AUTORITRATTO. Roberto Gramiccia si racconta - redazione
Ci si domanderà – molti me l’hanno chiesto – che nesso c’è fra politica, medicina e arte. Ebbene, sono convito che la politica sia un’arte, come la medicina e che, quindi, sia più facile per chi se ne occupi, in modo diciamo così integrale, innamorarsi di cose come: la pittura, la scultura, le arti visive in genere.
Fragilità, una parola chiave
Le perle nascono da una malattia della conchiglia (anonimo)
Quando mi è stato proposto di scrivere questo breve autoritratto sono stato preso da due stati d’animo opposti. Da un lato l’autocompiacimento, dall’altro il senso del pudore. Ho pensato di conciliare entrambi fornendo un rapido profilo della mia storia personale orientato, però, a valorizzare prevalentemente quegli aspetti che meglio si prestano a suscitare un interesse generale, in grado di evocare, ben oltre i confini di uno sterile biografismo, questioni sogni e desideri diffusamente condivisi.
Del resto è esattamente la stessa cosa che ho cercato di fare con il mio ultimo libro: Elogio della Fragilità (Mimesis), che vi invito a leggere se queste note vi susciteranno qualche curiosità. Si tratta di un’agile riflessione su una questione per me cruciale, affrontata con l’intenzione di portare a valore l’insieme delle mie esperienze pratiche, dei miei studi e delle mie convinzioni. In questo libro c’è molto della mia vita. In qualche modo un autoritratto. Ma anche in questo caso realizzato non in modo illustrativo e dettagliato, come un dipinto fiammingo per intenderci. Ma, piuttosto, con quel gusto del “non finito” che invece di fornire particolari è piuttosto orientato a restituire un insieme. Un insieme di luoghi, un tempo, un groviglio di speranze, di tensioni, di azioni che hanno prodotto qualche successo e molte delusioni personali e pubbliche, private e politiche.
Qualche recensore sin troppo generoso ha definito questo libro l’autobiografia di una generazione. Quella nata negli anni Cinquanta. Quella che ha vissuto, nel pieno vigore delle sue forze, gli anni cruciali che vanno dalla fine dei Sessanta a tutti gli anni Settanta: l’epopea del ‘68-‘69, la rivoluzione dietro l’angolo, l’esaltazione e poi gli anni di piombo, la delusione e tutto il resto fino ad oggi. Fino al tempo più difficile di tutti: quello in cui sembra smarrito il valore stesso di un vivere collettivo fornito di senso, che ha lasciato il posto al ghiaccio di un universo fatto dalla somma di infinite aprassiche solitudini.
Elogio della fragilità inizia con due storie per così dire di iniziazione. La prima che coincide, più o meno, con il mio primo ricordo che narra di una terribile sensazione di abbandono: quella che provai svegliandomi irrimediabilmente solo a quattro anni, nel mezzo della notte, nel letto dei miei genitori scappati in ospedale per salvare la vita della mia sorellina, che stava morendo soffocata a causa di un croup difterico. Non ho mai capito quanto questo trauma abbia scavato nella mia psiche, credo molto. Ma una cosa è certa: a causa di quello spavento fu precocissima per me la presa d’atto della mia personale fragilità.
Alla prima, qualche anno dopo, seguì la seconda iniziazione. Quando ebbi modo di cogliere la breve conversazione di un bambino della mia età, sei-sette anni, che chiedeva al padre un paio di scarpe nuove perché le sue erano ormai consumate. Quel padre, con tutta evidenza un lavoratore, imbarazzato, si sarebbe fatto in quattro per promettergliele, ma non gliele promise, perché non voleva dire bugie. Fu per me subito chiaro che quella cosa era odiosa e insopportabile, come fu chiaro, di lì a poco, che quello non era un episodio isolato ma era la regola per un sacco di poveracci. Il grande popolo dei fragili che sono tali a causa dell’ingiustizia sociale di cui sono vittime: scoprii allora un secondo tipo di fragilità, non più casuale, non più legata ad una dimensione individuale. Scoprii la fragilità sociale che riguarda solo gli sfruttati, i dimenticati, i maltrattati.
