Mavi Ferrando. Trasgressioni del ferro
A cura di: Testi di Kevin McManus e Evelina Schatz
Venticinque sculture estratte da due lastre rettangolari di ferro in un continuum senza scarti.
" ... A prima vista le opere del progetto Trasgressioni del Ferro sembrano scandire lo spazio secondo una normale, solida dialettica scultorea, seguendo le forme e le modalità espressive ormai familiari a chi conosce il lavoro dell’artista: in realtà, ciascuna di queste figure è costituita dallo spazio negativo, dallo “scarto” di un’altra figura della serie. Tutte le sculture derivano cioè da un’unica superficie rettangolare, suddivisa in modo da non scartare nulla. Ogni pezzo è al tempo stesso un pieno e un vuoto, è qualcosa in termini assoluti e qualcosa d’altro in termini relativi, così che l’apparente arbitrarietà espressiva di questi tagli racconta in realtà una storia ben diversa. ..." (dal testo di Kevin McManus)
Trasgressioni del Ferro
Kevin McManus
Il bello dei medium artistici, soprattutto di quelli tradizionali, è che tutti sanno riconoscerli immediatamente, fin dalla tenera età, ma nessuno sembra essere in grado trovare per ciascuno di essi una definizione univoca. L’impressione, anzi, è che più la riflessione si approfondisce, più scava negli abissi della teoria, più fa risuonare le pericolanti pareti delle categorie estetiche, più aumentano i dubbi; con il risultato che i punti di vista sono sempre più numerosi e diversificati, fino a rendere quanto mai frammentario lo status di ciascun mezzo. Cos’è dunque oggi, ad esempio, la pittura? È ancora una finestra-schermo, la delimitazione di uno spazio simbolico che vive secondo logiche proprie? Oppure è una superficie, uno spazio ottico costituito dalla stratificazione di una materia più o meno specifica? O è solo un modo di porsi davanti a un particolare tipo di oggetto (guardare in uno spazio incorniciato appeso a una parete a un’altezza approssimativamente costante)?
Altrettanti problemi, se non maggiori, li pone la scultura. A metà del ‘900 le due opzioni, radicalmente opposte, erano il superamento delle distinzioni verso varie forme di integrazione (il “concetto spaziale” ad esempio, con tutti i suoi antenati e tutti i suoi discendenti), oppure l’autocritica, l’esasperata ricerca di specificità entro la quale al singolo mezzo era severamente vietato assumere atteggiamenti civettuoli verso gli altri mezzi. La scultura, in particolare, doveva guardarsi al tempo stesso dalla bidimensionalità della pittura, dallo status letterale dell’oggetto e dall’allargamento spaziale dell’ambiente o dell’architettura. Il modo particolare di articolare lo spazio divenne il suo principale elemento distintivo: uno spazio in cui pieno e vuoto vivessero non nella placida relazione contenitore/contenuto tipica dell’ambiente, ma piuttosto in dialettica, in opposizione. Merito di diverse generazioni di scultori fu quello di superare la parzialità della statuaria (ancora temuta da Arturo Martini), che esaltava il pieno buttando fuori il vuoto, facendolo disperdere nello spazio esterno all’opera. Così che il vuoto diventava parte dell’opera, come la distanza acustica tra due note suonate dal pianoforte, e la scultura riscopriva in questa vocazione a ricostituire lo spazio la propria linfa vitale.
