Xilografie
A cura di: Antonello Rubini.
gli artisti Angelo Casciello, Bruno Conte, Aristea Kritsotaki, Giovanna Martinelli, Alberto Mingotti, Luciana Nespeca, Giorgio Russi, Pasquale Santoro, Tito, Manolis Tzombanakis.
Così inizia la presentazione in catalogo di Enrico Crispolti di un’antologica di Roberto Stelluti, significativo incisore fabrianese, tenutasi nel 2010 proprio in questo stesso museo: “Non v’è dubbio che in Italia, in particolare nella seconda metà del XX secolo, sia in vario modo affiorata e si sia piuttosto capillarmente diffusa una vera e propria condizione di incultura rispetto all’ambito della grafica, intesa questa quale sfera espressivo-immaginativa-comunicativa, fondata peraltro su una sua prestigiosa specifica tradizione moderna (di prima affermazione rinascimentale). Malgrado infatti Mantegna, Parmigianino, Grechetto, Tiepolo, Piranesi, se volete Fattori, fino, nel nostro tempo, a Morandi, Bartolini, Guerreschi, De Vita, Strazza. Generalmente estranea agli interessi di storici dell’arte, quasi sempre incompresa nella specificità evolutiva dei propri mezzi nell’esercizio di critici d’arte, infatti una cultura della grafica sopravvive ormai in Italia soltanto in eccellenze marginali, in oasi di felice creatività. Che tuttavia, nella loro aurea clandestinità (quasi), non sembra riescano a fare contesto, riescano insomma a restituire - finora almeno - una da decenni dissolta consistenza di tessuto culturale specifico. Ignorata peraltro da tempo, la grafica, nel suo specifico, nella progettualità stessa di grandi istituzioni, dalla Biennale veneziana alla Quadriennale romana”. Una situazione, questa enunciata dal grande critico e storico dell’arte, appunto innegabile, che anche sul piano della diffusione in termini di realizzazione di esposizioni specifiche, e quindi della mirata valorizzazione e dell’approfondimento oltre che naturalmente dell’allargamento di conoscenza ai più, dovrebbe per reazione spronare a fare maggiormente: nel suo piccolo questa mostra vuole dare il suo contributo!
La grafica non ha nulla da invidiare agli altri linguaggi artistici (anzi, ci sono bravi artisti che si sono misurati con diversi linguaggi che hanno dato il meglio proprio nella grafica), molti capolavori di varie epoche sono lì a dimostrarlo. Permette cose eccezionali. Eppure nei confronti del suo complesso (nel senso che ha una propria complessità) e sfaccettato mondo c’è in generale il sostanziale disinteresse, a vari livelli, di cui sopra. Non che la grafica appunto non venga praticata, ma in maniera rarefatta, da parte dei più, quando praticata, di solito occasionalmente, da non poter essere capace di offrire una, come detto da Crispolti, “consistenza di tessuto culturale specifico”. Tessuto minato alla base anche da una distorta concezione, diffusasi da mezzo secolo circa a questa parte (sull’onda del boom commerciale della grafica degli anni Settanta), della pratica grafica, che viene vista più come qualcosa dettato da una finalità soprattutto commerciale (la stampa come opera moltiplicata e pertanto più accessibile economicamente), considerandola un mezzo espressivo decisamente secondario, attraverso il quale si producono derivati di opere realizzate con altri linguaggi. Piuttosto che essere vista come qualcosa di estremamente “serio”, solcante un terreno di peculiare originalità, che nasce da un’esigenza culturale, alla pari di una pittura o una scultura, dove si riscontra lo stesso impegno e lo stesso rigore morale, in un riconoscimento a tale linguaggio di una sua pienezza.
