Simone Mussat Sartor. Non ora, non qui.
A cura di: Testo di Marco Rainò
NON ORA, NON QUI.
Marco Rainò
Ci sono delle gambe, delle panchine, delle finestre; qui, in questi ritagli di visione in formato quadrato ci sono unità di tempo che non torneranno più, ci sono istanti che avevamo dimenticato, simili ma non uguali ad altri che forse non avevamo considerato validi, necessari, che prima non avevamo estratto dal flusso del tutto. Dal mai concluso flusso del tutto.
Per la maggior parte di noi, queste fotografie, saranno utili a ricordare momenti che non abbiamo mai vissuto. Attraverso questi scatti, riconosceremo il generico attimo del quotidiano che, ambientato in scenari differenti, riguarda chiunque.
L’inquadratura è istintiva, spesso in movimento, formulata lungo il tragitto che porta da un punto iniziale ad uno finale, di destinazione; l’immagine è presa “nel frattempo”, progettata per non essere progettata, incidentalmente autentica o autentica perché incidentale.
Presenze.
Assenze.
Traiettorie pedonali.
Marco Rainò
Ci sono delle gambe, delle panchine, delle finestre; qui, in questi ritagli di visione in formato quadrato ci sono unità di tempo che non torneranno più, ci sono istanti che avevamo dimenticato, simili ma non uguali ad altri che forse non avevamo considerato validi, necessari, che prima non avevamo estratto dal flusso del tutto. Dal mai concluso flusso del tutto.
Per la maggior parte di noi, queste fotografie, saranno utili a ricordare momenti che non abbiamo mai vissuto. Attraverso questi scatti, riconosceremo il generico attimo del quotidiano che, ambientato in scenari differenti, riguarda chiunque.
L’inquadratura è istintiva, spesso in movimento, formulata lungo il tragitto che porta da un punto iniziale ad uno finale, di destinazione; l’immagine è presa “nel frattempo”, progettata per non essere progettata, incidentalmente autentica o autentica perché incidentale.
Presenze.
Assenze.
Traiettorie pedonali.
Soste necessarie.
La città.
I colori sono trasognati, morbidamente desaturati; lividi e caldi allo stesso tempo.
C’è un senso di sospensione, di fiato trattenuto con dolcezza, come si fa quando si desidera sentire meglio, ascoltare con cura e precisione i suoni o i rumori che provengono dalla scena che si sta osservando.
C’è un desiderio diffuso di abbandonarsi a ciò che si sta rivelando davanti ai nostri occhi, che si manifesta secondo volontà autonome, indipendenti, non prevedibili.
C’è una definita, pervasiva idea di bellezza, irrequieta e – in parte – struggente.
Simone Mussat Sartor fotografa la bellezza, principalmente – o esclusivamente? – femminile, scrivendo un’autobiografia per immagini realizzate secondo una pratica “automatica”, impulsiva, istantanea. Ogni scatto di questo diario intimo condiviso pubblicamente su Instagram è l’esito di un’urgenza ossessiva; ogni fotografia, per il suo autore, è indispensabile e forse – in un modo non necessariamente comprensibile – anche terapeutica.
È un rituale, un atto (creativo) ripetuto in sequenze che seguono altre sequenze, con ciclicità e continuità, portato a compimento con la costante, acuta sensibilità che serve per diluire nel singolo foto-ritratto di un soggetto qualsiasi l’innesco di una limpida emozione.
Scampoli di incroci, di incontri, di scontri.
Immagini raccolte secondo temi ricorrenti.
Primo.
Un atlante di scatti di giovani donne in movimento, quasi sempre colte nell’atto di allungare il passo, in quella frazione di secondo in cui l’azione è governata dall’istinto della camminata, dall’automatismo genuino che governa la scelta di una traiettoria; modelle inconsapevoli, comuni, incontrate per caso, finalmente liberate dalla violenta costrizione della posa per assumere andature “reali” e non “realistiche”, naturali o forse anche solo umane.
Le loro gambe sono vettori sensuali, sono “compassi che misurano il globo terrestre in tutte le direzioni, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia.” (1)
Secondo.
Un album di fotografie di un circolo di panchine; stagioni diverse, medesimo luogo.
La sosta in cui, una moltitudine di ragazze, sedendosi per un attimo che si può solo arbitrariamente immaginare più o meno lungo, abbandonano la tensione, recuperano fiato, attendono.
