E.Cattaneo, L.Cipparrone, U.Locatelli, M.Ferrando "Sottese Attese"
A cura di: Maria Rosa Pividori, Donatella Airoldi - testi di Robero Mutti, Mimma Pasqua
In mostra le opere fotografiche di quattro autori d’eccezione che utilizzano elementi reali per suggerire ipotetiche trasformazioni.
Dal reale all’astratto delle “arealità” di Ugo Locatelli, dalle “ubicazioni” archeo-ambientali di Mavi Ferrando, alle presenze fantasmatiche di Enrico Cattaneo, al concetto di doppio insito nello spaesamento del “viaggio” di Luigi Cipparrone.
Tutte le opere vivono “qui” ma nell’”altrove” evocando un tempo “altro” silenzioso sotteso e sospeso.
Roberto Mutti
LA SOTTOLINEATURA DEL QUI E LA NECESSITA’ DELL’ALTROVE
Per quanto articolati e sinuosi, gli spazi espositivi di una galleria si possono sintetizzare – e stiamo volutamente realizzando una forzatura – come dotati di quattro pareti che lo delimitano verso l’esterno e si rispecchiano verso l’interno. Sembra una buona metafora per parlare di Quintocortile ma anche della mostra che qui mette a confronto quattro autori diversissimi fra di loro per formazione e scelte estetiche (d’altra parte un autore è tale proprio perché la sua personalità è fortemente soggettiva) come nell’approccio al tema comune che li “costringe” a un confronto. Non si tratta di un soggetto che emerge prepotentemente ma di un legame sottile che i visitatori sono invitati a scoprire con la calma e l’attenzione che le opere esposte richiedono. Una sfida? Forse. E proprio per questo ancora più intrigante. Quando si propone una mostra si lascia libero chi entra di osservare, farsi un’idea e concludere con un giudizio dopo aver girato liberamente secondo i suoi gusti e le sue intuizioni. Qui suggeriamo, invece, di non farlo e di passare da un percorso per così dire lineare ad uno centripeto: per chi si fida (perché no…) sarà un viaggio che si soffermerà dapprima su ognuno degli autori per cogliere poi l’ideale punto, posto al centro della sala, in cui convergono le idee scoprendo così il loro autentico significato.
Ugo Locatelli ragiona sulle potenzialità dello spazio con le sue sei tavole site-specific che racchiudono immagini poste in una sequenza logica: si parte da un particolare descritto in modo realistico per poi giungere per gradi a una elaborazione dello stesso che, perdendo i suoi connotati descrittivi, mette in luce una struttura simile a quella generata da un caleidoscopio. Anche il titolo della ricerca, “Arealtà”, si carica di più significati che vanno dalla negazione, se si intende la a iniziale come privativa, all’affermazione, se la si concepisce come incoraggiamento ad andare verso la realtà.
Enrico Cattaneo fa emergere come sempre le sue capacità di grande maestro del linguaggio: fa, infatti, convergere nelle sue fotografie gli spunti e le riflessioni con cui da tempo l’arte si confronta realizzando opere che, dietro una sola apparente semplicità, rivelano un’autentica complessità concettuale. Merito di una pulizia formale che lo spinge all’essenzialità: i suoi object trouvé – lattine di bibite schiacciate, sassi più o meno levigati, vecchie forbici arrugginite – acquistano una nuova vita quando sono al centro di set da still life illuminati da mille piccole e grandi luci. Siamo così di fronte a un palcoscenico surreale dove una lattina deformata assume le fattezze di un volto e le forbici quelle di una ballerina che danza sinuosa attirando sguardi ammirati.
Mavi Ferrando si interroga sul rapporto fra la bidimensionalità che caratterizza le fotografie e la tridimensionalità cui costantemente alludono. Per questa ragione le fa uscire dal loro ambito per inscriverle in un contesto che le contamina dal punto di vista linguistico (l’autrice utilizza la carta fotografica e il legno, ricorre al collage come anche alla pittura, descrive minutamente porzioni di paesaggio a cui accosta oggetti, strutture, composizioni di un’archeologia immaginaria carica di mistero) e le rende ambigue da quello percettivo. Perché chi osserva non sa fino a che punto la realtà sia riprodotta, negata o sublimata, quanto sia realizzata all’interno dello spazio tridimensionale che ne contiene la rappresentazione o ne esca usando la cornice, che qui è anch’essa dipinta, come mezzo per andare oltre i suoi limiti.