Ad entrambi le fragilità cercai di reagire. Senza rendermene conto quelle due esperienze mi caricarono di rabbia e tutta la mia vita, in estrema sintesi, è stato il tentativo di non disperderla quella rabbia. Ma, invece, di indirizzarla verso qualche obiettivo che desse senso alla mia vita. La ricerca di senso e di quiete sono state le mie stelle polari. Una “quiete” che la mia natura stessa mi impediva di raggiungere. E il “senso” che sembrava non esserci in una società così diseguale e odiosa.
Da questi presupposti, sommariamente richiamati, sono nate le scelte principali della mia vita, per quello che razionalmente mi è dato di capire. L’impegno politico. La scelta della Facoltà di Medicina. E, più tardi, l’amore e lo studio per l’arte e per la scrittura. Sull’impegno politico e sull’amore e la pratica della medicina sorvolo, non perché si sia trattato di aspetti minori della mia vita, al contrario, ma perché il magazine nel quale questo mio modesto autoritratto sarà ospitato si intitola magazineart e, per ciò stesso, credo che possano interessare di più le ragioni del mio impegno come studioso e critico militante di arte contemporanea.
Ci si domanderà – molti me l’hanno chiesto – che nesso c’è fra politica, medicina e arte. Ebbene, sono convito che la politica sia un’arte, come la medicina e che, quindi, sia più facile per chi se ne occupi, in modo diciamo così integrale, innamorarsi di cose come: la pittura, la scultura, le arti visive in genere. C’è poi un discorso di fondo che affronto nel mio libro sulla fragilità e che riguarda la comune origine di queste tre attività, come di altre, che io faccio risalire al thauma (lo sgomento secondo l’accezione di Emanuele Severino).
È dal thauma, che è ben guardare coincide con l’angoscia della morte che, secondo Aristotele, prende origine la filosofia. Ebbene, la mia proposta è quella di ritenere che non solo la filosofia ma anche l’arte e l’interesse per la cosa pubblica, e tante altre cose fondamentali, derivino dall’angoscia del vivere e del morire e, in ultima istanza, dall’esperienza che prende le mosse dalla consapevolezza della nostra fragilità. Ecco che il cerchio si chiude, e quella che sembrava una sciarada si rivela per quello che è: un insieme di riflessioni e di esperienze che tende a svelare il nesso che esiste fra l’angoscia che deriva dalla coscienza della propria fragilità e quella spinta germinale che ha prodotto la storia.
L’arte, la più meravigliosamente “inutile” delle attività umana, è a mio giudizio ciò che meglio dimostra la relazione maieutica che esiste fra la coscienza della propria vulnerabilità e finitudine e la possibilità di produrre capolavori. Gli stessi che concedono all’uomo, una volta tanto, di sconfiggere l’implacabile dittatura della morte. L’arte è indifferente al tempo, è circolare, è sempre contemporanea ecc, ecc. Tutte affermazioni che condivido e faccio mie.
Da questo amore sono nate per me tante e preziose amicizie, con artisti di cui spesso sono stato medico curante; è nata una passione che mi ha spinto allo studio e alla pratica di una critica indipendente che si è messa in moto dopo anni e anni di vicinanza ai luoghi in cui l’arte nasceva e si sviluppava. È nato più di un decennio nel quale ho potuto disporre settimanalmente, grazie ad Alessandro Curzi e a Rina Gagliardi, di un’intera pagina di un quotidiano nazionale, Liberazione, per tracciare i miei profili di artista e narrare le loro gesta. E poi tante mostre e libri, non solo di arte evidentemente, di cui non faccio l’elenco dettagliato perché queste note non vogliono somigliare a un curriculum autocompiaciuto. Delle mie mostre citerò solo le ultime due: quella a L’Avana dedicata a Pizzi Cannella (2015), e l’ultima, intitolata “Ricapitolando” (2016) nella quale ho riunito quasi tutti gli artisti con cui ho lavorato negli ultimi 20 anni.
E fra gli oltre dieci libri pubblicati ne ricorderò due soltanto, oltre all’ultimo già citato, Slot Art Machine e Arte potere. Due opere a cui tengo moltissimo, in cui tento di dimostrare gli effetti devastanti che un sistema di dominio, fondato sul dispotismo del mercato, ha prodotto sulla natura più intima dell’arte che è quella che si riconduce alla sua matrice prima: la fragilità appunto. Nel tempo in cui viviamo non c’è spazio per la fragilità (e la sua forza maieutica) ma solo per l’arroganza del danaro, per quella del monoteismo della forma merce. È questa la dura realtà che ci disconnette dalle ragioni fondative della nostra umanità. Una realtà che dobbiamo assolutamente rovesciare. Per dimostraci, come si conviene, uomini fragili ma non rassegnati.
