AUTORITRATTO: Margherita Levo Rosenberg si racconta - redazione
Pensieri pensati
Quando la redazione di Magazineart mi ha chiesto di partecipare al progetto editoriale dove gli artisti si raccontano, scrivendo un testo che descrivesse, dal mio punto di vista, come nasce il mio fare artistico, pur provando un sentimento di gratitudine per questo interesse spontaneo nei miei confronti e verso la mia opera, ho provato il solito disagio che mi pervade ogni volta che devo parlare della mia arte e del modo nel quale si crea nella mia mente, e prima ancora, nelle mie viscere.
Chi, come me, ha dovuto arrendersi alla necessità di esprimersi con le mani, ha poca simpatia per le parole, parlate e scritte, fuori da un’opera; le parole sono mercenarie di significazioni.
Per prima cosa sono andata a scartabellare i miei vecchi cataloghi, alla ricerca di un testo già pronto, che mi togliesse d’impiccio e ne ho trovato uno del 2003, scritto in occasione di una mostra che ho chiamato Reality Test, proprio per sottolineare il fatto che l’arte, più di ogni altra attività, si occupa di rispondere all’urgenza di una domanda di conoscenza che è dentro di noi.
Scrivevo, all’epoca, “se qualcuno mi chiedesse di che cosa si occupa il mio lavoro risponderei che tende alla rappresentazione di me come relazione tra il mondo che mi circonda e quello che ho dentro” oggi trovo un po’ ingenua questa distinzione tra dentro e fuori ma penso ancora che nell’arte sia custodito un segreto identitario, che si preserva in qualsiasi condizione e che permette all’essere umano di restare in equilibrio nelle intemperie della vita e della storia. In questo senso siamo tutti artisti, quando dialoghiamo, di nascosto, con noi stessi, sia che produciamo oggetti comunicanti, sia che viviamo dentro di noi esperienze intime d’integrazione, anche senza parteciparle
Penso ancora, come ho scritto allora, che l’arte si occupi sempre e soltanto di realtà e che “La distinzione tra sogno e realtà, immanente e metafisico, reale e surreale” non abbia “molto senso perché la realtà è una relazione e dipende da come la si guarda. Tutto ciò che posso percepire, oggetti, persone eventi, situazioni, ricordi, emozioni, desideri o fantasie, si trova all’interno di un contesto in divenire che ne condiziona il senso. Osservo sempre da uno dei miei tanti punti di vista, che a sua volta dipende anche dalle cose che so e quelle con non so, quelle che so di non sapere e quelle che non so di sapere. Ogni tanto mi preme di mettere un punto, come chi, andando per un sentiero che non conosce, ha bisogno di segnare alcuni sassi con il colore, per non perdere la strada del ritorno. Così, lungo il mio percorso l’arte rappresenta una chiave di lettura che, in un dato momento, mi sembra funzionale, mi apre prospettive e mi fa sentire in armonia con la vita.
Se morissi in quell’istante morirei in pace.
Vivere in divenire non è così facile…
Da tempo ho optato per un paganesimo agnostico, nei giorni dispari.
Con l’arte miro ad una conoscenza diversa, più autentica e profonda, del mondo e per me, essa costituisce la sola strada che può avvicinarmi alla verità. Nel mio lavoro inseguo delle unità percettive della realtà, delle sintesi capaci di mettere insieme aspetti diversi del paesaggio di significazioni che abitudinariamente non coincidono su uno stesso piano…
Io sono ossessionata dalla necessità di trovare una relazione armonica fra le molteplici sembianze con le quali la realtà mi appare. Percepisco il mondo a modo mio e ne traggo, di tanto in tanto, delle conseguenze estetiche…”
Quando scrivevo queste parole, tredici anni fa, mi trovavo alla fine di un ciclo di riflessioni intorno ad un pomodoro che mi era parso l’incarnazione simbolica di tutte le mie inquietudini; parola composta da due sostantivi autonomi e significativi di per stessi , pronti a cambiare completamente di segno se messi in sequenza; cognome di artisti importanti nel panorama culturale italiano della seconda metà del Novecento, elemento ubiquitario della tanto acclamata cucina mediterranea e tuttavia d’importazione dal continente americano, dopo il viaggio - recente - di Colombo; di colore rosso deciso ma utilizzabile anche verde, sia pure un po’ venefico. Sferico come il tutto“ non può essere consumato senza perdere immediatamente tutta la sua bellezza; si dissolve al primo morso”; può diventare un oggetto offensivo come elemento di protesta, è comunque destinato a squagliarsi nella molteplicità delle sue salse.