Mi sembra che in questa dialettica pieno/vuoto il lavoro di Mavi Ferrando trovi un suo tema di fondo. E come spesso accade quando dietro all’operare ci sono una progettualità e una ricerca rigorose, il tema è affrontato dalla prospettiva di chi vuole dire qualcosa di diverso. Oggi forse il problema di cosa sia la scultura non è più così di moda; ma chi ancora si pone questo interrogativo può trarre dalle opere presentate in questa sede un buon numero di risposte. A prima vista le opere del progetto Trasgressioni del Ferro sembrano scandire lo spazio secondo una normale, solida dialettica scultorea, seguendo le forme e le modalità espressive ormai familiari a chi conosce il lavoro dell’artista: in realtà, ciascuna di queste figure è costituita dallo spazio negativo, dallo “scarto” di un’altra figura della serie. Tutte le sculture derivano cioè da un’unica superficie rettangolare, suddivisa in modo da non scartare nulla. Ogni pezzo è al tempo stesso un pieno e un vuoto, è qualcosa in termini assoluti e qualcosa d’altro in termini relativi, così che l’apparente arbitrarietà espressiva di questi tagli racconta in realtà una storia ben diversa.
Credo che la scelta dei termini, in questo caso, sia essenziale: ovvero, “raccontare una storia” non è la solita formula usata al posto di “dire qualcosa”. C’è veramente una storia, una narrazione di cui ciascuna di queste figure è protagonista; l’opera non esiste infatti solo nella dimensione, rigorosamente spaziale, della sua installazione finale. Esiste anche nel tempo, il tempo che separa lo stato attuale dall’unità originaria, il tempo attraverso cui si articola la separazione e la ricontestualizzazione delle singole parti – una sorta di Pangea dai raffinati e al tempo stesso schietti profili metallici. Meglio ancora, ciascun pezzo esiste in due luoghi e in tre tempi diversi: sulla parete attuale e nella lastra a cui le sue forme lo riportano logicamente, nel suo passato di forma totale e rettangolare, nel suo presente di elemento indipendente e nel futuro possibile del ricongiungimento alla forma originaria. Possibile anche solo a livello mentale, forse, ma la sostanza non cambia; quello che conta è che il processo di separazione di queste forme dal tutto non è entropico, irreversibile; si basa cioè non sul disordine, ma sulla poesia di un ordine fecondo che in una lastra inerte – in tutta la lastra e solo nella lastra – vede e ritaglia una selva di forme che fluttuano nell’aria. Un ordine cioè che consente di dedurre da una superficie ottusa un mondo di fantasia pronto a librarsi in volo.
Questa duplicità paradossale sembra essere un altro dei temi fondamentali per Mavi Ferrando; le sue forme hanno un aspetto pulito, netto, quasi da design, per usare il termine nell’accezione, a dire il vero riduttiva, che tende ad avere oggi. Eppure basta avvicinarsi, scegliere un’angolazione insolita e trovare la luce giusta per cogliere in questi tagli una materialità esuberante, una sollecitazione al tatto più forte ancora, per certi versi, di quella esercitata sulla vista. Non c’è nulla di esclusivamente “industriale” in questi lavori, e anche il profilo più netto rivela la sorpresa dello scultore – inteso come colui che scolpisce, che modella la materia mediante un gesto – di fronte alla bellezza fenomenica dei materiali. Non si tratta semplicemente di andare oltre le apparenze: le apparenze rimangono, sono parte integrante del processo comunicativo messo in atto dall’opera. Anzi, è proprio il loro convivere con la scoperta ad animare questi lavori. Il tempo, quello letteralmente impiegato dal fruitore per farsi assorbire nella fisicità del pezzo, risolve la tensione fra il tutto e le parti a favore di queste ultime, mentre il tempo ulteriore, quello che la mente utilizza per astrarre di nuovo, per vedere le cose nella loro logica compositiva, rovescia di nuovo la prospettiva. Anzi, una volta ricostruito il tutto iniziale, i profili di ciascuna forma diventano una sorta di ferite, i segni tangibili dell’unità originaria e della scissione operata a partire da essa. Un unità che – e non è un caso – corrisponde a quel rettangolo che è l’origine di tutte le rappresentazioni, dell’istinto innato nell’uomo ad astrarre, a produrre immagini controllabili del mondo.