Luigi Cipparrone affronta in modo originale e profondo un aspetto della vita quotidiana diventato in questi anni di bruciante attualità, quello dell’identità. Non lo fa, come troppi ormai, per riaffermarla ma al contrario per metterla in crisi: posto davanti a uno specchio, indotto a un viaggio da compiere non all’esterno ma all’interno di se stesso, l’Io dichiara la sua alterità Questa è sottolineata da una serie di dittici dove il protagonista si sdoppia e può sembrare la stessa persona che scruta il mare alla ricerca dell’ignoto da due contrapposti punti di vista oppure un soggetto che contemporaneamente osserva ed è osservato, compare e scompare nello specchietto retrovisore dell’automobile in un gioco volutamente straniante.
E’ il rimando fra le opere di questi autori a creare un rimbalzare di significati, un alternarsi di concretezza reale e fluidità onirica, una sottolineatura del qui e una necessità dell’altrove. Tutto resta sospeso al centro della galleria ed è da qui che lo sguardo del visitatore può tornare a osservare le opere esposte per ricominciare un viaggio carico di nuova consapevolezza.
Mimma Pasqua
ALTERITÀ SPAZIO-TEMPORALI
Ci determiniamo e affermiamo la nostra identità a partire dal tempo e dallo spazio.
Senza le coordinate spazio-temporali semplicemente non saremmo, perché non avremmo contezza di noi. Ciò che ci connota e fa di noi una singolarità diversa da tutti è anche il nostro correlarci con un mondo fisico e affettivo i cui confini e le cui caratteristiche impariamo a decifrare fin dalla nascita.
Poi le scansioni del tempo costruiranno una storia fatta di convenzioni che accettiamo di chiamare passato, presente e futuro, mentre la percezione dello spazio dalle prime strette dimensioni corporali si espanderà progressivamente fino a comprendere ciò che sta intorno, determinandone la posizione e allargandola sempre più fino ad una concezione mentale-immaginativa.
Essenziale per gli artisti è lavorare sulle coordinate spazio-temporali, anche se a volte le alterano di proposito, producendo immagini in situazioni problematiche che danno come primo impatto il disorientamento.
Luigi Cipparrone, che con le sue fotografie ha indagato l’anima nascosta della Calabria e lo ha fatto anche come poeta ed editore con la casa editrice Le nuvole, presenta immagini doppie in cui il soggetto pare specchiarsi.
L’artista si scruta alla ricerca del sé come stesse guardando un orizzonte lontano per mettere a fuoco qualcosa che scorge, ma non riesce a distinguere. Dovrà sperimentare una distanza di sguardo che non è facile da ottenere. Sarà il viaggio a consentirgli di vivere esperienze nuove e insolite, a volte destabilizzanti, e a permettergli quello sguardo verso e dentro di sé da un orizzonte più lontano per scoprirsi nuovo, insolitamente diverso e messo a nudo dall’esperienza dell’altro in cui riconoscerà parti che gli appartengono.
Potrà allora avvenire quell’epifania dello sguardo che gli consentirà di svelare ciò che non s’era consentito di vedere e sopravverrà forse una quiete e una comprensione intrisa della tristezza di un viaggio incompiuto.
Tutto ciò è affidato ad una immagine fotografica definita e senza incertezze che la scelta del bianco e nero consente di collocare in una dimensione altra, quasi una sospensione spazio-temporale.
La sospensione spazio-temporale è d’altra parte uno degli aspetti che accomuna in alcune fasi del suo percorso la ricerca di Luigi Cipparrone a quella di Enrico Cattaneo.