Alla fine di questo percorso, durante il quale avevo portato a compimento un’intensa ricerca sul rosso carnoso del pomodoro, ottenuto scarnificando la carta con strati su strati di biro bic e colla vinilica, sentivo che questo modo di esprimermi non mi bastava più e che avrei dovuto trovare un'altra strada per avvicinarmi a quello che andavo cercando. Una sera, allo Studio Leonardi V-Idea di Genova, con il quale collaboravo da qualche anno, si cominciò a parlare della pipa di Magritte – ceçi n’est pas une pipe – e sentivo che sulla distinzione tra rappresentazione e realtà, non ero d’accordo, non fino in fondo perlomeno. Non riuscivo a fare ameno di accostare la pipa di Magritte al Grande Fratello, il reality televisivo in voga in quegli anni, qualcosa che sembra ma non è... Come si poteva dire fino a dove prevalesse la recitazione della vita sotto la telecamera e quando invece la realtà di quella vita irrompesse nello spettacolo in tutta la sua autenticità? Dove trovare il confine tra la regia, il copione e la spontaneità dei personaggi? Si poteva ancora parlare di realtà e rappresentazione, anche alla luce della lezione di Duchamp, oppure era stato valicato un limite nuovo, oltre il quale non era più possibile iscrivere il reale e il non reale in questa semplice dicotomia?
Nelle settimane successive cominciai a produrre le opere di Naming, una mostra che organizzai in seguito con l’Università di Genova, il filosofo Oscar Meo; autore di un libro dal titolo Mondi Possibili, e la linguista Laura Salmon.
Una ventina di opere sulla pipa di Magritte; alla prima ho dato il titolo di re nudo pensando che un bambino non avrebbe operato quella distinzione tra oggetto e rappresentazione che a me, fino a quel momento era parsa ovvia; un bambino, se gli avessero chiesto che cosa fosse, avrebbe semplicemente affermato che si trattava di una pipa Un oggetto non può essere separato dalla sua rappresentazione pittorica, e neppure dalla sua rappresentazione linguistica, dal suo nome; natura e cultura non si possono separare.
Presentai la mostra con questa filastrocca, nella quale ancora mi riconosco:
io sono un postmoderno
molto d’estate, poco d’inverno
Io sono un concettuale,
se mi ferisci, se mi fai male
penso i pensieri blu, rossa la carne
credo nell’arte ma solo in parte
io sono un postrealista,
mentre ti guardo ti perdo di vista
La conseguenza di queste riflessioni fu il passaggio al ciclo delle conazioni, opere tridimensionali costituite di concetti/oggetti; conetti di plastica, contenenti immagini trasformate in oggetti che assemblati in moltitudini costituivano altro, un flusso di trasformazioni continuo ed inarrestabile, che minava dalle basi l’idea di poter intrappolare una realtà possibile, rescissa da un punto di vista soggettivo e da un istante dato.
Più recentemente mi sono arresa all’idea che il mio intervento nella creazione dell’opera sia sempre meno invadente, che il mio dentro e il mio fuori non siano separati da un confine se non immaginario, che tra me e l’opera si crei un rapporto di scambio reciproco, che l’opera contribuisca a costruire il mio essere e la mia identità non meno di quanto io contribuisca alla sua creazione e che i miei pensieri, una volta pensati, prendano corpo e trovino casa, come uccelli appollaiati sugli alberi, lungo le strade del mio viaggio e mi pensino a loro volta, restituendomi alla magia del vivere e del sentire
pensiero pensato pensoso mi pensa
io spero sperando che oltre quel velo
potesse disfarsi nel vasto del cielo
e farsi di nebbia la coltre più densa
così tra le foglie di tiglio appassite
sciogliesse il mal bianco la grigia farfalla
profondo respiro che mi fa più bella
tornando a gustare del vino la vite
da sempre nascosta nel tempo mio perso
pensiero perduto penoso mi perde
seguìta la brezza nel bosco più verde
e muore sul farsi impossibile verso.