I materiali hanno per Mavi un’importanza ancor maggiore, forse, di quella ricoperta dalle forme. O meglio, la presunta indipendenza tra i due elementi è, ancora una volta, un’apparenza iniziale, contraddetta radicalmente nel momento in cui, ad esempio, l’artista trasforma il singolo pezzo in un dialogo tra elementi in materiali diversi (legno e acciaio). In questi casi, il materiale rivela una propria logica formale specifica, una propria poesia; tale che, una volta presa familiarità con queste opere, specie con quelle più piccole, faremmo fatica – e sbaglieremmo – ad immaginarle al contrario, il legno al posto dell’acciaio e viceversa. Entrambi i materiali sembrano suggerire una forma deducibile della loro tecnica di lavorazione più logica: al tempo stesso, l’esito finale di questo processo li porta entrambi ad andare oltre la propria natura, il legno ad assumere un aspetto freddo e distaccato, l’acciaio a cercare la forma organica, lo slancio vitale e quasi l’abbraccio rispetto all’elemento con cui si unisce.
Questa dinamica tra materia e materia appare ancora più evidente, e feconda di squisiti problemi formali, quando il rapporto si articola lungo l’opposizione scultura/base. Il rapporto fra queste due componenti è essenziale nella prassi dello scultore, e assume nel lavoro di Mavi una configurazione del tutto particolare. Che relazione c’è – formale e poetica, materiale e concettuale – tra la cornice e il dipinto? Tra il palcoscenico e gli attori? Tra il testo e le sue soglie? Nel caso di questi lavori, ed è una soluzione assai personale, la figura sembra quasi “tagliare” la base; la seconda, cioè, non partecipa della stessa dimensione della prima, come nella scultura tradizionale, dove il basamento serviva per “preparare” lo spazio occupato dalla figura. Qui l’articolazione della base nelle tre dimensioni è per certi versi tradita dalla figura, che sembra quasi fare da ostacolo, da schermo all’occhio di chi guarda, che istintivamente è portato a cercare un piano di fondo, un retro. La scena, cioè, è occupata non da attori in carne ed ossa ma da silhouettes, la cui vita sembra avvenire in una dimensione che non necessita dello spazio costituito dalla scena stessa, come se su un palcoscenico vedessimo solo ombre o giochi di luce, formalmente più assimilabili a uno schermo. Una vera e propria «trasgressione» di quella che è l’articolazione spaziale promessa dalla base. Anziché creare eterogeneità, però, questa trasgressione contribuisce a saldare insieme i due elementi: ovvero, la base non è più una semplice cornice, un indicatore che ci segnala la presenza di una forma o di un processo semiotico, ma è tutt’uno con la figura, è scultura alla pari di essa. E non si tratta solo di abolire le gerarchie tra testo e paratesto, come in molta arte degli ultimi decenni: si tratta piuttosto di mostrare, di mettere in atto un processo generativo, entro il quale la figura si innesta nella base – innesto nel senso agronomico del termine, inteso come pratica volta ad unire due individui diversi per far crescere nuove piante. Significativamente, la terminologia specifica parla, a proposito degli innesti, di una «parte basale» e di una «parte aerea»: e cosa c’è di più aereo di queste forme d’acciaio che sembrano al tempo stesso prendere il volo e cercare di portare con sé la propria base? Il paragone, di per sé suggestivo, diventa particolarmente calzante quando la base è, per l’appunto, un tronco o una radice. Di arte che metta insieme naturale e artificiale, con diversi possibili punti di equilibrio, ne abbiamo vista molta. In questi lavori, tuttavia, c’è una ricerca di superamento della dialettica, una vera comunione tra le due componenti, che si saldano fino a diventare essenziali l’una all’altra.
Essenzialità, non nel senso di “riduzione” o di “austerità formale”, ma nel senso appunto di importanza, di imprescindibilità delle parti l’una in rapporto all’altra, e ciascuna in rapporto al tutto. Questa forse, è la parola che meglio descrive il lavoro scultoreo di Mavi Ferrrando.