Negli anni ’60 la fotografia di Cattaneo assume un carattere di indagine storico-sociale con le periferie milanesi su cui stanno sorgendo i “casermoni” per gli emigrati e i bambini che attraversano campi e terreni sterrati per andare a scuola e i Navigli dove la vita scorre pigra in un piccolo mondo forse presago della fine imminente.
E sempre la distanza fra l’obiettivo e il soggetto determina un ampio campo visivo, in cui si intuisce una presenza umana quasi mai cercata e sempre sottesa, che diventa memoria etica, perché niente vada perso e il futuro si costruisca su solide basi.
Sempre l’intento di testimoniare spingerà Cattaneo a documentare un passato che non c’è più nei suoi sopralluoghi a ciò che resta della Magneti Marelli di Sesto S. Giovanni: un’archeologia industriale di scheletri ferrosi e arrugginiti che consentiranno all’artista di evidenziare la struttura delle forme superstiti messe a nudo dalla rovina del tempo.
Lo sguardo testimone si estenderà in contemporanea e per molti anni anche al mondo dell’arte di cui Cattaneo documenterà gli aspetti storici e mondani come i vernissage e i personaggi.
Ma ci sono momenti come quelli delle foto presentate in questa mostra in cui Cattaneo inventa, grazie alla padronanza eccezionale dei mezzi tecnici e alla sensibilità e creatività visionaria, soggetti che diventano altro da quello che sono.
Come se l’artista ritrovasse la sua parte giocosa e la guidasse a compiere l’antico gioco del facciamo finta che.
E’ così che un coperchio di latta o un chiodo o una pinza diventano guerrieri e una beola, una delle opere inedite presenti in mostra, si improvvisa ballerina che danza sulle punte in una improbabile performance, quasi ad invitarci a sorridere un po’ di noi e del mondo.
La conoscenza di Ugo Locatelli risale al 2013 ad una mostra alla galleria 10.2! di Milano in cui l’artista presentava un video che mostrava in quattro fasi e 24 fotogrammi, come le ore del giorno, l’immagine di un tonno, che, cito dal mio testo “immerso in un amniotico mare, perdeva gradualmente la sua integrità per dissolversi in un insieme di particelle disorganiche, al confine fra caos e ordine, che ne conservavano memoria, perché da esse sarebbe nato un nuovo essere”.
La forma frammentata e ricomposta in forme altre ricomparirà nell’ “Erbario Areale”, foto-collage costruito con un gran numero di frammenti fotografici di antichi erbari che Locatelli attualizza, riportando in un contesto moderno un documento d’archivio e mostrando la sua preferenza per la contaminazione fra scienza, arte e filosofia, in una ricerca interdisciplinare.
In questa ricerca la fotografia, a volte estrapolata da contesti scientifici o filosofici, è complemento esplicativo che integra un lavoro di documentazione quasi a sottolineare il carattere enciclopedico del suo lavoro che ricorda quello dell’artista rinascimentale.
Le immagini fotografiche che l’artista presenta per l’occasione della mostra virano verso un colore azzurro pastello che evoca l’idea di leggerezza e ariosità luminosa. Pur partendo da una precisa ricognizione ambientale sembrano alludere ad uno spazio-tempo non identificabile, che negli scatti successivi si moltiplicano, frammentandosi e modificandosi gradualmente, per dare origine ad una astrazione formale nuova, memoria della sua origine, così come l’embrione, in un presentimento di futuro.
Mavi Ferrando è una scultrice tout court anche quando usa la fotografia, poiché crea delle fotocomposizioni il cui carattere plastico è evidente.
Osservando le sue composizioni fotografiche, che risalgono agli anni 80, si è come immersi in una dimensione surreale.
È innegabile che l’artista parta da elementi della realtà: un paesaggio roccioso di mantegnesca memoria, nel caso in esame.
Si notano inoltre la capacità tecnica e la profondità di riflessione, data anche dal ricco bagaglio culturale, nel tenere insieme e realizzare un’opera a regola d’arte in cui la profondità dello spazio guida lo sguardo verso un orizzonte, un confine intuibile.
Ma la certezza del qui e ora dello spettatore è messa a dura prova, quasi sconvolta dalla improbabile presenza di un elemento disturbante: una strana sedia che campeggia sullo sfondo.
