Lillo Messina "Metafora"
A cura di: Francesco Gallo Mazzeo - Testo di Maurizio Cohen
SignumFrancescoGalloMazzeo
Nome è l’impronta maggiore che si possa dare ad ogni giusta, vera,
persona, per portarla fuori dalla negatività, dalla assenza,intesa
come dispersione, dissolvimento, dovuto alla mancata nascita o
alla morte, della leva vocativa capace di sollevare caos in mondo e
nel caso specifico di suscitare, la quiddità, la personalità, la spiritualità,
che sta sul verbo, senza di cui non è possibile la parola, il lievito
di un pensiero, l’innalzarsi metafisico, astrattivo, sulla folla visibile.
Un assolvimento cronologico, storico, necessario, per dare fondazione
per dare alimento ad ogni furore, che possa essere profetico, che
possa essere rituale, che possa essere poetico, che possa essere passionale,
permettendo quella generazione di idee e di forme, che possano essere
atto di nascita di invisibile che diventa visibile, di potenza che si fa atto.
Stile come cultura che è conoscenza e comprensione, come lo
sono storia e filosofia, unite insieme in una tensione asimmetrica,
a dare profondità nello stesso momento in cui s’aspira all’atto,
alla vocazione al gesto orientato, come premessa e conseguenza di
una conoscenza, che è confidenza verso l’ignoto, che continua ad
essere tale, anzi prosegue la sua distinzione in lungo e in largo,
tanto più, quanto più s’allunga un raggio di luce e il suo diametro.
Una conferma vale una lievitazione, che è una conseguenza della
vita e quindi della vitalità, che non cessa mai di dare segni, miti,
di quanto sia necessario avere radici, per innalzamento e per un
cammino, che deve diventare mappa, perché tutto ciò che è vuoto
deve sempre confrontare il noto con l’ignoto, perché poggia su entrambi
l’alternarsi di luce ed ombra, come essenzialità di ogni codice
che esige la forza tetragona dell’esegesi e la leggerezza dell’allegoria.
Poetica è affiancamento dell’effimero al sostanziale, lingua e parola,
più che mai essenziale, appartenente ad una metafisica delle conoscenze
che permette al contenitore spirituale di essere tale, diventando laboratorio
ideale e reale della fantasia, nelle sue oscillazioni sul bello che
è misura e simmetria, sul sublime che è infinitudine e ineffabilità,
ma che hanno in comune il tessuto stellare dell’armonia, che
permette al piccolo di stare col grande e allo sconfinato di colloquiare
con l’infinitesimale, in una misturazione alchemica e sapienziale.
Attualità come scorrimento, come temporalità, che per quanto
abbia virgole e punti e cronologia discontinua e non sistematica,
ha una sua propria scivolosità che fa percepire più come concettualità
che non come effettività, perché nel momento dell’accadimento non
è coscienza e quando diventa coscienza appartiene ad un passato,
appena accennato, ma ciò nonostante, inesorabile, all’imprescindibile.
Scoperta è la ribalta dell’inattesa, una illuminazione magica, altra,
nella misura temporale dell’ordinanza, originarietà di un cammino di idee
e continuità che sono coperte da polvere, da caligine, da colpe e chimere,
come le idee platoniche, vengono musicate, significate, visibilizzate,
tattilizzate, ammesse nel circolo delle virtù, che sono cardini per stare
nel mondo, da sole, nella verticalità della mistica e della leggerezza
come itineraria, nella orizzontalità, come salire montagne, andare
per stelle e incontrare se stessi in forma difforme, d’uno e di tutti.
E Pluribus unum, nel segno di una ricerca continua, di una scalare
immensa fede nell’universo, che contiene tutto e che muoviamo in
via psicologica, per aggiungerci ed affermare certezze, dell’hic et nunc,
mentre l’ignoto è in mezzo a noi, motore immobile, altro, oltre, di vita.
Nella confidenza che il tempo dei cicli stia concludendo, la rivoluzione
e alla fase di discente di Kali yuga nel segno dell’acquario e subentri
quello ascendente, verso l’intelligenza, la grazia, nel cuore del sapere.
