Valerio Tedeschi. Sculture
A cura di: Flaminio Gualdoni
Nel Sogno, ossia vita di Luciano, lo scrittore antico fa dire alla Paideia, l’educazione elevata, che la pratica dello scultore è disdicevole perché egli non è che un cheirònax, uno che lavora con le mani, incapace di uscire dalla prigionia che la materia gli impone: e la materia vuole e può essere certe cose e non altre, mentre la padronanza della parola rende capaci di tutto, dal pensiero alla convinzione.
Valerio Tedeschi è sin dai suoi inizi un cheirònax dentro, un artista cui è con ogni evidenza necessario il rapporto diretto, fisico con la materia, ma che a differenza di un artefice antico è nato nel nostro tempo e sa dunque che l’arte non può non essere anche embodiment del discorso d’arte, ragione ed esercizio critico rimuginato nel tempo lungo del processo fabrile, operazione a un tempo retorica e profondamente antiretorica di decostruzione e ricostruzione deviante. Inoltre è parimenti figlio di un’idea della scultura passata attraverso la faglia decisiva della fluenza formale di Bernini, del pittoricismo, dello spettacolo, della meraviglia contraddittoria della materia: che è il marmo di Foggini ma può anche essere lo stucco agevole di Serpotta, materia che sempre finge non solo altro ma anche, parimenti, se stessa.
Infine, la sua modernità ispida porta le stigmate della vicina lezione surreale, l’impronta dell’ironia e dello scacco di senso, del paradosso significativo, e un turgido umore contaminatorio che induce la materia formata a collidere con materie/cose impreviste – certo non più anticanoniche, ormai – ma criticamente vive, dalla piuma al filo da sutura.
Dunque, Tedeschi sceglie per sé il marmo: non un marmo, ma il marmo, il Carrara bianco che ai suoi e ai nostri occhi ha fissato nei propri cristalli la retorica stessa della scultura: e quando non è Carrara è l’aulico Candoglia, di cui l’artista ha respirato la polvere sin dalla nascita, oppure, per contrapposta ma non minore aristocrazia materiale, il noir Belge. Con il materiale egli ingaggia un’operazione insieme complice e antagonistica di decontaminazione storica e di reinvenzione straniante, che dice d’un oscuro organico possibile, di derive dimensionali, di forzature e scacchi dell’aspettativa di ricezione, facendolo infine altro da se stesso.
Potrebbe, Tedeschi, sfruttare agevolmente gli istinti di teatralizzazione che trapelano qua e là dai suoi lavori, rendere meno introversa la conflagrazione tra ciò che presentano e la loro ostica – ancorché suadente – materialità: dagli antichi lombi barocchi ha ereditato anche l’intelligenza dell’effetto, la facoltà di far spettacolo della visione.
Preferisce, invece, la qualità scontrosa di queste metamorfosi, la sospensione del calembour al punto in cui non può ridursi a blague, la sottrazione d’una chiave pacificata di lettura. Il processo si arresta prima d’ogni prevedibile soluzione estetica, in uno stato di ambiguità elaborante, continuamente sottraendosi quando potrebbe ridondare: e proprio “Difetto d’effetto” titolava, giusto qualche anno fa, una sua mostra illuminante in questo stesso spazio.
È questa la cifra più nitida di Tedeschi, la chiave dell’intero suo processo, ben distante dal “barocco contemporaneo” che Guy Scarpetta annunciava giusto trent’anni fa come corollario della postmodernità.
Valerio Tedeschi è sin dai suoi inizi un cheirònax dentro, un artista cui è con ogni evidenza necessario il rapporto diretto, fisico con la materia, ma che a differenza di un artefice antico è nato nel nostro tempo e sa dunque che l’arte non può non essere anche embodiment del discorso d’arte, ragione ed esercizio critico rimuginato nel tempo lungo del processo fabrile, operazione a un tempo retorica e profondamente antiretorica di decostruzione e ricostruzione deviante. Inoltre è parimenti figlio di un’idea della scultura passata attraverso la faglia decisiva della fluenza formale di Bernini, del pittoricismo, dello spettacolo, della meraviglia contraddittoria della materia: che è il marmo di Foggini ma può anche essere lo stucco agevole di Serpotta, materia che sempre finge non solo altro ma anche, parimenti, se stessa.
Infine, la sua modernità ispida porta le stigmate della vicina lezione surreale, l’impronta dell’ironia e dello scacco di senso, del paradosso significativo, e un turgido umore contaminatorio che induce la materia formata a collidere con materie/cose impreviste – certo non più anticanoniche, ormai – ma criticamente vive, dalla piuma al filo da sutura.
Dunque, Tedeschi sceglie per sé il marmo: non un marmo, ma il marmo, il Carrara bianco che ai suoi e ai nostri occhi ha fissato nei propri cristalli la retorica stessa della scultura: e quando non è Carrara è l’aulico Candoglia, di cui l’artista ha respirato la polvere sin dalla nascita, oppure, per contrapposta ma non minore aristocrazia materiale, il noir Belge. Con il materiale egli ingaggia un’operazione insieme complice e antagonistica di decontaminazione storica e di reinvenzione straniante, che dice d’un oscuro organico possibile, di derive dimensionali, di forzature e scacchi dell’aspettativa di ricezione, facendolo infine altro da se stesso.
Potrebbe, Tedeschi, sfruttare agevolmente gli istinti di teatralizzazione che trapelano qua e là dai suoi lavori, rendere meno introversa la conflagrazione tra ciò che presentano e la loro ostica – ancorché suadente – materialità: dagli antichi lombi barocchi ha ereditato anche l’intelligenza dell’effetto, la facoltà di far spettacolo della visione.
Preferisce, invece, la qualità scontrosa di queste metamorfosi, la sospensione del calembour al punto in cui non può ridursi a blague, la sottrazione d’una chiave pacificata di lettura. Il processo si arresta prima d’ogni prevedibile soluzione estetica, in uno stato di ambiguità elaborante, continuamente sottraendosi quando potrebbe ridondare: e proprio “Difetto d’effetto” titolava, giusto qualche anno fa, una sua mostra illuminante in questo stesso spazio.
È questa la cifra più nitida di Tedeschi, la chiave dell’intero suo processo, ben distante dal “barocco contemporaneo” che Guy Scarpetta annunciava giusto trent’anni fa come corollario della postmodernità.
Luoghi
www.galleriamonopoli.com 02 36593646
Orari: martedì – sabato dalle 14 alle 19. Domenica e lunedì chiuso. Ingresso libero