La presente esposizione dimostra quanto straordinaria, di grande valore, possa essere la creazione grafica. Nel confronto tra posizioni diverse di ricerca, gli artisti in mostra ne sottolineano la reale ricchezza già nella sola area della xilografia. La xilografia, oggetto dunque di questa collettiva, ha il primato di essere la prima tecnica di stampa della storia, è per dirla con Ernst Ludwing Kirchner “la tecnica più grafica tra le tecniche grafiche” (ritenendo egli che “La volontà che induce l’artista al lavoro grafico è forse dovuta da una parte al desiderio di rendere stabile, ferma e definitiva la forma rapida, unica, del disegno; dall’altra le manipolazioni tecniche liberano nell’artista forze che non sono rilevanti nell’esecuzione molto più semplice del disegno e della pittura”). In effetti è la tecnica più grafica, almeno tra quelle “storiche”; dove il segno e la campitura piana sono gli unici attori, se non altro fino a quando Ugo da Carpi non mette a punto all’inizio del Cinquecento in ambito xilografico la tecnica del chiaroscuro, che insieme a quella del camaïeu permette di dare alle figurazioni una caratterizzazione anche sul piano tonale, attraverso possibilità di realistica simulazione pittorica e plastica del soggetto. Da tale momento la xilografia è capace di restituire risultati simili a quelli raggiungibili nei più osannati altri ambiti grafici, la calcografia e la litografia, e ancora più simili dopo che Thomas Bewick alla fine del Settecento scopre la possibilità di incidere su legno di testa oltre che su legno di filo, perché il legno di testa grazie alla sua durezza permette di ricavare con il bulino segni sottili e precisi.
Ma per molti come Luigi Servolini questo livellamento agli altri ambiti grafici ottenuto grazie all’uso del legno di testa e del bulino vuol dire sostanzialmente snaturamento della xilografia, che rinuncia a sottolineare le proprie peculiarità, e per questo si ritiene che il legno di filo e la sgorbia (come gli strumenti simili) siano più idonei. Scrive Servolini nel 1972: “È nel ‘sapore’ del legno, dunque, che la xilografia trova la sua ragion d’essere, sfruttando l’artista xilografo la vibrazione delle lignee fibre (Legno di filo) con le loro aperte vene e giuocando abilmente con contrapposizioni di vaste masse bianche e nere governate dall’irruente taglio della sgorbia: questo il carattere che il ‘Legno originale’ felicemente ritrovava alla fine dello scorso secolo sulle orme del glorioso passato rinascimentale ed affermava vigorosamente in pieno diritto. Sappiamo, infatti, come nel secondo Settecento la xilografia, che aveva già perduto la battaglia contro la trionfante calcografia, si era illusa di aprirsi a nuova vita ed a maggior splendore con l’uso di tavole tagliate dall’albero in senso trasversale (Legno di testa) e dello strumento proprio della rivale: il bulino”.
Quale che sia il modo di intendere e praticare la xilografia, essa in ogni caso dichiara di essere “la tecnica più grafica tra le tecniche grafiche”. E proprio per questo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento viene adottata dagli espressionisti come il citato Kirchner, in quanto mezzo ideale per esprimere il sintetismo lineare, la durezza da loro scelta in accezione fortemente drammatica, oltre che per avere la caratteristica di essere incisione diretta, che permette di incidere con una più decisa “passionalità” la matrice, e perciò non v’è il filtro della morsura con acidi, come invece accade nell’acquaforte e nell’acquatinta. Essa è definita la forma di stampa d’arte più semplice, elementare, ma considerato quanto detto finora bisogna dunque stare attenti a non scadere in una visione “semplicistica” (mi si perdoni il gioco di parole): è vero che in fondo non si tratta che dell’impressione su un foglio di carta di una o più matrici incise in rilievo inchiostrate che può avvenire senza l’ausilio di particolari strumentazioni come il torchio o gli acidi, e quindi che si tratta alla radice di una tecnica sostanzialmente “povera”, tuttavia quest’operazione non ha nulla di “leggero” e anzi può inerpicarsi fino a livelli di complessità altissima. In Giappone, dove ha origine ed è larghissimamente praticata, l’esecuzione xilografica ha a che fare addirittura con la ritualità sacrale.
La xilografia e la tipografia, che nasce da essa, viaggiano insieme per molti secoli, ma da tantissimo tempo è totalmente affrancata dall’applicazione tipografica e da ogni altro scopo utilitaristico. Gode della sua piena libertà, anche linguistica, è unicamente “uno dei mezzi concessi all’artista perché egli possa dare consistenza alle creazioni della sua fantasia… per realizzare una concezione plastica”, come scrive Luigi Veronesi negli anni Trenta. Si affaccia nel Novecento l’utilizzo nella xilografia di altri materiali come il linoleum e, più recentemente, il metacrilato e il forex, che sostituiscono o vengono impiegati in concorso con il legno (in questa mostra sono presenti incisioni su linoleum e su forex). Certo, “xilografia” significa “scrittura su legno”, ma sul piano metodologico tali stampe da matrici in linoleum, ecc., vengono ricavate in modo identico, e perciò sono anche assimilate e messe sotto il cappello della definizione “xilografia”. I puristi non saranno d’accordo (è nota, storicamente, la contrarietà ad utilizzare il linoleum da parte dello stesso Adolfo De Carolis), ma va comunque riconosciuto che è consuetudine che da molto tempo in mostre e pubblicazioni dedicate all’arte xilografica sono presenti anche tali incisioni su linoleum e altri materiali, perché appunto eseguite allo stesso modo, e con lo stesso spirito. Offrono caratteristiche diverse: se da un lato si rinuncia apertamente al fascino e all’elemento distintivo delle venature e della grana del legno (anche se non sempre presenti o evidenziate), dall’altro si ottiene un segno più fluido e morbido, nel linoleum, o con altre particolarità, altrove, tra pregi e limitazioni, presenti d’altronde in qualsiasi materiale.
