Paolo Facchinetti. tzimtzum
Nella cabala ebraica – tzimtzum – è ciò che rende possibile la creazione del mondo da parte di Dio. Il suo significato, difficile da rendere in italiano, corrisponde all'atto del ritrarsi, come all'onda che indietreggia per riuscire a coprire la sabbia nel moto successivo, e indica l'atto con il quale Dio si ritrae in se stesso per “fare spazio” a ciò che vuole creare.
L'intero lavoro di Paolo Facchinetti si gioca su questo, sulla dialettica composta, silenziosa, perseguita con un lavoro di ricerca in continua tensione, tra la materia e l'idea anche se, guardando i suoi lavori, emergono una rarefazione e una contrazione tali da non fare affiorare al pensiero il peso e la fatica di un grumo materico.
Le opere in mostra possono, seppure nella loro diversità di tecniche e supporti, essere definite come “paesaggi” o, meglio ancora, “landscapes”, parola che parla di terre e di fuga, di spazio in cui perdersi ed evadere, con un'ansia di superamento della finitudine delle frontiere.
In ogni suo lavoro è presente la partenza dal dato figurativo, che però è un avvio, e non un approdo: l'attimo fermato dallo sguardo, o da una fotografia, imprigiona un frammento di spazio, ma non può essere meta o fine: l'artista deve appropriarsene e imprimere la sua poetica alla materia, avviando il processo di una vera e propria metamorfosi, di una reale creazione, sorretto da una strenua volontà di sperimentazione tecnica. Paolo Facchinetti aggira la materia, la elabora, procede a tentoni, convinto che la verità artistica stia in questa profonda ricerca di corrispondenza tra l'opera e ciò che vi si vorrebbe vedere, vedere per davvero.
Questi paesaggi dell'anima, ottenuti per via di levare, sono riconoscibili perché attraversati dalla luce e, nell'ascetica e inesausta ricerca dell'artista, è proprio nello sfrondamento dell'opera dai colori che la luce si fa davvero visibile grazie allo tzimtzum, al contrarsi e il ritrarsi dell'immagine per accogliere il concetto primigenio affiorato nella visione mentale dell'artista: la luce arriva levando la materia e dilaga facendo vuoto.
Così l'opera parla di qualcosa attraverso la sua assenza: della luce attraverso le ombre, del colore attraverso il monocromo, di quanto è terreno attraverso un linguaggio immateriale, dello spazio infinito attraverso la bidimensionalità della superficie, diventa una porta, un elemento ambiguo, che può aprirsi o chiudersi, farsi varco o barriera, senza mai rinunciare ad essere un invito.
Giovanna Brambilla
L'intero lavoro di Paolo Facchinetti si gioca su questo, sulla dialettica composta, silenziosa, perseguita con un lavoro di ricerca in continua tensione, tra la materia e l'idea anche se, guardando i suoi lavori, emergono una rarefazione e una contrazione tali da non fare affiorare al pensiero il peso e la fatica di un grumo materico.
Le opere in mostra possono, seppure nella loro diversità di tecniche e supporti, essere definite come “paesaggi” o, meglio ancora, “landscapes”, parola che parla di terre e di fuga, di spazio in cui perdersi ed evadere, con un'ansia di superamento della finitudine delle frontiere.
In ogni suo lavoro è presente la partenza dal dato figurativo, che però è un avvio, e non un approdo: l'attimo fermato dallo sguardo, o da una fotografia, imprigiona un frammento di spazio, ma non può essere meta o fine: l'artista deve appropriarsene e imprimere la sua poetica alla materia, avviando il processo di una vera e propria metamorfosi, di una reale creazione, sorretto da una strenua volontà di sperimentazione tecnica. Paolo Facchinetti aggira la materia, la elabora, procede a tentoni, convinto che la verità artistica stia in questa profonda ricerca di corrispondenza tra l'opera e ciò che vi si vorrebbe vedere, vedere per davvero.
Questi paesaggi dell'anima, ottenuti per via di levare, sono riconoscibili perché attraversati dalla luce e, nell'ascetica e inesausta ricerca dell'artista, è proprio nello sfrondamento dell'opera dai colori che la luce si fa davvero visibile grazie allo tzimtzum, al contrarsi e il ritrarsi dell'immagine per accogliere il concetto primigenio affiorato nella visione mentale dell'artista: la luce arriva levando la materia e dilaga facendo vuoto.
Così l'opera parla di qualcosa attraverso la sua assenza: della luce attraverso le ombre, del colore attraverso il monocromo, di quanto è terreno attraverso un linguaggio immateriale, dello spazio infinito attraverso la bidimensionalità della superficie, diventa una porta, un elemento ambiguo, che può aprirsi o chiudersi, farsi varco o barriera, senza mai rinunciare ad essere un invito.
Giovanna Brambilla
Luoghi
www.viamoronisedici.it 347 2415297 035 4592486
Orario: gio-sab ore 16-19 Ingresso gratuito