" ... A prima vista le opere del progetto Trasgressioni del Ferro sembrano scandire lo spazio secondo una normale, solida dialettica scultorea, seguendo le forme e le modalità espressive ormai familiari a chi conosce il lavoro dell’artista: in realtà, ciascuna di queste figure è costituita dallo spazio negativo, dallo “scarto” di un’altra figura della serie. Tutte le sculture derivano cioè da un’unica superficie rettangolare, suddivisa in modo da non scartare nulla. Ogni pezzo è al tempo stesso un pieno e un vuoto, è qualcosa in termini assoluti e qualcosa d’altro in termini relativi, così che l’apparente arbitrarietà espressiva di questi tagli racconta in realtà una storia ben diversa. ..." (dal testo di Kevin McManus)
Trasgressioni del Ferro
Kevin McManus
Il bello dei medium artistici, soprattutto di quelli tradizionali, è che tutti sanno riconoscerli immediatamente, fin dalla tenera età, ma nessuno sembra essere in grado trovare per ciascuno di essi una definizione univoca. L’impressione, anzi, è che più la riflessione si approfondisce, più scava negli abissi della teoria, più fa risuonare le pericolanti pareti delle categorie estetiche, più aumentano i dubbi; con il risultato che i punti di vista sono sempre più numerosi e diversificati, fino a rendere quanto mai frammentario lo status di ciascun mezzo. Cos’è dunque oggi, ad esempio, la pittura? È ancora una finestra-schermo, la delimitazione di uno spazio simbolico che vive secondo logiche proprie? Oppure è una superficie, uno spazio ottico costituito dalla stratificazione di una materia più o meno specifica? O è solo un modo di porsi davanti a un particolare tipo di oggetto (guardare in uno spazio incorniciato appeso a una parete a un’altezza approssimativamente costante)?
Altrettanti problemi, se non maggiori, li pone la scultura. A metà del ‘900 le due opzioni, radicalmente opposte, erano il superamento delle distinzioni verso varie forme di integrazione (il “concetto spaziale” ad esempio, con tutti i suoi antenati e tutti i suoi discendenti), oppure l’autocritica, l’esasperata ricerca di specificità entro la quale al singolo mezzo era severamente vietato assumere atteggiamenti civettuoli verso gli altri mezzi. La scultura, in particolare, doveva guardarsi al tempo stesso dalla bidimensionalità della pittura, dallo status letterale dell’oggetto e dall’allargamento spaziale dell’ambiente o dell’architettura. Il modo particolare di articolare lo spazio divenne il suo principale elemento distintivo: uno spazio in cui pieno e vuoto vivessero non nella placida relazione contenitore/contenuto tipica dell’ambiente, ma piuttosto in dialettica, in opposizione. Merito di diverse generazioni di scultori fu quello di superare la parzialità della statuaria (ancora temuta da Arturo Martini), che esaltava il pieno buttando fuori il vuoto, facendolo disperdere nello spazio esterno all’opera. Così che il vuoto diventava parte dell’opera, come la distanza acustica tra due note suonate dal pianoforte, e la scultura riscopriva in questa vocazione a ricostituire lo spazio la propria linfa vitale.
Mi sembra che in questa dialettica pieno/vuoto il lavoro di Mavi Ferrando trovi un suo tema di fondo. E come spesso accade quando dietro all’operare ci sono una progettualità e una ricerca rigorose, il tema è affrontato dalla prospettiva di chi vuole dire qualcosa di diverso. Oggi forse il problema di cosa sia la scultura non è più così di moda; ma chi ancora si pone questo interrogativo può trarre dalle opere presentate in questa sede un buon numero di risposte. A prima vista le opere del progetto Trasgressioni del Ferro sembrano scandire lo spazio secondo una normale, solida dialettica scultorea, seguendo le forme e le modalità espressive ormai familiari a chi conosce il lavoro dell’artista: in realtà, ciascuna di queste figure è costituita dallo spazio negativo, dallo “scarto” di un’altra figura della serie. Tutte le sculture derivano cioè da un’unica superficie rettangolare, suddivisa in modo da non scartare nulla. Ogni pezzo è al tempo stesso un pieno e un vuoto, è qualcosa in termini assoluti e qualcosa d’altro in termini relativi, così che l’apparente arbitrarietà espressiva di questi tagli racconta in realtà una storia ben diversa.