Non è solo la presenza della sedia a disturbare l’occhio in cerca di rassicurazione, è l’oggetto che ha acquisito connotati e caratteri non conformi all’idea che ce ne siamo fatti.
È una sedia che si percepisce enorme e che nella spalliera esibisce una mano e il significato ambiguo di quella mano fra il gesto del pugno e il saluto, fra la minaccia e l’accoglienza ci inquieta.
La relazione con l’altro è in bilico fra il desiderio di aprirsi e la paura che si trasforma in difesa/offesa. È un emblema del nostro tempo e ha un carattere sacro nella sua monumentalità.
È un totem dominante fra dissacrazione e consacrazione ed è anche l’oggetto simbolo messo alla berlina.
Da sempre l’artista coltiva l’intento dissacratorio verso il luogo comune che vuole che le cose siano come appaiono, sempre uguali e confortanti, variazioni su tema ammesse e codificate, purchè la funzione sia salva.
Gli oggetti/scultura di Mavi Ferrando sono perciò a volte inospitali e pericolosi, appuntiti e minacciosi. Ci interrogano sconvolgendo certezze. Usano la durezza del legno o la levigatezza del ferro e sono bassorilievi in movimento, anche quando sono immobili, perché posti su un piano di provvisorietà e instabilità.
A volte antropomorfi, altre volte pure sagome serpentiformi e guizzanti i cui contorni vanno seghettandosi creando un ritmo sincopato come in una jam session.
Forme che vivono in un continuo farsi e disfarsi di parti che si ricompongono nell’unicum.
Un leitmotiv di una creatività dirompente in cui la fotografia è un importante elemento dell’insieme che non vive mai da sola, ma contribuisce a creare l’illusione di una realtà irreale.
Inserita in una composizione in cui la presenza della materia legnosa si afferma con forza, contribuendo a trasformare il tutto in una immagine icona, a volte scompartata come quelle di antica memoria, mentre l’occhio dell’artista sembra guardarci ironico, perché ancora una volta si è presa gioco di noi, scardinando le nostre certezze. (30 marzo 2017)
Dal reale all’astratto delle “arealità” di Ugo Locatelli, dalle “ubicazioni” archeo-ambientali di Mavi Ferrando, alle presenze fantasmatiche di Enrico Cattaneo, al concetto di doppio insito nello spaesamento del “viaggio” di Luigi Cipparrone.
Tutte le opere vivono “qui” ma nell’”altrove” evocando un tempo “altro” silenzioso sotteso e sospeso.
Roberto Mutti
LA SOTTOLINEATURA DEL QUI E LA NECESSITA’ DELL’ALTROVE
Per quanto articolati e sinuosi, gli spazi espositivi di una galleria si possono sintetizzare – e stiamo volutamente realizzando una forzatura – come dotati di quattro pareti che lo delimitano verso l’esterno e si rispecchiano verso l’interno. Sembra una buona metafora per parlare di Quintocortile ma anche della mostra che qui mette a confronto quattro autori diversissimi fra di loro per formazione e scelte estetiche (d’altra parte un autore è tale proprio perché la sua personalità è fortemente soggettiva) come nell’approccio al tema comune che li “costringe” a un confronto. Non si tratta di un soggetto che emerge prepotentemente ma di un legame sottile che i visitatori sono invitati a scoprire con la calma e l’attenzione che le opere esposte richiedono. Una sfida? Forse. E proprio per questo ancora più intrigante. Quando si propone una mostra si lascia libero chi entra di osservare, farsi un’idea e concludere con un giudizio dopo aver girato liberamente secondo i suoi gusti e le sue intuizioni. Qui suggeriamo, invece, di non farlo e di passare da un percorso per così dire lineare ad uno centripeto: per chi si fida (perché no…) sarà un viaggio che si soffermerà dapprima su ognuno degli autori per cogliere poi l’ideale punto, posto al centro della sala, in cui convergono le idee scoprendo così il loro autentico significato.
