Umberto Passeretti "Demetra"
A cura di: Francesco Gallo Mazzeo - Testo di Gabriele Simongini
Demetra, oggi
Nelle opere di Umberto Passeretti il mito interiore della classicità greco-romana diventa “un presente antichissimo”, come diceva Fernando Pessoa. I mirabili reperti scultorei del passato si trasformano in pittura, con la chiara prevalenza di panneggi dalla materia mossa, palpitante di una nuova vita che sembra quasi sul punto di cominciare. Ne viene fuori una sorta di teatro silenzioso e disteso in un arco temporale lunghissimo. Con lo stacco netto che di per sé distingue il linguaggio pittorico da quello plastico a cui appartengono le sculture romane ritratte e di conseguenza reinventate da Passeretti, le sue figure panneggiate ci fanno vedere in modo nuovo presenze classiche che la nostra pigra indifferenza spesso ci porta a non percepire più, rendendole “trasparenti”, mentre questi testimoni di un teatro della memoria riattivato nel presente ci sono familiari ed estranei al tempo stesso, spiazzandoci. In qualche modo, fatte le debite proporzioni, come Yves Klein ha dato una visibilità nuova e sorprendente alla Venere di Milo e alla Nike di Samotracia dipingendone i calchi col suo inconfondibile blu oltremare, così Passeretti offre al nostro sguardo sculture antiche che promanano energia, attualità e vitalità, non di rado avvalendosi anche di una sorta di trasposizione percettiva quasi virtuale tramite colori che in sé portano perfino gli effetti dell’artificio tecnologico, pur restando magistrali prove di pura pittura, come avviene in “Demetra”, rafforzata visivamente dall’uso di due colori complementari. Ne emerge l’idea coinvolgente di un “classico dinamico” e in divenire. Il rapporto di Passeretti con la classicità romana è nato da un’esperienza immersiva, totalizzante e non puramente contemplativa. Per motivi familiari ha vissuto e lavorato per quasi quindici anni praticamente dentro Villa Adriana, sopra il Canopo. Ha respirato, studiato, assorbito ogni giorno quelle memorie architettoniche e scultoree che si facevano tutt’uno con la sua vita quotidiana, arricchendola, aprendola a nuove riflessioni non ripiegate nostalgicamente sul passato ma legate alle inquietudini contemporanee. Così, in qualche modo, l’artista non si è semplicemente appropriato di un aspetto dell’antichità ma vi si è immedesimato intendendone la spinta propulsiva verso un’interiorità più profonda e consapevole ma sempre operante nel vivo dell’attualità. Per Passeretti i valori inerenti alla dignità umana non possono non identificarsi con quelli classici come matrice identitaria del nostro essere europei ed italiani, in particolare. Ed essi non possono essere considerati ai suoi occhi un mero retaggio del passato ma devono diventare le radici di un progetto volto al futuro, in senso etico e culturale. Il nostro artista ha compreso bene, sia pur intuitivamente, quanto notato già da Ernst Howald nel 1948, ovvero che la rinascita del “classico” è la “forma ritmica” della storia culturale europea.
Gabriele Simongini
Nelle opere di Umberto Passeretti il mito interiore della classicità greco-romana diventa “un presente antichissimo”, come diceva Fernando Pessoa. I mirabili reperti scultorei del passato si trasformano in pittura, con la chiara prevalenza di panneggi dalla materia mossa, palpitante di una nuova vita che sembra quasi sul punto di cominciare. Ne viene fuori una sorta di teatro silenzioso e disteso in un arco temporale lunghissimo. Con lo stacco netto che di per sé distingue il linguaggio pittorico da quello plastico a cui appartengono le sculture romane ritratte e di conseguenza reinventate da Passeretti, le sue figure panneggiate ci fanno vedere in modo nuovo presenze classiche che la nostra pigra indifferenza spesso ci porta a non percepire più, rendendole “trasparenti”, mentre questi testimoni di un teatro della memoria riattivato nel presente ci sono familiari ed estranei al tempo stesso, spiazzandoci. In qualche modo, fatte le debite proporzioni, come Yves Klein ha dato una visibilità nuova e sorprendente alla Venere di Milo e alla Nike di Samotracia dipingendone i calchi col suo inconfondibile blu oltremare, così Passeretti offre al nostro sguardo sculture antiche che promanano energia, attualità e vitalità, non di rado avvalendosi anche di una sorta di trasposizione percettiva quasi virtuale tramite colori che in sé portano perfino gli effetti dell’artificio tecnologico, pur restando magistrali prove di pura pittura, come avviene in “Demetra”, rafforzata visivamente dall’uso di due colori complementari. Ne emerge l’idea coinvolgente di un “classico dinamico” e in divenire. Il rapporto di Passeretti con la classicità romana è nato da un’esperienza immersiva, totalizzante e non puramente contemplativa. Per motivi familiari ha vissuto e lavorato per quasi quindici anni praticamente dentro Villa Adriana, sopra il Canopo. Ha respirato, studiato, assorbito ogni giorno quelle memorie architettoniche e scultoree che si facevano tutt’uno con la sua vita quotidiana, arricchendola, aprendola a nuove riflessioni non ripiegate nostalgicamente sul passato ma legate alle inquietudini contemporanee. Così, in qualche modo, l’artista non si è semplicemente appropriato di un aspetto dell’antichità ma vi si è immedesimato intendendone la spinta propulsiva verso un’interiorità più profonda e consapevole ma sempre operante nel vivo dell’attualità. Per Passeretti i valori inerenti alla dignità umana non possono non identificarsi con quelli classici come matrice identitaria del nostro essere europei ed italiani, in particolare. Ed essi non possono essere considerati ai suoi occhi un mero retaggio del passato ma devono diventare le radici di un progetto volto al futuro, in senso etico e culturale. Il nostro artista ha compreso bene, sia pur intuitivamente, quanto notato già da Ernst Howald nel 1948, ovvero che la rinascita del “classico” è la “forma ritmica” della storia culturale europea.
Gabriele Simongini
Luoghi
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