Roberto Gramiccia
Fragilità, una parola chiave
Le perle nascono da una malattia della conchiglia (anonimo)
Quando mi è stato proposto di scrivere questo breve autoritratto sono stato preso da due stati d’animo opposti. Da un lato l’autocompiacimento, dall’altro il senso del pudore. Ho pensato di conciliare entrambi fornendo un rapido profilo della mia storia personale orientato, però, a valorizzare prevalentemente quegli aspetti che meglio si prestano a suscitare un interesse generale, in grado di evocare, ben oltre i confini di uno sterile biografismo, questioni sogni e desideri diffusamente condivisi.
Del resto è esattamente la stessa cosa che ho cercato di fare con il mio ultimo libro: Elogio della Fragilità (Mimesis), che vi invito a leggere se queste note vi susciteranno qualche curiosità. Si tratta di un’agile riflessione su una questione per me cruciale, affrontata con l’intenzione di portare a valore l’insieme delle mie esperienze pratiche, dei miei studi e delle mie convinzioni. In questo libro c’è molto della mia vita. In qualche modo un autoritratto. Ma anche in questo caso realizzato non in modo illustrativo e dettagliato, come un dipinto fiammingo per intenderci. Ma, piuttosto, con quel gusto del “non finito” che invece di fornire particolari è piuttosto orientato a restituire un insieme. Un insieme di luoghi, un tempo, un groviglio di speranze, di tensioni, di azioni che hanno prodotto qualche successo e molte delusioni personali e pubbliche, private e politiche.
Qualche recensore sin troppo generoso ha definito questo libro l’autobiografia di una generazione. Quella nata negli anni Cinquanta. Quella che ha vissuto, nel pieno vigore delle sue forze, gli anni cruciali che vanno dalla fine dei Sessanta a tutti gli anni Settanta: l’epopea del ‘68-‘69, la rivoluzione dietro l’angolo, l’esaltazione e poi gli anni di piombo, la delusione e tutto il resto fino ad oggi. Fino al tempo più difficile di tutti: quello in cui sembra smarrito il valore stesso di un vivere collettivo fornito di senso, che ha lasciato il posto al ghiaccio di un universo fatto dalla somma di infinite aprassiche solitudini.
Elogio della fragilità inizia con due storie per così dire di iniziazione. La prima che coincide, più o meno, con il mio primo ricordo che narra di una terribile sensazione di abbandono: quella che provai svegliandomi irrimediabilmente solo a quattro anni, nel mezzo della notte, nel letto dei miei genitori scappati in ospedale per salvare la vita della mia sorellina, che stava morendo soffocata a causa di un croup difterico. Non ho mai capito quanto questo trauma abbia scavato nella mia psiche, credo molto. Ma una cosa è certa: a causa di quello spavento fu precocissima per me la presa d’atto della mia personale fragilità.
Alla prima, qualche anno dopo, seguì la seconda iniziazione. Quando ebbi modo di cogliere la breve conversazione di un bambino della mia età, sei-sette anni, che chiedeva al padre un paio di scarpe nuove perché le sue erano ormai consumate. Quel padre, con tutta evidenza un lavoratore, imbarazzato, si sarebbe fatto in quattro per promettergliele, ma non gliele promise, perché non voleva dire bugie. Fu per me subito chiaro che quella cosa era odiosa e insopportabile, come fu chiaro, di lì a poco, che quello non era un episodio isolato ma era la regola per un sacco di poveracci. Il grande popolo dei fragili che sono tali a causa dell’ingiustizia sociale di cui sono vittime: scoprii allora un secondo tipo di fragilità, non più casuale, non più legata ad una dimensione individuale. Scoprii la fragilità sociale che riguarda solo gli sfruttati, i dimenticati, i maltrattati.
Ad entrambi le fragilità cercai di reagire. Senza rendermene conto quelle due esperienze mi caricarono di rabbia e tutta la mia vita, in estrema sintesi, è stato il tentativo di non disperderla quella rabbia. Ma, invece, di indirizzarla verso qualche obiettivo che desse senso alla mia vita. La ricerca di senso e di quiete sono state le mie stelle polari. Una “quiete” che la mia natura stessa mi impediva di raggiungere. E il “senso” che sembrava non esserci in una società così diseguale e odiosa.