Ugo Locatelli ragiona sulle potenzialità dello spazio con le sue sei tavole site-specific che racchiudono immagini poste in una sequenza logica: si parte da un particolare descritto in modo realistico per poi giungere per gradi a una elaborazione dello stesso che, perdendo i suoi connotati descrittivi, mette in luce una struttura simile a quella generata da un caleidoscopio. Anche il titolo della ricerca, “Arealtà”, si carica di più significati che vanno dalla negazione, se si intende la a iniziale come privativa, all’affermazione, se la si concepisce come incoraggiamento ad andare verso la realtà.
Enrico Cattaneo fa emergere come sempre le sue capacità di grande maestro del linguaggio: fa, infatti, convergere nelle sue fotografie gli spunti e le riflessioni con cui da tempo l’arte si confronta realizzando opere che, dietro una sola apparente semplicità, rivelano un’autentica complessità concettuale. Merito di una pulizia formale che lo spinge all’essenzialità: i suoi object trouvé – lattine di bibite schiacciate, sassi più o meno levigati, vecchie forbici arrugginite – acquistano una nuova vita quando sono al centro di set da still life illuminati da mille piccole e grandi luci. Siamo così di fronte a un palcoscenico surreale dove una lattina deformata assume le fattezze di un volto e le forbici quelle di una ballerina che danza sinuosa attirando sguardi ammirati.
Mavi Ferrando si interroga sul rapporto fra la bidimensionalità che caratterizza le fotografie e la tridimensionalità cui costantemente alludono. Per questa ragione le fa uscire dal loro ambito per inscriverle in un contesto che le contamina dal punto di vista linguistico (l’autrice utilizza la carta fotografica e il legno, ricorre al collage come anche alla pittura, descrive minutamente porzioni di paesaggio a cui accosta oggetti, strutture, composizioni di un’archeologia immaginaria carica di mistero) e le rende ambigue da quello percettivo. Perché chi osserva non sa fino a che punto la realtà sia riprodotta, negata o sublimata, quanto sia realizzata all’interno dello spazio tridimensionale che ne contiene la rappresentazione o ne esca usando la cornice, che qui è anch’essa dipinta, come mezzo per andare oltre i suoi limiti.
Luigi Cipparrone affronta in modo originale e profondo un aspetto della vita quotidiana diventato in questi anni di bruciante attualità, quello dell’identità. Non lo fa, come troppi ormai, per riaffermarla ma al contrario per metterla in crisi: posto davanti a uno specchio, indotto a un viaggio da compiere non all’esterno ma all’interno di se stesso, l’Io dichiara la sua alterità Questa è sottolineata da una serie di dittici dove il protagonista si sdoppia e può sembrare la stessa persona che scruta il mare alla ricerca dell’ignoto da due contrapposti punti di vista oppure un soggetto che contemporaneamente osserva ed è osservato, compare e scompare nello specchietto retrovisore dell’automobile in un gioco volutamente straniante.
E’ il rimando fra le opere di questi autori a creare un rimbalzare di significati, un alternarsi di concretezza reale e fluidità onirica, una sottolineatura del qui e una necessità dell’altrove. Tutto resta sospeso al centro della galleria ed è da qui che lo sguardo del visitatore può tornare a osservare le opere esposte per ricominciare un viaggio carico di nuova consapevolezza.
Mimma Pasqua
ALTERITÀ SPAZIO-TEMPORALI
Ci determiniamo e affermiamo la nostra identità a partire dal tempo e dallo spazio.
Senza le coordinate spazio-temporali semplicemente non saremmo, perché non avremmo contezza di noi. Ciò che ci connota e fa di noi una singolarità diversa da tutti è anche il nostro correlarci con un mondo fisico e affettivo i cui confini e le cui caratteristiche impariamo a decifrare fin dalla nascita.
Poi le scansioni del tempo costruiranno una storia fatta di convenzioni che accettiamo di chiamare passato, presente e futuro, mentre la percezione dello spazio dalle prime strette dimensioni corporali si espanderà progressivamente fino a comprendere ciò che sta intorno, determinandone la posizione e allargandola sempre più fino ad una concezione mentale-immaginativa.
