Uemon Ikeda. Unum
A cura di: Francesco Gallo Mazzeo - Testo di Igino Schraffl
Il "MA" di Uemon Ikeda
Nelle opere di Tatsuo “Uemon” Ikeda, soprattutto nelle carte e nelle ambientazioni, al primo impatto lo spettatore percepisce la rappresentazione di un generale processo di flusso e mutamento in una situazione generale di instabilità e transitorietà, che rimanda alla dimensione del tempo. Il flusso, tema generalizzato nelle opere su carta al pari del panta rhei di Eraclito, con il suo andamento orizzontale, occupa per lo più la parte centrale della superficie del disegno, il mondo di vita dell’uomo, prevalentemente fatto di distese di acqua o sabbia, in cui talora un unico essere umano giace disteso nudo, creatura gettata nel mondo per deiezione. Lo strato inferiore, la terra, e quello superiore, l’aria, il cielo, sono spesso lasciati in bianco.
Nelle opere su tela, invece, lo spazio rappresentato è l’interno di una stanza, prigione - come il sema di Socrate - dell’uomo che è assente nel quadro. In una nutrita serie di “Stanze” l’ordinata geometria euclidea del parallelepipedo è fatta a pezzi, poi ricomposti in modo da rendere irriconoscibile la figura solida, sovvertendo il sopra e il sotto e ampliando le commessure tra i frammenti. Alla carta e alla tela, all’acquerello e all’acrilico sono, dunque, assegnati costantemente due stili e due tematiche che rimandano alla dialettica tra spazio chiuso e spazio aperto, tra ordine verticale e orizzontale.
Ontologicamente – intendendo questo termine nella sua accezione prettamente formale - l’arte di Uemon prende, quindi, vita dalla dialettica tra lo sviluppo orizzontale della ritmica della realtà tangibile e il campo di tensione spirituale che riempie i vuoti generando in mezzo a tanta orizzontalità un fattore trascendentale, al quale l’artista annette una funziona catartica non solo in senso psicologico, ma profondamente umanistico. Nella loro concretezza le opere così configurate rinviano a un particolare stile di pensiero che a sua volta rinvia a un problema di traduzione. I contenuti formali si definiscono all’interno di un immaginario in cui le forme si costituiscono come luogo di senso in relazione a una realtà diversa da quella visibile, ma a cui l’articolazione della realtà visibile serve da referente. Così avviene che le forme si caricano di senso in rapporto a ciò che a livello di essenze è legato, applicando una logica delle differenze basata su un insieme di implicazioni o esclusioni, di equivalenze od opposizioni.
Tra le forme del mondo reale, quindi, si nasconde un’entità impercettibile e complessa: un intervallo di spazio e di tempo, che sfugge alla cultura occidentale con le sue nette distinzioni e categorizzazioni, ma che quella orientale concepisce come il “vuoto” dello zen. Evidentemente non si tratta del vuoto in senso fisico – che nella cultura occidentale tende a essere assimilato al nulla - ma di una pausa spazio-temporale da cui scaturisce energia. A questa entità si attaglia appieno il concetto che in giapponese è letto come ma, del vuoto tra oggetti, luoghi o eventi, di ciò che sta in mezzo[1]. Il ma corrisponde al concetto buddista e taoista dell’interdipendenza ubiquitaria delle cose entro un sistema che non separa lo spazio dal tempo e costituisce la base della percezione della realtà. Il vuoto dinamico è quindi un campo carico di energia e gravido di esiti possibili. Nel vuoto spazio-temporale avvengono le transizioni, i passaggi durante i quali cose ed eventi perdono i loro contorni precisi e si presentano per un attimo in uno stato di indistinzione che prelude a un evento futuro, a un oggetto trasformato. L’arte è spesso vista in Oriente come una rappresentazione degli stati e delle immagini fluttuanti della realtà e, quindi, definita come arte del ma, che si tratti delle stampe di Hokusai o dei giardini zen.
E’ comprensibile l’attrazione dell’artista per ciò che non c’è, per la tensione tra assenza e presenza, e l’opera vive nella contraddizione tra pieno e vuoto, tra la materialità e il nulla. Uemon mette quindi in scena soprattutto quelle impercettibili assenze, quei vuoti in mezzo come spazi pieni di energia in cui le forme (come quelle di Platone) sono sospese e in cui possono accadere molte cose. In questa estetica del vuoto forse ad acquisire esistenza non sono nemmeno tanto le forme stesse, ma ciò a cui rimandano. L’esistenza, quindi, è altrove.