Specchio, non significa immobilità, tutt’altro, vuol dire sguardo mobile,
magico, sulla transizione, sulla velocità di porta e trasporta, carro con
una carica di attualità, che spesso non permette una vera conoscenza,
ma una presentazione a mezzo ludico e tragico, in forma tremolante
di schemi che si affollano da tutte le parti, esaltando e deprimendo,
in forma plastica che non prevede assestamenti, perché lo spettacolo
continua, ma non è sempre lo stesso, non è più quello, uno qualsiasi.
L’unica cosa che sappiamo è appunto, che l’ignoto si espande, è grande,
sempre più grande e lo stesso concetto di perimetro diventa insignificante,
macinando teorie su teorie, metafore su metafore, annunciandoci
territorialità “assurde” energie oscure, rispetto a cui I tempi del cielo, della
volta celeste, del firmamento erano risposte a domande e non domande (…).
Enigma come universo sconosciuto che contiene imprevisti, forme e
contenuti instabili, di cui non conosciamo l’origine, né il destino,
lo vediamo solo un tratto di percorso, troppo breve per conoscerlo,
ammesso che ci convenga farlo nostro e non averlo sempre come
fascinoso orizzonte in grado di scatenare la nostra fantasia e
non farla rinchiudere in una monade, senza più porte, né finestre.
É stato oro, è stato argento, è stato bronzo, continua ad
essere ferro, anche se lo chiamiamo in modi diversi, perché tratta
sempre dello smarrimento, in un sublime che si espande, si espande
e ci lascia con sempre nuovi interrogativi, perché tutto tende a
scivolare, ma verrà un giorno, un mese, un anno, per alzare lo sguardo .
Verranno un giorno pensieri e forme, perfettamente espresse, come
la verità prima che le oscurità e le profondità la coprissero e
riprenderanno, in eterna primavera, con radici profonde di terra
e terra, fronde e fronde, fiori e fiori, imperturbabili come firmamenti.
Marea a Lampedusa
Uno sguardo plana sul mare fino a bloccarsi su uno scorcio che sembra non essere più mare. E’ l’occhio tecnologico di un extraterrestre che cerca di capire, quello di un satellite o di un drone che raccoglie informazioni sul meteo delle prossime ore, un gabbiano che attirato dai colori non riconosce uno scoglio su cui riposare? No nulla di tutto questo. Lo sguardo è quello di Lillo Messina. Uno sguardo intenso, profondo come il mare che osserva. Uno sguardo che si blocca e che rivela l’impossibilità o meglio ancora il timore, del non potere o volere avvicinarsi di più a ciò che vede. Perché l’artista quel mare lo conosce bene, è il suo mare. Non solo il suo mare, ma il mare che ha sempre vissuto fuori e dentro di se. Il mare che ha attraversato la sua vita di uomo ed ha sempre ispirato e condizionato la sua vita di artista. Ma quello della “Marea a Lampedusa” è un altro mare. Un mare che non nasconde più i misteri, le emozioni, le gioie e le paure che per millenni ha celato e che hanno accompagnato l’uomo, accarezzandolo o respingendolo, nella sua evoluzione accanto alla natura. Non è il mare che almeno per una volta ha trasformato tutti noi in novelli Ulisse, fisicamente e metaforicamente, alla scoperta di un nuovo mondo e che ha fatto parte del viaggio della nostra vita. E’ un altro mare.
Lo sguardo fermo, immobile dell’artista si blocca su quell’azzurro variopinto che diventa fotografia di un passato che non c’è più, di un presente che ci opprime e di un futuro che, al contrario di Ulisse, non saremo in grado di affrontare. Nell’opera di Messina, al contrario di molte altre, non c’è più la descrizione visiva della terra, di uno scoglio, di un bagnasciuga, di una spiaggia. Non ci sono più quegli scorci di Mediterraneo, intensi e tranquillizzanti, elaborati come luoghi dove realtà e fantasia si incontrano per diventare carburante della creatività. Non si intravedono, nemmeno all’orizzonte, ombre di isola o continente, da sempre simbolo facile ma efficace di speranza, di approdo, di sicurezza, di traguardo raggiunto. E’ scomparsa la linea sottile, una sorta di ying-yang naturale, che rende mare e terra una cosa sola, dove mare e terra esaltano la loro forza e la loro armonia.