Essenziale per gli artisti è lavorare sulle coordinate spazio-temporali, anche se a volte le alterano di proposito, producendo immagini in situazioni problematiche che danno come primo impatto il disorientamento.
Luigi Cipparrone, che con le sue fotografie ha indagato l’anima nascosta della Calabria e lo ha fatto anche come poeta ed editore con la casa editrice Le nuvole, presenta immagini doppie in cui il soggetto pare specchiarsi.
L’artista si scruta alla ricerca del sé come stesse guardando un orizzonte lontano per mettere a fuoco qualcosa che scorge, ma non riesce a distinguere. Dovrà sperimentare una distanza di sguardo che non è facile da ottenere. Sarà il viaggio a consentirgli di vivere esperienze nuove e insolite, a volte destabilizzanti, e a permettergli quello sguardo verso e dentro di sé da un orizzonte più lontano per scoprirsi nuovo, insolitamente diverso e messo a nudo dall’esperienza dell’altro in cui riconoscerà parti che gli appartengono.
Potrà allora avvenire quell’epifania dello sguardo che gli consentirà di svelare ciò che non s’era consentito di vedere e sopravverrà forse una quiete e una comprensione intrisa della tristezza di un viaggio incompiuto.
Tutto ciò è affidato ad una immagine fotografica definita e senza incertezze che la scelta del bianco e nero consente di collocare in una dimensione altra, quasi una sospensione spazio-temporale.
La sospensione spazio-temporale è d’altra parte uno degli aspetti che accomuna in alcune fasi del suo percorso la ricerca di Luigi Cipparrone a quella di Enrico Cattaneo.
Negli anni ’60 la fotografia di Cattaneo assume un carattere di indagine storico-sociale con le periferie milanesi su cui stanno sorgendo i “casermoni” per gli emigrati e i bambini che attraversano campi e terreni sterrati per andare a scuola e i Navigli dove la vita scorre pigra in un piccolo mondo forse presago della fine imminente.
E sempre la distanza fra l’obiettivo e il soggetto determina un ampio campo visivo, in cui si intuisce una presenza umana quasi mai cercata e sempre sottesa, che diventa memoria etica, perché niente vada perso e il futuro si costruisca su solide basi.
Sempre l’intento di testimoniare spingerà Cattaneo a documentare un passato che non c’è più nei suoi sopralluoghi a ciò che resta della Magneti Marelli di Sesto S. Giovanni: un’archeologia industriale di scheletri ferrosi e arrugginiti che consentiranno all’artista di evidenziare la struttura delle forme superstiti messe a nudo dalla rovina del tempo.
Lo sguardo testimone si estenderà in contemporanea e per molti anni anche al mondo dell’arte di cui Cattaneo documenterà gli aspetti storici e mondani come i vernissage e i personaggi.
Ma ci sono momenti come quelli delle foto presentate in questa mostra in cui Cattaneo inventa, grazie alla padronanza eccezionale dei mezzi tecnici e alla sensibilità e creatività visionaria, soggetti che diventano altro da quello che sono.
Come se l’artista ritrovasse la sua parte giocosa e la guidasse a compiere l’antico gioco del facciamo finta che.
E’ così che un coperchio di latta o un chiodo o una pinza diventano guerrieri e una beola, una delle opere inedite presenti in mostra, si improvvisa ballerina che danza sulle punte in una improbabile performance, quasi ad invitarci a sorridere un po’ di noi e del mondo.
La conoscenza di Ugo Locatelli risale al 2013 ad una mostra alla galleria 10.2! di Milano in cui l’artista presentava un video che mostrava in quattro fasi e 24 fotogrammi, come le ore del giorno, l’immagine di un tonno, che, cito dal mio testo “immerso in un amniotico mare, perdeva gradualmente la sua integrità per dissolversi in un insieme di particelle disorganiche, al confine fra caos e ordine, che ne conservavano memoria, perché da esse sarebbe nato un nuovo essere”.
