiancava una clessidra ad acqua, simbolicamente legata al tempo liquido, regalmente poggiata su un cuscino di velluto, simbolo anch’esso di una ritrovata dimensione.
Invece “Scripta Lucis” è stata l’ultima mostra, a cura di Carmelo Cipriani presso Arte Fuori Centro di Roma. La prossima in primavera nello spazio di Lucio Rosato a Pescara con gli stessi lavori.
Qualche indicazione bibliografica per i nostri lettori che volessero conoscere meglio il tuo lavoro e le tue opere?
“La luce dell’anima” di Lucrezia De Domizio e autori vari, Silvana Editoriale. E forse a breve qualcosa ancora … Vedremo.