Nelle opere di Tatsuo “Uemon” Ikeda, soprattutto nelle carte e nelle ambientazioni, al primo impatto lo spettatore percepisce la rappresentazione di un generale processo di flusso e mutamento in una situazione generale di instabilità e transitorietà, che rimanda alla dimensione del tempo. Il flusso, tema generalizzato nelle opere su carta al pari del panta rhei di Eraclito, con il suo andamento orizzontale, occupa per lo più la parte centrale della superficie del disegno, il mondo di vita dell’uomo, prevalentemente fatto di distese di acqua o sabbia, in cui talora un unico essere umano giace disteso nudo, creatura gettata nel mondo per deiezione. Lo strato inferiore, la terra, e quello superiore, l’aria, il cielo, sono spesso lasciati in bianco.
Nelle opere su tela, invece, lo spazio rappresentato è l’interno di una stanza, prigione - come il sema di Socrate - dell’uomo che è assente nel quadro. In una nutrita serie di “Stanze” l’ordinata geometria euclidea del parallelepipedo è fatta a pezzi, poi ricomposti in modo da rendere irriconoscibile la figura solida, sovvertendo il sopra e il sotto e ampliando le commessure tra i frammenti. Alla carta e alla tela, all’acquerello e all’acrilico sono, dunque, assegnati costantemente due stili e due tematiche che rimandano alla dialettica tra spazio chiuso e spazio aperto, tra ordine verticale e orizzontale.
Ontologicamente – intendendo questo termine nella sua accezione prettamente formale - l’arte di Uemon prende, quindi, vita dalla dialettica tra lo sviluppo orizzontale della ritmica della realtà tangibile e il campo di tensione spirituale che riempie i vuoti generando in mezzo a tanta orizzontalità un fattore trascendentale, al quale l’artista annette una funziona catartica non solo in senso psicologico, ma profondamente umanistico. Nella loro concretezza le opere così configurate rinviano a un particolare stile di pensiero che a sua volta rinvia a un problema di traduzione. I contenuti formali si definiscono all’interno di un immaginario in cui le forme si costituiscono come luogo di senso in relazione a una realtà diversa da quella visibile, ma a cui l’articolazione della realtà visibile serve da referente. Così avviene che le forme si caricano di senso in rapporto a ciò che a livello di essenze è legato, applicando una logica delle differenze basata su un insieme di implicazioni o esclusioni, di equivalenze od opposizioni.
Tra le forme del mondo reale, quindi, si nasconde un’entità impercettibile e complessa: un intervallo di spazio e di tempo, che sfugge alla cultura occidentale con le sue nette distinzioni e categorizzazioni, ma che quella orientale concepisce come il “vuoto” dello zen. Evidentemente non si tratta del vuoto in senso fisico – che nella cultura occidentale tende a essere assimilato al nulla - ma di una pausa spazio-temporale da cui scaturisce energia. A questa entità si attaglia appieno il concetto che in giapponese è letto come ma, del vuoto tra oggetti, luoghi o eventi, di ciò che sta in mezzo[1]. Il ma corrisponde al concetto buddista e taoista dell’interdipendenza ubiquitaria delle cose entro un sistema che non separa lo spazio dal tempo e costituisce la base della percezione della realtà. Il vuoto dinamico è quindi un campo carico di energia e gravido di esiti possibili. Nel vuoto spazio-temporale avvengono le transizioni, i passaggi durante i quali cose ed eventi perdono i loro contorni precisi e si presentano per un attimo in uno stato di indistinzione che prelude a un evento futuro, a un oggetto trasformato. L’arte è spesso vista in Oriente come una rappresentazione degli stati e delle immagini fluttuanti della realtà e, quindi, definita come arte del ma, che si tratti delle stampe di Hokusai o dei giardini zen.
E’ comprensibile l’attrazione dell’artista per ciò che non c’è, per la tensione tra assenza e presenza, e l’opera vive nella contraddizione tra pieno e vuoto, tra la materialità e il nulla. Uemon mette quindi in scena soprattutto quelle impercettibili assenze, quei vuoti in mezzo come spazi pieni di energia in cui le forme (come quelle di Platone) sono sospese e in cui possono accadere molte cose. In questa estetica del vuoto forse ad acquisire esistenza non sono nemmeno tanto le forme stesse, ma ciò a cui rimandano. L’esistenza, quindi, è altrove.
[1] Purtroppo l’ideogramma del ma perde il suo significato originale quando viene tradotto con i termini “fra” o “in between” in quanto ne viene ridotto a semplice preposizione, e cioè a “parola vuota” (secondo la concezione orientale) dalla valenza prettamente grammaticale, mentre nelle lingue orientali corrisponde a un concetto immediatamente percepito dai parlanti e riferito allo spazio invisibile tra due cose, all’intervallo che intercorre tra due eventi e può produrre ogni cosa possibile.
Luoghi
www.bibliothe.net 39 066781427
Orario apertura galleria dal lunedì al sabato dalle 11 alle 23