La forma frammentata e ricomposta in forme altre ricomparirà nell’ “Erbario Areale”, foto-collage costruito con un gran numero di frammenti fotografici di antichi erbari che Locatelli attualizza, riportando in un contesto moderno un documento d’archivio e mostrando la sua preferenza per la contaminazione fra scienza, arte e filosofia, in una ricerca interdisciplinare.
In questa ricerca la fotografia, a volte estrapolata da contesti scientifici o filosofici, è complemento esplicativo che integra un lavoro di documentazione quasi a sottolineare il carattere enciclopedico del suo lavoro che ricorda quello dell’artista rinascimentale.
Le immagini fotografiche che l’artista presenta per l’occasione della mostra virano verso un colore azzurro pastello che evoca l’idea di leggerezza e ariosità luminosa. Pur partendo da una precisa ricognizione ambientale sembrano alludere ad uno spazio-tempo non identificabile, che negli scatti successivi si moltiplicano, frammentandosi e modificandosi gradualmente, per dare origine ad una astrazione formale nuova, memoria della sua origine, così come l’embrione, in un presentimento di futuro.
Mavi Ferrando è una scultrice tout court anche quando usa la fotografia, poiché crea delle fotocomposizioni il cui carattere plastico è evidente.
Osservando le sue composizioni fotografiche, che risalgono agli anni 80, si è come immersi in una dimensione surreale.
È innegabile che l’artista parta da elementi della realtà: un paesaggio roccioso di mantegnesca memoria, nel caso in esame.
Si notano inoltre la capacità tecnica e la profondità di riflessione, data anche dal ricco bagaglio culturale, nel tenere insieme e realizzare un’opera a regola d’arte in cui la profondità dello spazio guida lo sguardo verso un orizzonte, un confine intuibile.
Ma la certezza del qui e ora dello spettatore è messa a dura prova, quasi sconvolta dalla improbabile presenza di un elemento disturbante: una strana sedia che campeggia sullo sfondo.
Non è solo la presenza della sedia a disturbare l’occhio in cerca di rassicurazione, è l’oggetto che ha acquisito connotati e caratteri non conformi all’idea che ce ne siamo fatti.
È una sedia che si percepisce enorme e che nella spalliera esibisce una mano e il significato ambiguo di quella mano fra il gesto del pugno e il saluto, fra la minaccia e l’accoglienza ci inquieta.
La relazione con l’altro è in bilico fra il desiderio di aprirsi e la paura che si trasforma in difesa/offesa. È un emblema del nostro tempo e ha un carattere sacro nella sua monumentalità.
È un totem dominante fra dissacrazione e consacrazione ed è anche l’oggetto simbolo messo alla berlina.
Da sempre l’artista coltiva l’intento dissacratorio verso il luogo comune che vuole che le cose siano come appaiono, sempre uguali e confortanti, variazioni su tema ammesse e codificate, purchè la funzione sia salva.
Gli oggetti/scultura di Mavi Ferrando sono perciò a volte inospitali e pericolosi, appuntiti e minacciosi. Ci interrogano sconvolgendo certezze. Usano la durezza del legno o la levigatezza del ferro e sono bassorilievi in movimento, anche quando sono immobili, perché posti su un piano di provvisorietà e instabilità.
A volte antropomorfi, altre volte pure sagome serpentiformi e guizzanti i cui contorni vanno seghettandosi creando un ritmo sincopato come in una jam session.
Forme che vivono in un continuo farsi e disfarsi di parti che si ricompongono nell’unicum.
Un leitmotiv di una creatività dirompente in cui la fotografia è un importante elemento dell’insieme che non vive mai da sola, ma contribuisce a creare l’illusione di una realtà irreale.
Inserita in una composizione in cui la presenza della materia legnosa si afferma con forza, contribuendo a trasformare il tutto in una immagine icona, a volte scompartata come quelle di antica memoria, mentre l’occhio dell’artista sembra guardarci ironico, perché ancora una volta si è presa gioco di noi, scardinando le nostre certezze. (30 marzo 2017)
Luoghi
https://www.facebook.com/quintocortile.arte 02 58102441 338. 800. 7617
orario:mar, mer, ven 17.15-19.15, giovedì su appuntamento - ingresso libero