Oggi però, già da molto in verità, francamente questioni di quest’ordine non sono più così appassionanti quando affrontate in termini ancora di polemica sottilizzazione. La creatività è capace di esprimersi così profondamente e su uno spettro ampissimo di possibilità attraverso la tecnica xilografica, che porta casomai l’attenzione più su un piano di riflessione sulla pertanto ricchissima versatilità a cui riesce a prestarsi questo mezzo. Il risultato è la cosa importante, tuttavia la presa di coscienza dell’aspetto tecnico è imprescindibile, e oggi più che mai considerando appunto l’attuale scadimento in una “condizione di incultura” nei confronti della grafica.
Artisti come Pasquale Santoro annullano ogni preclusione, strizzando l’occhio all’approccio più disinibito nei confronti della xilografia da parte dei giapponesi. Afferma in una conversazione con Luigi Ficacci del 2001: “Per me trovare una tecnica diversa da quella europea della xilografia è stato importantissimo. Non mi sarei mai messo a fare gli intagli classici, perché questo si portava dietro tutta la tradizione della xilografia del cinque-seicento e anche l’importanza che aveva per la società la xilografia di quell’epoca, la sua funzione nel trasmettere le cose, oppure nel riprodurre. […] Nella stampa moderna questo tipo di approccio e di tradizione non servono più. Ma la stampa è moderna quando è così. Quando abbatte un mondo di tecniche, di procedure, e anche di finalità. Anche pregevoli, ammirevoli come sono quelle del passato. I legni che faccio io sono veramente un’altra cosa, si chiamano stampe perché il sistema è quello della stampa, ma davvero non richiamano niente della tradizione della xilografia. Io avevo bisogno di una tecnica vergine, che mi permettesse di esprimere quello che mi interessava senza il condizionamento della tradizione. Intagliando nella maniera più immediata, stampando da me”.
Santoro (che cerca il sentimento e l’evocazione nell’astrazione d’ordine geometrico, restituendo immagini cariche di emotiva energia, con richiami iconici non di rado evidenti) è tra gli artisti di questa esposizione. Gli altri sono Angelo Casciello (la cui poetica è alimentata dal mito e dal simbolo mediterranei, sublimati in archetipali segni e forme di riduzione grafica), Bruno Conte (attento alla poesia e al racconto, esplicitati dentro aree allarmanti tra senso e non-senso, di carattere surreale), Aristea Kritsotaki (che tesse tramature segniche raffinate e piuttosto drammatiche, particolarmente vibranti, in bilico tra figurazione e astrazione), Giovanna Martinelli (la quale adotta un segno analitico, definente spazi e forme geometriche che sembrano in divenire, in sintetismi autosignificanti), Alberto Mingotti (attento “cultore” della figurazione, in prospettiva storica, che nel fare si muove nel tempo tra un’ottica più primitivista e una più classicista), Luciana Nespeca (“ricamatrice” di personaggi sognati e sognanti, portatori di desideri ed emozioni, dalle fattezze quasi caricaturali), Giorgio Russi (disvelatore di misteriosi “frammenti di meteorite” che “appaiono” direttamente dallo spazio psichico proprio dell’artista), Tito (che tra iconico e aniconico muove la sua ricerca, il suo sfaccettato immaginario basato sull’asciuttezza del simbolo, del segno e della forma) e Manolis Tzombanakis (il quale crea tramate figure fluttuanti nello spazio, come in procinto di smaterializzazione o, viceversa, di materializzazione).
Artisti, tranne la Kritsotaki, esclusivamente xilografa, che operano con diversi linguaggi, e che qui si ritrovano insieme in nome appunto della xilografia, a sottolinearne con le loro opere le qualità, la vitalità, le possibilità, insomma l’identità, che, come per la grafica in generale, c’è bisogno quindi oggi più che mai che gridi la sua voce.