Credo che la scelta dei termini, in questo caso, sia essenziale: ovvero, “raccontare una storia” non è la solita formula usata al posto di “dire qualcosa”. C’è veramente una storia, una narrazione di cui ciascuna di queste figure è protagonista; l’opera non esiste infatti solo nella dimensione, rigorosamente spaziale, della sua installazione finale. Esiste anche nel tempo, il tempo che separa lo stato attuale dall’unità originaria, il tempo attraverso cui si articola la separazione e la ricontestualizzazione delle singole parti – una sorta di Pangea dai raffinati e al tempo stesso schietti profili metallici. Meglio ancora, ciascun pezzo esiste in due luoghi e in tre tempi diversi: sulla parete attuale e nella lastra a cui le sue forme lo riportano logicamente, nel suo passato di forma totale e rettangolare, nel suo presente di elemento indipendente e nel futuro possibile del ricongiungimento alla forma originaria. Possibile anche solo a livello mentale, forse, ma la sostanza non cambia; quello che conta è che il processo di separazione di queste forme dal tutto non è entropico, irreversibile; si basa cioè non sul disordine, ma sulla poesia di un ordine fecondo che in una lastra inerte – in tutta la lastra e solo nella lastra – vede e ritaglia una selva di forme che fluttuano nell’aria. Un ordine cioè che consente di dedurre da una superficie ottusa un mondo di fantasia pronto a librarsi in volo.
Questa duplicità paradossale sembra essere un altro dei temi fondamentali per Mavi Ferrando; le sue forme hanno un aspetto pulito, netto, quasi da design, per usare il termine nell’accezione, a dire il vero riduttiva, che tende ad avere oggi. Eppure basta avvicinarsi, scegliere un’angolazione insolita e trovare la luce giusta per cogliere in questi tagli una materialità esuberante, una sollecitazione al tatto più forte ancora, per certi versi, di quella esercitata sulla vista. Non c’è nulla di esclusivamente “industriale” in questi lavori, e anche il profilo più netto rivela la sorpresa dello scultore – inteso come colui che scolpisce, che modella la materia mediante un gesto – di fronte alla bellezza fenomenica dei materiali. Non si tratta semplicemente di andare oltre le apparenze: le apparenze rimangono, sono parte integrante del processo comunicativo messo in atto dall’opera. Anzi, è proprio il loro convivere con la scoperta ad animare questi lavori. Il tempo, quello letteralmente impiegato dal fruitore per farsi assorbire nella fisicità del pezzo, risolve la tensione fra il tutto e le parti a favore di queste ultime, mentre il tempo ulteriore, quello che la mente utilizza per astrarre di nuovo, per vedere le cose nella loro logica compositiva, rovescia di nuovo la prospettiva. Anzi, una volta ricostruito il tutto iniziale, i profili di ciascuna forma diventano una sorta di ferite, i segni tangibili dell’unità originaria e della scissione operata a partire da essa. Un unità che – e non è un caso – corrisponde a quel rettangolo che è l’origine di tutte le rappresentazioni, dell’istinto innato nell’uomo ad astrarre, a produrre immagini controllabili del mondo.
