AUTORITRATTO: Silvana Leonardi si racconta - redazione
tra metonimia e metafora
l’immagine è sempre prima di tutto la forma di un pensiero,
il ruolo che decido per me è talvolta quello di dare forma simbolica al mio immaginario
il ruolo che decido per me è talvolta quello di dare forma simbolica al mio immaginario
…ma non voglio scrivere di me. Scriverò piuttosto di quella lunga pausa di silenzio sul far della sera, quando la luce del crepuscolo fattasi più morbida invita alla riflessione, alla meditazione, al dialogo interiore, quando lo sguardo del riguardante si fa più acuto e obliquo per cogliere tutte le vibrazioni della luce e della materia e tutto ciò che allo sguardo frettoloso e superficiale dell’uomo contemporaneo immerso nella frenesia produttiva e comunicativa sfugge irreparabilmente. Scriverò di quella bianca tenda che schermava la luce e che fu poi annodata con cura da qualcuno (qualcuna?) che non voleva rinunciare allo spettacolo del paesaggio pur continuando a leggere nella sua ombra confortevole e che abbandonò poi sulla sedia il libro appena letto per essere inghiottito (inghiottita) dallo spazio al di qua o al di là della scena, per divenire un’assenza e nell’assenza trasformarsi in simbolo. Racconterò di un paesaggio, di un faro neanche troppo lontano eppure irraggiungibile, di una iterata ricerca di una impossibile felicità e di una nostalgia furiosa e lacerante.
Oppure di una piccola inquietudine che blocca una figura vestita di verde davanti a una finestra, a guardare - guardare? o non piuttosto contemplare, riflettere…ricordare? - attraverso i vetri nel bianco/grigio di un paesaggio invernale con tracce di vegetazione…e nessuna luce che la illumini se non una timida lama che fa vibrare appena il verde del suo abito, una ciocca di capelli…una luce tutta interiore, intima quasi, che non varca la soglia della finestra.
E ancora, sospesa su una soglia (metafora o metonimia?), la narrazione riguarderà una bambina, incerta tra la possibilità di crescere e quella di attardarsi invece nell’infanzia, una bambina incerta tra stupore e tremore, tra candore e ambiguità, sorpresa nella postura dell’artista che nella durata e nella dilatazione del tempo ha la capacità/possibilità di tramutare simbolicamente la materia, il mare, il cielo, in segni-scrittura, una bambina che dimorando a lungo nel tempo e nel luogo del passaggio tra interno e esterno, tra il dentro di sé e il fuori di sé, entra in risonanza con la materia di cui è fatta e che la circonda divenendo essa stessa simbolo.
Affiorato dal ricordo di una vecchia, magistrale pellicola, un soldatino, di spalle, guarda il crepuscolo parigino, mentre da un mare di verde, tra le chiome degli alberi, emerge in luogo di faro, come segno e insieme simbolo, la Tour Eiffel. La narrazione non spiega lo stato d’animo di colui che guarda ed è da noi guardato, o la natura dei suoi pensieri, ma ne coglie la sagoma-presenza che, inquadrata dalla finestra tipicamente parigina e per ciò stesso “universale” nella sua individualità, riappare in frammento obliquamente riflessa su un vetro grigio come i cieli di Parigi. Egli dunque, il ladro di baci, se pure non riflette sicuramente si riflette e mentre rivolge di fronte e intorno a sé quello che Rilke chiama lo sguardo diffuso, capace di percepire nel paesaggio che guarda, sia pure costituito da una natura urbana/domestica, la dimensione analogica del mondo, le relazioni di corrispondenza, di affinità, di condivisione attende forse una rivelazione, il materializzarsi di una presenza fino a questo momento solo presentita, il dispiegarsi del suo avvenire? Nel racconto si intuisce la possibilità che egli senta la consonanza tra il suo essere in attesa, in ascolto, e la materia del mondo che attraversando il suo sguardo e la sua sensibilità si tramuta in simbolo.