Margherita Levo Rosenberg
Genova, 1 novembre 2016
Quando la redazione di Magazineart mi ha chiesto di partecipare al progetto editoriale dove gli artisti si raccontano, scrivendo un testo che descrivesse, dal mio punto di vista, come nasce il mio fare artistico, pur provando un sentimento di gratitudine per questo interesse spontaneo nei miei confronti e verso la mia opera, ho provato il solito disagio che mi pervade ogni volta che devo parlare della mia arte e del modo nel quale si crea nella mia mente, e prima ancora, nelle mie viscere.
Chi, come me, ha dovuto arrendersi alla necessità di esprimersi con le mani, ha poca simpatia per le parole, parlate e scritte, fuori da un’opera; le parole sono mercenarie di significazioni.
Per prima cosa sono andata a scartabellare i miei vecchi cataloghi, alla ricerca di un testo già pronto, che mi togliesse d’impiccio e ne ho trovato uno del 2003, scritto in occasione di una mostra che ho chiamato Reality Test, proprio per sottolineare il fatto che l’arte, più di ogni altra attività, si occupa di rispondere all’urgenza di una domanda di conoscenza che è dentro di noi.
Scrivevo, all’epoca, “se qualcuno mi chiedesse di che cosa si occupa il mio lavoro risponderei che tende alla rappresentazione di me come relazione tra il mondo che mi circonda e quello che ho dentro” oggi trovo un po’ ingenua questa distinzione tra dentro e fuori ma penso ancora che nell’arte sia custodito un segreto identitario, che si preserva in qualsiasi condizione e che permette all’essere umano di restare in equilibrio nelle intemperie della vita e della storia. In questo senso siamo tutti artisti, quando dialoghiamo, di nascosto, con noi stessi, sia che produciamo oggetti comunicanti, sia che viviamo dentro di noi esperienze intime d’integrazione, anche senza parteciparle
Penso ancora, come ho scritto allora, che l’arte si occupi sempre e soltanto di realtà e che “La distinzione tra sogno e realtà, immanente e metafisico, reale e surreale” non abbia “molto senso perché la realtà è una relazione e dipende da come la si guarda. Tutto ciò che posso percepire, oggetti, persone eventi, situazioni, ricordi, emozioni, desideri o fantasie, si trova all’interno di un contesto in divenire che ne condiziona il senso. Osservo sempre da uno dei miei tanti punti di vista, che a sua volta dipende anche dalle cose che so e quelle con non so, quelle che so di non sapere e quelle che non so di sapere. Ogni tanto mi preme di mettere un punto, come chi, andando per un sentiero che non conosce, ha bisogno di segnare alcuni sassi con il colore, per non perdere la strada del ritorno. Così, lungo il mio percorso l’arte rappresenta una chiave di lettura che, in un dato momento, mi sembra funzionale, mi apre prospettive e mi fa sentire in armonia con la vita.
Se morissi in quell’istante morirei in pace.
Vivere in divenire non è così facile…
Da tempo ho optato per un paganesimo agnostico, nei giorni dispari.
Con l’arte miro ad una conoscenza diversa, più autentica e profonda, del mondo e per me, essa costituisce la sola strada che può avvicinarmi alla verità. Nel mio lavoro inseguo delle unità percettive della realtà, delle sintesi capaci di mettere insieme aspetti diversi del paesaggio di significazioni che abitudinariamente non coincidono su uno stesso piano…
Io sono ossessionata dalla necessità di trovare una relazione armonica fra le molteplici sembianze con le quali la realtà mi appare. Percepisco il mondo a modo mio e ne traggo, di tanto in tanto, delle conseguenze estetiche…”
Quando scrivevo queste parole, tredici anni fa, mi trovavo alla fine di un ciclo di riflessioni intorno ad un pomodoro che mi era parso l’incarnazione simbolica di tutte le mie inquietudini; parola composta da due sostantivi autonomi e significativi di per stessi , pronti a cambiare completamente di segno se messi in sequenza; cognome di artisti importanti nel panorama culturale italiano della seconda metà del Novecento, elemento ubiquitario della tanto acclamata cucina mediterranea e tuttavia d’importazione dal continente americano, dopo il viaggio - recente - di Colombo; di colore rosso deciso ma utilizzabile anche verde, sia pure un po’ venefico. Sferico come il tutto“ non può essere consumato senza perdere immediatamente tutta la sua bellezza; si dissolve al primo morso”; può diventare un oggetto offensivo come elemento di protesta, è comunque destinato a squagliarsi nella molteplicità delle sue salse.