Antonello Rubini
Così inizia la presentazione in catalogo di Enrico Crispolti di un’antologica di Roberto Stelluti, significativo incisore fabrianese, tenutasi nel 2010 proprio in questo stesso museo: “Non v’è dubbio che in Italia, in particolare nella seconda metà del XX secolo, sia in vario modo affiorata e si sia piuttosto capillarmente diffusa una vera e propria condizione di incultura rispetto all’ambito della grafica, intesa questa quale sfera espressivo-immaginativa-comunicativa, fondata peraltro su una sua prestigiosa specifica tradizione moderna (di prima affermazione rinascimentale). Malgrado infatti Mantegna, Parmigianino, Grechetto, Tiepolo, Piranesi, se volete Fattori, fino, nel nostro tempo, a Morandi, Bartolini, Guerreschi, De Vita, Strazza. Generalmente estranea agli interessi di storici dell’arte, quasi sempre incompresa nella specificità evolutiva dei propri mezzi nell’esercizio di critici d’arte, infatti una cultura della grafica sopravvive ormai in Italia soltanto in eccellenze marginali, in oasi di felice creatività. Che tuttavia, nella loro aurea clandestinità (quasi), non sembra riescano a fare contesto, riescano insomma a restituire - finora almeno - una da decenni dissolta consistenza di tessuto culturale specifico. Ignorata peraltro da tempo, la grafica, nel suo specifico, nella progettualità stessa di grandi istituzioni, dalla Biennale veneziana alla Quadriennale romana”. Una situazione, questa enunciata dal grande critico e storico dell’arte, appunto innegabile, che anche sul piano della diffusione in termini di realizzazione di esposizioni specifiche, e quindi della mirata valorizzazione e dell’approfondimento oltre che naturalmente dell’allargamento di conoscenza ai più, dovrebbe per reazione spronare a fare maggiormente: nel suo piccolo questa mostra vuole dare il suo contributo!
La grafica non ha nulla da invidiare agli altri linguaggi artistici (anzi, ci sono bravi artisti che si sono misurati con diversi linguaggi che hanno dato il meglio proprio nella grafica), molti capolavori di varie epoche sono lì a dimostrarlo. Permette cose eccezionali. Eppure nei confronti del suo complesso (nel senso che ha una propria complessità) e sfaccettato mondo c’è in generale il sostanziale disinteresse, a vari livelli, di cui sopra. Non che la grafica appunto non venga praticata, ma in maniera rarefatta, da parte dei più, quando praticata, di solito occasionalmente, da non poter essere capace di offrire una, come detto da Crispolti, “consistenza di tessuto culturale specifico”. Tessuto minato alla base anche da una distorta concezione, diffusasi da mezzo secolo circa a questa parte (sull’onda del boom commerciale della grafica degli anni Settanta), della pratica grafica, che viene vista più come qualcosa dettato da una finalità soprattutto commerciale (la stampa come opera moltiplicata e pertanto più accessibile economicamente), considerandola un mezzo espressivo decisamente secondario, attraverso il quale si producono derivati di opere realizzate con altri linguaggi. Piuttosto che essere vista come qualcosa di estremamente “serio”, solcante un terreno di peculiare originalità, che nasce da un’esigenza culturale, alla pari di una pittura o una scultura, dove si riscontra lo stesso impegno e lo stesso rigore morale, in un riconoscimento a tale linguaggio di una sua pienezza.
La presente esposizione dimostra quanto straordinaria, di grande valore, possa essere la creazione grafica. Nel confronto tra posizioni diverse di ricerca, gli artisti in mostra ne sottolineano la reale ricchezza già nella sola area della xilografia. La xilografia, oggetto dunque di questa collettiva, ha il primato di essere la prima tecnica di stampa della storia, è per dirla con Ernst Ludwing Kirchner “la tecnica più grafica tra le tecniche grafiche” (ritenendo egli che “La volontà che induce l’artista al lavoro grafico è forse dovuta da una parte al desiderio di rendere stabile, ferma e definitiva la forma rapida, unica, del disegno; dall’altra le manipolazioni tecniche liberano nell’artista forze che non sono rilevanti nell’esecuzione molto più semplice del disegno e della pittura”). In effetti è la tecnica più grafica, almeno tra quelle “storiche”; dove il segno e la campitura piana sono gli unici attori, se non altro fino a quando Ugo da Carpi non mette a punto all’inizio del Cinquecento in ambito xilografico la tecnica del chiaroscuro, che insieme a quella del camaïeu permette di dare alle figurazioni una caratterizzazione anche sul piano tonale, attraverso possibilità di realistica simulazione pittorica e plastica del soggetto. Da tale momento la xilografia è capace di restituire risultati simili a quelli raggiungibili nei più osannati altri ambiti grafici, la calcografia e la litografia, e ancora più simili dopo che Thomas Bewick alla fine del Settecento scopre la possibilità di incidere su legno di testa oltre che su legno di filo, perché il legno di testa grazie alla sua durezza permette di ricavare con il bulino segni sottili e precisi.