E poiché per tradurre l’intimo nell’immenso non bisogna illuminare troppo ma è anzi utile oscurare un po’, perché nella penombra si possa, vedendo meno, vedere meglio, raggiungere l’essenza della realtà, lasciare che essa si riveli... ecco, totalmente immersa nell’oscurità di una stanza d’altri tempi, una fanciulla, di cui allato a una finestra si percepisce solo il profilo come una linea disegnata dalla luce e che con sguardo obliquo guarda attraverso i vetri di una finestra la finestra lievemente azzurrata che appare sulla parete di fronte, dal lato opposto di un bianco luminoso cortile. Nella tranquillità del suo silenzio, nella leggerezza del suo apparire, la protagonista del racconto rivela la sua intima coesione, l’equilibrio raggiunto tra la luce e l’oscurità, il suo saper stare nell’ombra, nel mondo.
Altrove, in un altrove altro, appare e si svela nella trama di relazioni che irretiscono lo sguardo una signora bionda, inesorabilmente, dolorosamente brutta, la cui faccia giace al fondo di sé stessa, come lei stessa, scrittrice, confessa in uno dei suoi scritti incandescenti, a cui la connotazione di romanzo va stretta essendo la sua una scrittura quasi sinthomatica, e questa faccia campeggia, al centro dello specchio nel racconto che sto recitando a me stessa, su uno sfondo gridellino solcato dalle linee di una scrittura immaginaria più citata che descritta. Dietro di lei, accanto a lei, sovrastandola in tutti i sensi, il volto nobile e austero di una Musa, della sua Musa, trasparendo dal vetro di una finestra, o dal fondo dello specchio, la guarda non guardandola, mentre imprigionato nella sua freddezza le si avvicina per opposizione e se ne allontana a causa della sua stessa algida perfetta intellettualità. Simbolo di se stesso, prigioniero del ruolo che gli è stato assegnato in commedia, il volto amato, il volto dell’Altro/Altra che non siamo, che non possiamo essere, che ci impediamo con caparbia volontà di essere per non consentirci la felicità, appare inattingibile dietro una trama leggera ma invalicabile - ineluttabile definitiva non permeabile - di segni e di riflessi che in un’opaca trasparenza attenua la perfezione dei lineamenti esaltandone la fragilità, la sensibilità capace di cogliere la sottile vibrazione di una sensibilità sorella, di una diversità geniale e vorace. Sono sola, sono affamata. Alzo gli occhi dalle righe che sto scrivendo. Con il foglio tra le mani rivolgo lo sguardo alla finestra. Di fronte a me, dall’altro lato della strada una ragazza dai capelli castani affacciata alla finestra mi guarda…ma questa è un’altra storia…
Silvana Leonardi
Oppure di una piccola inquietudine che blocca una figura vestita di verde davanti a una finestra, a guardare - guardare? o non piuttosto contemplare, riflettere…ricordare? - attraverso i vetri nel bianco/grigio di un paesaggio invernale con tracce di vegetazione…e nessuna luce che la illumini se non una timida lama che fa vibrare appena il verde del suo abito, una ciocca di capelli…una luce tutta interiore, intima quasi, che non varca la soglia della finestra.
E ancora, sospesa su una soglia (metafora o metonimia?), la narrazione riguarderà una bambina, incerta tra la possibilità di crescere e quella di attardarsi invece nell’infanzia, una bambina incerta tra stupore e tremore, tra candore e ambiguità, sorpresa nella postura dell’artista che nella durata e nella dilatazione del tempo ha la capacità/possibilità di tramutare simbolicamente la materia, il mare, il cielo, in segni-scrittura, una bambina che dimorando a lungo nel tempo e nel luogo del passaggio tra interno e esterno, tra il dentro di sé e il fuori di sé, entra in risonanza con la materia di cui è fatta e che la circonda divenendo essa stessa simbolo.
