Achille Pace "Fili Dispersi"
A cura di: Francesco Gallo Mazzeo - Testo di Laura Turco Liveri
SignumUn'Opera unica di Achille Pace
Fili Dispersi
a cura di Francesco Gallo Mazzeo
con il coordinamento di Enzo Barchi
Testo di Laura Turco Liveri
Nome è l’impronta maggiore che si possa dare ad ogni giusta, vera,
persona, per portarla fuori dalla negatività, dalla assenza,intesa
come dispersione, dissolvimento, dovuto alla mancata nascita o
alla morte, della leva vocativa capace di sollevare caos in mondo e
nel caso specifico di suscitare, la quiddità, la personalità, la spiritualità,
che sta sul verbo, senza di cui non è possibile la parola, il lievito
di un pensiero, l’innalzarsi metafisico, astrattivo, sulla folla visibile.
Un assolvimento cronologico, storico, necessario, per dare fondazione
per dare alimento ad ogni furore, che possa essere profetico, che
possa essere rituale, che possa essere poetico, che possa essere passionale,
permettendo quella generazione di idee e di forme, che possano essere
atto di nascita di invisibile che diventa visibile, di potenza che si fa atto.
Stile come cultura che è conoscenza e comprensione, come lo
sono storia e filosofia, unite insieme in una tensione asimmetrica,
a dare profondità nello stesso momento in cui s’aspira all’atto,
alla vocazione al gesto orientato, come premessa e conseguenza di
una conoscenza, che è confidenza verso l’ignoto, che continua ad
essere tale, anzi prosegue la sua distinzione in lungo e in largo,
tanto più, quanto più s’allunga un raggio di luce e il suo diametro.
Una conferma vale una lievitazione, che è una conseguenza della
vita e quindi della vitalità, che non cessa mai di dare segni, miti,
di quanto sia necessario avere radici, per innalzamento e per un
cammino, che deve diventare mappa, perché tutto ciò che è vuoto
deve sempre confrontare il noto con l’ignoto, perché poggia su entrambi
l’alternarsi di luce ed ombra, come essenzialità di ogni codice
che esige la forza tetragona dell’esegesi e la leggerezza dell’allegoria.
Poetica è affiancamento dell’effimero al sostanziale, lingua e parola,
più che mai essenziale, appartenente ad una metafisica delle conoscenze
che permette al contenitore spirituale di essere tale, diventando laboratorio
ideale e reale della fantasia, nelle sue oscillazioni sul bello che
è misura e simmetria, sul sublime che è infinitudine e ineffabilità,
ma che hanno in comune il tessuto stellare dell’armonia, che
permette al piccolo di stare col grande e allo sconfinato di colloquiare
con l’infinitesimale, in una misturazione alchemica e sapienziale.
Attualità come scorrimento, come temporalità, che per quanto
abbia virgole e punti e cronologia discontinua e non sistematica,
ha una sua propria scivolosità che fa percepire più come concettualità
che non come effettività, perché nel momento dell’accadimento non
è coscienza e quando diventa coscienza appartiene ad un passato,
appena accennato, ma ciò nonostante, inesorabile, all’imprescindibile.
Scoperta è la ribalta dell’inattesa, una illuminazione magica, altra,
nella misura temporale dell’ordinanza, originarietà di un cammino di idee
e continuità che sono coperte da polvere, da caligine, da colpe e chimere,
come le idee platoniche, vengono musicate, significate, visibilizzate,
tattilizzate, ammesse nel circolo delle virtù, che sono cardini per stare
nel mondo, da sole, nella verticalità della mistica e della leggerezza
come itineraria, nella orizzontalità, come salire montagne, andare
per stelle e incontrare se stessi in forma difforme, d’uno e di tutti.
E Pluribus unum, nel segno di una ricerca continua, di una scalare
immensa fede nell’universo, che contiene tutto e che muoviamo in
via psicologica, per aggiungerci ed affermare certezze, dell’hic et nunc,
mentre l’ignoto è in mezzo a noi, motore immobile, altro, oltre, di vita.
Nella confidenza che il tempo dei cicli stia concludendo, la rivoluzione
e alla fase di discente di Kali yuga nel segno dell’acquario e subentri
quello ascendente, verso l’intelligenza, la grazia, nel cuore del sapere.