Ma per molti come Luigi Servolini questo livellamento agli altri ambiti grafici ottenuto grazie all’uso del legno di testa e del bulino vuol dire sostanzialmente snaturamento della xilografia, che rinuncia a sottolineare le proprie peculiarità, e per questo si ritiene che il legno di filo e la sgorbia (come gli strumenti simili) siano più idonei. Scrive Servolini nel 1972: “È nel ‘sapore’ del legno, dunque, che la xilografia trova la sua ragion d’essere, sfruttando l’artista xilografo la vibrazione delle lignee fibre (Legno di filo) con le loro aperte vene e giuocando abilmente con contrapposizioni di vaste masse bianche e nere governate dall’irruente taglio della sgorbia: questo il carattere che il ‘Legno originale’ felicemente ritrovava alla fine dello scorso secolo sulle orme del glorioso passato rinascimentale ed affermava vigorosamente in pieno diritto. Sappiamo, infatti, come nel secondo Settecento la xilografia, che aveva già perduto la battaglia contro la trionfante calcografia, si era illusa di aprirsi a nuova vita ed a maggior splendore con l’uso di tavole tagliate dall’albero in senso trasversale (Legno di testa) e dello strumento proprio della rivale: il bulino”.
Quale che sia il modo di intendere e praticare la xilografia, essa in ogni caso dichiara di essere “la tecnica più grafica tra le tecniche grafiche”. E proprio per questo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento viene adottata dagli espressionisti come il citato Kirchner, in quanto mezzo ideale per esprimere il sintetismo lineare, la durezza da loro scelta in accezione fortemente drammatica, oltre che per avere la caratteristica di essere incisione diretta, che permette di incidere con una più decisa “passionalità” la matrice, e perciò non v’è il filtro della morsura con acidi, come invece accade nell’acquaforte e nell’acquatinta. Essa è definita la forma di stampa d’arte più semplice, elementare, ma considerato quanto detto finora bisogna dunque stare attenti a non scadere in una visione “semplicistica” (mi si perdoni il gioco di parole): è vero che in fondo non si tratta che dell’impressione su un foglio di carta di una o più matrici incise in rilievo inchiostrate che può avvenire senza l’ausilio di particolari strumentazioni come il torchio o gli acidi, e quindi che si tratta alla radice di una tecnica sostanzialmente “povera”, tuttavia quest’operazione non ha nulla di “leggero” e anzi può inerpicarsi fino a livelli di complessità altissima. In Giappone, dove ha origine ed è larghissimamente praticata, l’esecuzione xilografica ha a che fare addirittura con la ritualità sacrale.
La xilografia e la tipografia, che nasce da essa, viaggiano insieme per molti secoli, ma da tantissimo tempo è totalmente affrancata dall’applicazione tipografica e da ogni altro scopo utilitaristico. Gode della sua piena libertà, anche linguistica, è unicamente “uno dei mezzi concessi all’artista perché egli possa dare consistenza alle creazioni della sua fantasia… per realizzare una concezione plastica”, come scrive Luigi Veronesi negli anni Trenta. Si affaccia nel Novecento l’utilizzo nella xilografia di altri materiali come il linoleum e, più recentemente, il metacrilato e il forex, che sostituiscono o vengono impiegati in concorso con il legno (in questa mostra sono presenti incisioni su linoleum e su forex). Certo, “xilografia” significa “scrittura su legno”, ma sul piano metodologico tali stampe da matrici in linoleum, ecc., vengono ricavate in modo identico, e perciò sono anche assimilate e messe sotto il cappello della definizione “xilografia”. I puristi non saranno d’accordo (è nota, storicamente, la contrarietà ad utilizzare il linoleum da parte dello stesso Adolfo De Carolis), ma va comunque riconosciuto che è consuetudine che da molto tempo in mostre e pubblicazioni dedicate all’arte xilografica sono presenti anche tali incisioni su linoleum e altri materiali, perché appunto eseguite allo stesso modo, e con lo stesso spirito. Offrono caratteristiche diverse: se da un lato si rinuncia apertamente al fascino e all’elemento distintivo delle venature e della grana del legno (anche se non sempre presenti o evidenziate), dall’altro si ottiene un segno più fluido e morbido, nel linoleum, o con altre particolarità, altrove, tra pregi e limitazioni, presenti d’altronde in qualsiasi materiale.