Affiorato dal ricordo di una vecchia, magistrale pellicola, un soldatino, di spalle, guarda il crepuscolo parigino, mentre da un mare di verde, tra le chiome degli alberi, emerge in luogo di faro, come segno e insieme simbolo, la Tour Eiffel. La narrazione non spiega lo stato d’animo di colui che guarda ed è da noi guardato, o la natura dei suoi pensieri, ma ne coglie la sagoma-presenza che, inquadrata dalla finestra tipicamente parigina e per ciò stesso “universale” nella sua individualità, riappare in frammento obliquamente riflessa su un vetro grigio come i cieli di Parigi. Egli dunque, il ladro di baci, se pure non riflette sicuramente si riflette e mentre rivolge di fronte e intorno a sé quello che Rilke chiama lo sguardo diffuso, capace di percepire nel paesaggio che guarda, sia pure costituito da una natura urbana/domestica, la dimensione analogica del mondo, le relazioni di corrispondenza, di affinità, di condivisione attende forse una rivelazione, il materializzarsi di una presenza fino a questo momento solo presentita, il dispiegarsi del suo avvenire? Nel racconto si intuisce la possibilità che egli senta la consonanza tra il suo essere in attesa, in ascolto, e la materia del mondo che attraversando il suo sguardo e la sua sensibilità si tramuta in simbolo.
E poiché per tradurre l’intimo nell’immenso non bisogna illuminare troppo ma è anzi utile oscurare un po’, perché nella penombra si possa, vedendo meno, vedere meglio, raggiungere l’essenza della realtà, lasciare che essa si riveli... ecco, totalmente immersa nell’oscurità di una stanza d’altri tempi, una fanciulla, di cui allato a una finestra si percepisce solo il profilo come una linea disegnata dalla luce e che con sguardo obliquo guarda attraverso i vetri di una finestra la finestra lievemente azzurrata che appare sulla parete di fronte, dal lato opposto di un bianco luminoso cortile. Nella tranquillità del suo silenzio, nella leggerezza del suo apparire, la protagonista del racconto rivela la sua intima coesione, l’equilibrio raggiunto tra la luce e l’oscurità, il suo saper stare nell’ombra, nel mondo.
Altrove, in un altrove altro, appare e si svela nella trama di relazioni che irretiscono lo sguardo una signora bionda, inesorabilmente, dolorosamente brutta, la cui faccia giace al fondo di sé stessa, come lei stessa, scrittrice, confessa in uno dei suoi scritti incandescenti, a cui la connotazione di romanzo va stretta essendo la sua una scrittura quasi sinthomatica, e questa faccia campeggia, al centro dello specchio nel racconto che sto recitando a me stessa, su uno sfondo gridellino solcato dalle linee di una scrittura immaginaria più citata che descritta. Dietro di lei, accanto a lei, sovrastandola in tutti i sensi, il volto nobile e austero di una Musa, della sua Musa, trasparendo dal vetro di una finestra, o dal fondo dello specchio, la guarda non guardandola, mentre imprigionato nella sua freddezza le si avvicina per opposizione e se ne allontana a causa della sua stessa algida perfetta intellettualità. Simbolo di se stesso, prigioniero del ruolo che gli è stato assegnato in commedia, il volto amato, il volto dell’Altro/Altra che non siamo, che non possiamo essere, che ci impediamo con caparbia volontà di essere per non consentirci la felicità, appare inattingibile dietro una trama leggera ma invalicabile - ineluttabile definitiva non permeabile - di segni e di riflessi che in un’opaca trasparenza attenua la perfezione dei lineamenti esaltandone la fragilità, la sensibilità capace di cogliere la sottile vibrazione di una sensibilità sorella, di una diversità geniale e vorace. Sono sola, sono affamata. Alzo gli occhi dalle righe che sto scrivendo. Con il foglio tra le mani rivolgo lo sguardo alla finestra. Di fronte a me, dall’altro lato della strada una ragazza dai capelli castani affacciata alla finestra mi guarda…ma questa è un’altra storia…
Silvana Leonardi