I materiali hanno per Mavi un’importanza ancor maggiore, forse, di quella ricoperta dalle forme. O meglio, la presunta indipendenza tra i due elementi è, ancora una volta, un’apparenza iniziale, contraddetta radicalmente nel momento in cui, ad esempio, l’artista trasforma il singolo pezzo in un dialogo tra elementi in materiali diversi (legno e acciaio). In questi casi, il materiale rivela una propria logica formale specifica, una propria poesia; tale che, una volta presa familiarità con queste opere, specie con quelle più piccole, faremmo fatica – e sbaglieremmo – ad immaginarle al contrario, il legno al posto dell’acciaio e viceversa. Entrambi i materiali sembrano suggerire una forma deducibile della loro tecnica di lavorazione più logica: al tempo stesso, l’esito finale di questo processo li porta entrambi ad andare oltre la propria natura, il legno ad assumere un aspetto freddo e distaccato, l’acciaio a cercare la forma organica, lo slancio vitale e quasi l’abbraccio rispetto all’elemento con cui si unisce.
Questa dinamica tra materia e materia appare ancora più evidente, e feconda di squisiti problemi formali, quando il rapporto si articola lungo l’opposizione scultura/base. Il rapporto fra queste due componenti è essenziale nella prassi dello scultore, e assume nel lavoro di Mavi una configurazione del tutto particolare. Che relazione c’è – formale e poetica, materiale e concettuale – tra la cornice e il dipinto? Tra il palcoscenico e gli attori? Tra il testo e le sue soglie? Nel caso di questi lavori, ed è una soluzione assai personale, la figura sembra quasi “tagliare” la base; la seconda, cioè, non partecipa della stessa dimensione della prima, come nella scultura tradizionale, dove il basamento serviva per “preparare” lo spazio occupato dalla figura. Qui l’articolazione della base nelle tre dimensioni è per certi versi tradita dalla figura, che sembra quasi fare da ostacolo, da schermo all’occhio di chi guarda, che istintivamente è portato a cercare un piano di fondo, un retro. La scena, cioè, è occupata non da attori in carne ed ossa ma da silhouettes, la cui vita sembra avvenire in una dimensione che non necessita dello spazio costituito dalla scena stessa, come se su un palcoscenico vedessimo solo ombre o giochi di luce, formalmente più assimilabili a uno schermo. Una vera e propria «trasgressione» di quella che è l’articolazione spaziale promessa dalla base. Anziché creare eterogeneità, però, questa trasgressione contribuisce a saldare insieme i due elementi: ovvero, la base non è più una semplice cornice, un indicatore che ci segnala la presenza di una forma o di un processo semiotico, ma è tutt’uno con la figura, è scultura alla pari di essa. E non si tratta solo di abolire le gerarchie tra testo e paratesto, come in molta arte degli ultimi decenni: si tratta piuttosto di mostrare, di mettere in atto un processo generativo, entro il quale la figura si innesta nella base – innesto nel senso agronomico del termine, inteso come pratica volta ad unire due individui diversi per far crescere nuove piante. Significativamente, la terminologia specifica parla, a proposito degli innesti, di una «parte basale» e di una «parte aerea»: e cosa c’è di più aereo di queste forme d’acciaio che sembrano al tempo stesso prendere il volo e cercare di portare con sé la propria base? Il paragone, di per sé suggestivo, diventa particolarmente calzante quando la base è, per l’appunto, un tronco o una radice. Di arte che metta insieme naturale e artificiale, con diversi possibili punti di equilibrio, ne abbiamo vista molta. In questi lavori, tuttavia, c’è una ricerca di superamento della dialettica, una vera comunione tra le due componenti, che si saldano fino a diventare essenziali l’una all’altra.
Essenzialità, non nel senso di “riduzione” o di “austerità formale”, ma nel senso appunto di importanza, di imprescindibilità delle parti l’una in rapporto all’altra, e ciascuna in rapporto al tutto. Questa forse, è la parola che meglio descrive il lavoro scultoreo di Mavi Ferrrando.
Luoghi
338. 800. 7617 338. 800. 7617
orario: da martedì a venerdì dalle 17,00 alle 19,00