Oggi però, già da molto in verità, francamente questioni di quest’ordine non sono più così appassionanti quando affrontate in termini ancora di polemica sottilizzazione. La creatività è capace di esprimersi così profondamente e su uno spettro ampissimo di possibilità attraverso la tecnica xilografica, che porta casomai l’attenzione più su un piano di riflessione sulla pertanto ricchissima versatilità a cui riesce a prestarsi questo mezzo. Il risultato è la cosa importante, tuttavia la presa di coscienza dell’aspetto tecnico è imprescindibile, e oggi più che mai considerando appunto l’attuale scadimento in una “condizione di incultura” nei confronti della grafica.
Artisti come Pasquale Santoro annullano ogni preclusione, strizzando l’occhio all’approccio più disinibito nei confronti della xilografia da parte dei giapponesi. Afferma in una conversazione con Luigi Ficacci del 2001: “Per me trovare una tecnica diversa da quella europea della xilografia è stato importantissimo. Non mi sarei mai messo a fare gli intagli classici, perché questo si portava dietro tutta la tradizione della xilografia del cinque-seicento e anche l’importanza che aveva per la società la xilografia di quell’epoca, la sua funzione nel trasmettere le cose, oppure nel riprodurre. […] Nella stampa moderna questo tipo di approccio e di tradizione non servono più. Ma la stampa è moderna quando è così. Quando abbatte un mondo di tecniche, di procedure, e anche di finalità. Anche pregevoli, ammirevoli come sono quelle del passato. I legni che faccio io sono veramente un’altra cosa, si chiamano stampe perché il sistema è quello della stampa, ma davvero non richiamano niente della tradizione della xilografia. Io avevo bisogno di una tecnica vergine, che mi permettesse di esprimere quello che mi interessava senza il condizionamento della tradizione. Intagliando nella maniera più immediata, stampando da me”.
Santoro (che cerca il sentimento e l’evocazione nell’astrazione d’ordine geometrico, restituendo immagini cariche di emotiva energia, con richiami iconici non di rado evidenti) è tra gli artisti di questa esposizione. Gli altri sono Angelo Casciello (la cui poetica è alimentata dal mito e dal simbolo mediterranei, sublimati in archetipali segni e forme di riduzione grafica), Bruno Conte (attento alla poesia e al racconto, esplicitati dentro aree allarmanti tra senso e non-senso, di carattere surreale), Aristea Kritsotaki (che tesse tramature segniche raffinate e piuttosto drammatiche, particolarmente vibranti, in bilico tra figurazione e astrazione), Giovanna Martinelli (la quale adotta un segno analitico, definente spazi e forme geometriche che sembrano in divenire, in sintetismi autosignificanti), Alberto Mingotti (attento “cultore” della figurazione, in prospettiva storica, che nel fare si muove nel tempo tra un’ottica più primitivista e una più classicista), Luciana Nespeca (“ricamatrice” di personaggi sognati e sognanti, portatori di desideri ed emozioni, dalle fattezze quasi caricaturali), Giorgio Russi (disvelatore di misteriosi “frammenti di meteorite” che “appaiono” direttamente dallo spazio psichico proprio dell’artista), Tito (che tra iconico e aniconico muove la sua ricerca, il suo sfaccettato immaginario basato sull’asciuttezza del simbolo, del segno e della forma) e Manolis Tzombanakis (il quale crea tramate figure fluttuanti nello spazio, come in procinto di smaterializzazione o, viceversa, di materializzazione).
Artisti, tranne la Kritsotaki, esclusivamente xilografa, che operano con diversi linguaggi, e che qui si ritrovano insieme in nome appunto della xilografia, a sottolinearne con le loro opere le qualità, la vitalità, le possibilità, insomma l’identità, che, come per la grafica in generale, c’è bisogno quindi oggi più che mai che gridi la sua voce.
Antonello Rubini
Luoghi
http://www.museodellacarta.com/ 0732 22334