Specchio, non significa immobilità, tutt’altro, vuol dire sguardo mobile,
magico, sulla transizione, sulla velocità di porta e trasporta, carro con
una carica di attualità, che spesso non permette una vera conoscenza,
ma una presentazione a mezzo ludico e tragico, in forma tremolante
di schemi che si affollano da tutte le parti, esaltando e deprimendo,
in forma plastica che non prevede assestamenti, perché lo spettacolo
continua, ma non è sempre lo stesso, non è più quello, uno qualsiasi.
L’unica cosa che sappiamo è appunto, che l’ignoto si espande, è grande,
sempre più grande e lo stesso concetto di perimetro diventa insignificante,
macinando teorie su teorie, metafore su metafore, annunciandoci
territorialità “assurde” energie oscure, rispetto a cui I tempi del cielo, della
volta celeste, del firmamento erano risposte a domande e non domande (…).
Enigma come universo sconosciuto che contiene imprevisti, forme e
contenuti instabili, di cui non conosciamo l’origine, né il destino,
lo vediamo solo un tratto di percorso, troppo breve per conoscerlo,
ammesso che ci convenga farlo nostro e non averlo sempre come
fascinoso orizzonte in grado di scatenare la nostra fantasia e
non farla rinchiudere in una monade, senza più porte, né finestre.
É stato oro, è stato argento, è stato bronzo, continua ad
essere ferro, anche se lo chiamiamo in modi diversi, perché tratta
sempre dello smarrimento, in un sublime che si espande, si espande
e ci lascia con sempre nuovi interrogativi, perché tutto tende a
scivolare, ma verrà un giorno, un mese, un anno, per alzare lo sguardo .
Verranno un giorno pensieri e forme, perfettamente espresse, come
la verità prima che le oscurità e le profondità la coprissero e
riprenderanno, in eterna primavera, con radici profonde di terra
e terra, fronde e fronde, fiori e fiori, imperturbabili come firmamenti.
ACHILLE PACE
di Laura Turco Liveri
Conobbi i fili di Achille Pace sul finire degli anni Ottanta, nella personale allo Studio Soligo di Roma. Allora ebbi l’impressione di trovarmi di fronte alla ricerca di un giovane solitario che tentava di individuare nuovi percorsi di svolgimento dell’arte contemporanea. Quegli itinerari che si dipanavano continui in piccole volute, bianchi su fondi neri o nerogrigi di colore diluito, e non omogeneo, mi rimasero nella mente e nella memoria come uno dei pochi episodi significativi di quel periodo. Ci furono, in seguito, anche altre mostre in cui era presente l’artista, ma nello studio di Pace, quando ebbi poi occasione di conoscerlo, quelle immagini si moltiplicarono, svelandomi altri riferimenti, relativizzandosi nell’intero percorso visivo delle opere ordinate cronologicamente. Perché Pace non ha vissuto solo la grande epoca dei fili di refe per cui è diventato famoso. Esiste un prima e un dopo che ne completano la figura di uomo e di artista. Le taches e i colori dei primi paesaggi sono impastate di una materia spessa e opaca, quasi sporcata dal contatto con la terra. Vi si avverte l’odore dell’aria delle prime prove vissute all’aperto. Con un andamento serpeggiante, i tocchi di colore si sovrappongono all’iconismo del paesaggio, tema in ogni modo caro all’artista, costruendo forme già concepite a livello mentale. Tale dicotomia rivela il tentativo dell’autore di risolvere le forme naturali, avvertite visivamente e tattilmente, in vibrazioni cromatiche che evidenziano in realtà un disegno mentale. Lo appassiona, infatti, nelle sue continue riflessioni sulla storia dell’arte, che catturano chiunque si trovi ad ascoltarlo, il conflitto irrisolto di Van Gogh, sospeso tra il segno in quanto tale e l’articolazione dei colori, le sottili vibrazioni di Klee, distillate con raffinatezza dalla natura, e il plasticismo pittorico di Mondrian, che, pur provenendo anch’esso dalla natura, si impossessa totalmente dello spazio della tela.