Alla fine di questo percorso, durante il quale avevo portato a compimento un’intensa ricerca sul rosso carnoso del pomodoro, ottenuto scarnificando la carta con strati su strati di biro bic e colla vinilica, sentivo che questo modo di esprimermi non mi bastava più e che avrei dovuto trovare un'altra strada per avvicinarmi a quello che andavo cercando. Una sera, allo Studio Leonardi V-Idea di Genova, con il quale collaboravo da qualche anno, si cominciò a parlare della pipa di Magritte – ceçi n’est pas une pipe – e sentivo che sulla distinzione tra rappresentazione e realtà, non ero d’accordo, non fino in fondo perlomeno. Non riuscivo a fare ameno di accostare la pipa di Magritte al Grande Fratello, il reality televisivo in voga in quegli anni, qualcosa che sembra ma non è... Come si poteva dire fino a dove prevalesse la recitazione della vita sotto la telecamera e quando invece la realtà di quella vita irrompesse nello spettacolo in tutta la sua autenticità? Dove trovare il confine tra la regia, il copione e la spontaneità dei personaggi? Si poteva ancora parlare di realtà e rappresentazione, anche alla luce della lezione di Duchamp, oppure era stato valicato un limite nuovo, oltre il quale non era più possibile iscrivere il reale e il non reale in questa semplice dicotomia?
Nelle settimane successive cominciai a produrre le opere di Naming, una mostra che organizzai in seguito con l’Università di Genova, il filosofo Oscar Meo; autore di un libro dal titolo Mondi Possibili, e la linguista Laura Salmon.
Una ventina di opere sulla pipa di Magritte; alla prima ho dato il titolo di re nudo pensando che un bambino non avrebbe operato quella distinzione tra oggetto e rappresentazione che a me, fino a quel momento era parsa ovvia; un bambino, se gli avessero chiesto che cosa fosse, avrebbe semplicemente affermato che si trattava di una pipa Un oggetto non può essere separato dalla sua rappresentazione pittorica, e neppure dalla sua rappresentazione linguistica, dal suo nome; natura e cultura non si possono separare.
Presentai la mostra con questa filastrocca, nella quale ancora mi riconosco:
io sono un postmoderno
molto d’estate, poco d’inverno
Io sono un concettuale,
se mi ferisci, se mi fai male
penso i pensieri blu, rossa la carne
credo nell’arte ma solo in parte
io sono un postrealista,
mentre ti guardo ti perdo di vista
La conseguenza di queste riflessioni fu il passaggio al ciclo delle conazioni, opere tridimensionali costituite di concetti/oggetti; conetti di plastica, contenenti immagini trasformate in oggetti che assemblati in moltitudini costituivano altro, un flusso di trasformazioni continuo ed inarrestabile, che minava dalle basi l’idea di poter intrappolare una realtà possibile, rescissa da un punto di vista soggettivo e da un istante dato.
Più recentemente mi sono arresa all’idea che il mio intervento nella creazione dell’opera sia sempre meno invadente, che il mio dentro e il mio fuori non siano separati da un confine se non immaginario, che tra me e l’opera si crei un rapporto di scambio reciproco, che l’opera contribuisca a costruire il mio essere e la mia identità non meno di quanto io contribuisca alla sua creazione e che i miei pensieri, una volta pensati, prendano corpo e trovino casa, come uccelli appollaiati sugli alberi, lungo le strade del mio viaggio e mi pensino a loro volta, restituendomi alla magia del vivere e del sentire
pensiero pensato pensoso mi pensa
io spero sperando che oltre quel velo
potesse disfarsi nel vasto del cielo
e farsi di nebbia la coltre più densa
così tra le foglie di tiglio appassite
sciogliesse il mal bianco la grigia farfalla
profondo respiro che mi fa più bella
tornando a gustare del vino la vite
da sempre nascosta nel tempo mio perso
pensiero perduto penoso mi perde
seguìta la brezza nel bosco più verde
e muore sul farsi impossibile verso.
Margherita Levo Rosenberg
Genova, 1 novembre 2016