Da questi presupposti, sommariamente richiamati, sono nate le scelte principali della mia vita, per quello che razionalmente mi è dato di capire. L’impegno politico. La scelta della Facoltà di Medicina. E, più tardi, l’amore e lo studio per l’arte e per la scrittura. Sull’impegno politico e sull’amore e la pratica della medicina sorvolo, non perché si sia trattato di aspetti minori della mia vita, al contrario, ma perché il magazine nel quale questo mio modesto autoritratto sarà ospitato si intitola magazineart e, per ciò stesso, credo che possano interessare di più le ragioni del mio impegno come studioso e critico militante di arte contemporanea.
Ci si domanderà – molti me l’hanno chiesto – che nesso c’è fra politica, medicina e arte. Ebbene, sono convito che la politica sia un’arte, come la medicina e che, quindi, sia più facile per chi se ne occupi, in modo diciamo così integrale, innamorarsi di cose come: la pittura, la scultura, le arti visive in genere. C’è poi un discorso di fondo che affronto nel mio libro sulla fragilità e che riguarda la comune origine di queste tre attività, come di altre, che io faccio risalire al thauma (lo sgomento secondo l’accezione di Emanuele Severino).
È dal thauma, che è ben guardare coincide con l’angoscia della morte che, secondo Aristotele, prende origine la filosofia. Ebbene, la mia proposta è quella di ritenere che non solo la filosofia ma anche l’arte e l’interesse per la cosa pubblica, e tante altre cose fondamentali, derivino dall’angoscia del vivere e del morire e, in ultima istanza, dall’esperienza che prende le mosse dalla consapevolezza della nostra fragilità. Ecco che il cerchio si chiude, e quella che sembrava una sciarada si rivela per quello che è: un insieme di riflessioni e di esperienze che tende a svelare il nesso che esiste fra l’angoscia che deriva dalla coscienza della propria fragilità e quella spinta germinale che ha prodotto la storia.
L’arte, la più meravigliosamente “inutile” delle attività umana, è a mio giudizio ciò che meglio dimostra la relazione maieutica che esiste fra la coscienza della propria vulnerabilità e finitudine e la possibilità di produrre capolavori. Gli stessi che concedono all’uomo, una volta tanto, di sconfiggere l’implacabile dittatura della morte. L’arte è indifferente al tempo, è circolare, è sempre contemporanea ecc, ecc. Tutte affermazioni che condivido e faccio mie.
Da questo amore sono nate per me tante e preziose amicizie, con artisti di cui spesso sono stato medico curante; è nata una passione che mi ha spinto allo studio e alla pratica di una critica indipendente che si è messa in moto dopo anni e anni di vicinanza ai luoghi in cui l’arte nasceva e si sviluppava. È nato più di un decennio nel quale ho potuto disporre settimanalmente, grazie ad Alessandro Curzi e a Rina Gagliardi, di un’intera pagina di un quotidiano nazionale, Liberazione, per tracciare i miei profili di artista e narrare le loro gesta. E poi tante mostre e libri, non solo di arte evidentemente, di cui non faccio l’elenco dettagliato perché queste note non vogliono somigliare a un curriculum autocompiaciuto. Delle mie mostre citerò solo le ultime due: quella a L’Avana dedicata a Pizzi Cannella (2015), e l’ultima, intitolata “Ricapitolando” (2016) nella quale ho riunito quasi tutti gli artisti con cui ho lavorato negli ultimi 20 anni.
E fra gli oltre dieci libri pubblicati ne ricorderò due soltanto, oltre all’ultimo già citato, Slot Art Machine e Arte potere. Due opere a cui tengo moltissimo, in cui tento di dimostrare gli effetti devastanti che un sistema di dominio, fondato sul dispotismo del mercato, ha prodotto sulla natura più intima dell’arte che è quella che si riconduce alla sua matrice prima: la fragilità appunto. Nel tempo in cui viviamo non c’è spazio per la fragilità (e la sua forza maieutica) ma solo per l’arroganza del danaro, per quella del monoteismo della forma merce. È questa la dura realtà che ci disconnette dalle ragioni fondative della nostra umanità. Una realtà che dobbiamo assolutamente rovesciare. Per dimostraci, come si conviene, uomini fragili ma non rassegnati.
Roberto Gramiccia