Negli anni Cinquanta tenta la via dell’informale, con prove già compiute in sé, ma che non coinvolgono plasticamente la tessitura della tela, intesa ancora come semplice supporto della composizione. Sono opere cromaticamente ricche, che conservano della natura i toni e le sfumature, incentrate spesso su rossi infuocati cui contrastano verdi o blu oltremare, colori che in seguito il pittore radicalizza, eleggendoli a suoi preferiti. A mano a mano emerge dalla composizione un segno, dapprima quasi una scolatura, in ricordo del dripping di Pollock, poi vero segno grafico in continua fibrillazione, che traccia architetture irreali al limite tra una magica apparizione e un ideogramma orientale. L’affiorare della tela, senza preparazione, che già si indovinava dall’alleggerimento, in taluni esempi, della materia pittorica ai bordi della figurazione, annuncia già la cesura tra le Pitture e i successivi Itinerari. Veri e propri viaggi mentali, questi ultimi, dove i fili di refe - segno, disegno e linguaggio – stabiliscono finalmente un continuum plastico e formale con il supporto di cotone, evidenziato e non più nascosto dalla pasta cromatica. La naturale congruenza tra tutti gli elementi che costruiscono fisicamente l’opera, e la riduzione dello spettro cromatico ad un solo colore, declinato in infinite tonalità vicine, segna il personale superamento dell’antinomia segno-colore e il passaggio alla fase “gestaltica” di Pace (Argan). Una fase che negli anni a seguire si concretizza nella fondazione del Gruppo Uno (1962-67), una proposta che si potrebbe definire “il cammino verso la forma” dopo l’Informale, formulata da Pace assieme a Uncini, Carrino, Santoro, Biggi e Frascà. E’ soprattutto il fondo scuro degli Itinerari a rappresentare simbolicamente l’azzeramento dell’espressione e della rappresentazione, secondo la definizione che dà Mario de Candia di tale momento. Un azzeramento che consente all’artista di creare, con il proprio intervento, il germe di una nuova realtà, che appartiene solo al quadro e dal quadro nasce, nella polisemia dei significati che il filo evoca.
A riprova della validità di questa particolare ‘maieutica’, la serie delle Terre. Sono dipinti nati a metà degli anni Ottanta, quasi totalmente inediti, in cui le precedenti esperienze confluiscono e si confrontano con gli avvenimenti della recente storia dell’arte. Una personale ricerca porta il pittore a sperimentare materiali naturali già usati negli anni Sessanta e Settanta (si pensi a Pino Pascali), ma solo incidentalmente, e con modalità e intenti differenti. Non c’è happening nell’opera di Pace, se non si considera il coinvolgimento dello spettatore nell’evento lirico dell’opera, fenomeno affermativo e duraturo. Qui, in una configurazione apparentemente informale, forme emergono spontaneamente dalla materia terrosa, guidate, nel loro affiorare, dal gesto libero dell’artista. Dalla sensibilità tattile della natura ai toni variati del suo elemento principale, la terra, Pace crea il suo paesaggio mentale, ribadendo, ancora una volta, la necessità sostanziale dell’intervento dell’artista per comprendere la vita, riproponendone in modo nuovo la realtà consueta. In questo filone, si inserisce la parentesi delle “Cuciture”, quadri motivati dalla sensibilità del pittore per la violenza operata ai nostri giorni sulla natura: su fondi monocromi di pigmento puro, tagli verticali sulla grossa tela di iuta si impongono ricuciti con fili di vario spessore, il cui lirismo si distacca dal forte plasticismo dei Tagli di Fontana.
All’inizio degli anni Novanta si assiste, negli sfondi, ad un ripresa delle trasparenze ton sur ton degli Itinerari, unite a citazioni dei “fili” e a ritagli di cotone, quadrati e rettangolari, applicati sulla tela. Il compiacimento verso il materiale naturale, usato come elemento di costruzione formale, si sublima, qui, in suggestioni dal sapore di trascendenza spirituale, suggerite dalla progressiva purificazione del pigmento nel quadro e, soprattutto, dall’ineffabilità di alcuni bianchi.
Ma la ricerca di Achille Pace non si ferma. L’instancabile sperimentazione delle possibilità della materia trattata, e l’indagine del proprio limite, ci propongono esempi di una futura serie, in cui torna la libertà del gesto pittorico, nella nostalgia, forse inconscia, di un nuovo iconismo delle forme.
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