Il mare non offre più a chi lo osserva quel senso di mistero e di solitudine agrodolce che pervade chi è da sempre abituato a viverlo. Mistero e solitudine possono avere significati diversi, fino a diventare l’opposto di quello che rappresentano. Ed è questo ciò che accade attraverso il tratto preciso e nitido di Messina. E’ un tratto che non riesce a trattenere tristezza e rassegnazione. E’ la stessa sensazione di disagio e sofferenza vissuta per un amico che soffre e per il quale poco si può fare se non condividere questa sofferenza con partecipazione emotiva e una sensibilità che non si riesce a contenere. Messina coglie ed espande nella propria anima i particolari di quel dolore.
No, non ci sono più le isole del passato. Dal mare sembrano emerse nuove isole, dove il vento, le onde e le correnti, spingono ciò che prima incontravamo camminando su una spiaggia o ammirando una scogliera.
Le nuove isole sono drammaticamente artificiali, fluttuanti, confuse. Ma non è l’isola che non c’è. L’isola di Messina è di legno, una piccola nave o un barcone che prende forme sempre diverse, affiorando con ciò che ne rimane, da un mare che incornicia tutto mantenendo la forza cromatica di sempre. Raccolti tra i resti di quell’imbarcazione, come naufraghi che cercano un appiglio per posare una mano e sentirsi sicuri, decine di oggetti si ammassano uno accanto all’altro in cerca di uno spazio vitale. Ed è qui che esplode la creatività dell’artista. Un’ esplosione che lancia un messaggio che diventa monito e accusa verso tutti noi.
Cosa sono quegli oggetti così colorati, quelle forme più o meno distinte, cosa è quel puzzle che non appartiene alla natura e che mai sarà risolto in maniera logica, dove anche un bambino capirebbe immediatamente che l’incastro tra i singoli oggetti è puramente casuale e dettato dai capricci del mare?
Il puzzle impossibile si trasforma in emozione e poi in poesia. Una poesia tragica e commossa, un urlo disperato, una presa di coscienza di chi può, nel modo più semplice e per questo più efficace, filtrare i simboli nell’interpretazione di ciò che vede. Quello che ci mostra Messina attraverso oggetti che diventano pesanti come pietre che non affondano, è l’incontro-scontro tra due mondi. Tra quelle travi galleggianti, su quei monconi di imbarcazione, solo apparentemente surreali, si confrontano in silenzio due mondi vicini e opposti allo stesso tempo. Gli oggetti del nostro vivere quotidiano, icone del chi ha troppo, si intrecciano con le testimonianze materiali di chi ha, e forse meglio dire aveva, troppo poco o niente. In questo concetto si rivela la capacità espressiva e la vibrante comunicazione pittorica di Messina che ci offre gli elementi per capire e per “viaggiare” oltre la sua tela. Senza retorica, senza ipocrisia e senza pretendere nulla. Tutto ciò con dignità e rispetto verso chi immaginiamo vivere attraverso quegli oggetti. L’alchimia tragica rappresentata dall’intreccio di quelle forme galleggianti non ha bisogno di tracce di vita o non più vita. Noi capiamo e soprattutto siamo a conoscenza di tutto ciò. Gli oggetti galleggianti, uno per uno, quando sono rappresentati con chiarezza non hanno bisogno di spiegazioni. E una volta interpretati questi, ci si perde nelle ombre e nei tratti più confusi e meno definiti di molti altri. Messina colpisce il nostro animo concedendoci di passare dal suo al nostro sguardo. Un salvagente? Degli zainetti? Vestiti? Avanzi di cibo? Ciascuno di noi attraverso la propria coscienza interpreta cosa siano e a quale dei due mondi quegli oggetti appartengano. Mi chiedo se, scusate questa quasi citazione, che in questo caso ritengo legittima, quelle ombre scomposte, ma dotate di colore e di luce per esaltare comunque il senso della vita, appartengano al mondo dei vivi o dei sommersi.
Dedicare questa marea di emozioni al mare di Lampedusa è l’omaggio di chi, nonostante tutto, intravede tra le correnti e la luce di quel mare, il segno di una speranza che non si spegne così come mai potranno spegnersi i colori.
Maurizio Cohen
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