In questo istante di quiete, di discontinuità, le immagini restituiscono la densità quasi palpabile dei loro pensieri transitori – senza peso oppure importanti - che le trasporta altrove, che le rende presenze-assenti del vuoto urbano che stanno temporaneamente abitando.
Terzo.
Una raccolta di inquadrature di interni domestici; il soggetto principale della fotografia è la finestra, ripresa frontalmente, aperta o chiusa, affacciata su esterni diurni o notturni.
Attraverso il varco nella muratura si intravedono luoghi sempre diversi, mentre gli ambienti interni conservano la temperatura costante dell’intimo riparo o del luogo in cui le murature diventano parentesi solide, utili a separare o sottrarre qualsiasi presenza umana da ogni contesto altro.
La fotografia, prelievo incondizionato e non negoziabile di un momento specifico da un più dilatato momento generico, è un coagulo istantaneo di un tempo che è stato vita, una frazione di luce isolata dal flusso dell’esistere che è sottratta al futuro, nel presente, per testimoniare il passato; nell’immagine fissa, la vertiginosa contrazione tra ciò che era e ciò che sarà definisce e registra il paradosso del non essere (più) qui e ora, perché “il nostro tempo, il presente non è, infatti, soltanto il più lontano: non può in nessun caso raggiungerci.” (2)
Nel ritratto di ciò che è – o è stato – un preciso “adesso”, si replicano e si fermano i connotati di uno stato in luogo spesso enigmatico, in cui si conservano i molti indizi che suggeriscono la sensazione “di riconoscere nella tenebra del presente la luce che, senza mai poterci raggiungere, è perennemente in viaggio verso di noi.” (3)
Anche per questo motivo, si può pensare all’immagine fotografata come ad un dispositivo di espansione della nostra capacità percettiva, un amplificatore ottico che consente di vedere ciò che, in precedenza, l’autore aveva solo potuto guardare: l’obbiettivo rileva, la fotografia rivela.
“La natura che parla all’apparecchio fotografico è diversa infatti da quella che parla all’occhio; diversa sopratutto perché, al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, ne compare uno elaborato inconsciamente.” (4) Attraverso un qualunque strumento di cattura dell’immagine – in questo caso un iPhone che fissa l’attimo traducendolo in un codice digitale composto da milioni di pixel – si elaborano e definiscono costantemente delle ipotesi di scoperta, perché nell’inquadratura programmata si somma e si miscela sempre una scintilla di casualità, un dato inatteso che è materia grazie alla quale “la realtà ha per così dire infiammato il carattere dell’immagine.” (5)
Ciò che accade nell’attimo infinitamente breve del quotidiano non può essere colto nella sua totalità ad occhio nudo, ma la sua registrazione in formato fotografico restituisce la dimensione di un universo di dettagli prima non percepibile, informandoci della complessità del nostro senso ottico, “infinitamente multiplo e simultaneamente unificato.” (6)
Gli scatti di Simone Mussat Sartor conservano una quota rilevante di questo puro inconscio ottico – così come lo definisce Walter Benjamin – di cui “veniamo a sapere solo attraverso la fotografia, così come dell’inconscio delle pulsioni attraverso la psicoanalisi.” (7)
Ogni suo click cattura dinamiche incoscienti, particolari mimetizzati, fermandoli perché possano diventare evidenti, accessibili, leggibili e forse – secondo processi di elaborazione soggettivi, di volta in volta differenti per ciascun osservatore dell’immagine finale – interpretabili; si osservano le fotografie di Mussat Sartor anche con l’ambizione e la sensazione – forse l’illusione – di riconoscere qualcosa – il soggetto, il contesto – perché questo tentativo di codifica ci permetterà di alimentare altre visioni personali, che prenderanno la forma inconsistente eppure così potentemente vivace e concreta dei nostri pensieri, delle nostre fantasie.
Queste immagini, in particolare, sono stimolanti marchingegni narrativi, perché omettendo volti, espressioni e identità dei soggetti, lasciano a noi osservatori lo spazio per definire e architettare piccole o grandi fantasie.
Queste immagini, in particolare, nella loro enigmatica composizione quasi incompiuta, sono cronache visive di una realtà capace di stimolare la finzione.
Queste immagini, davvero, sono tutte e indistintamente, preziose miniature di un unico istante: quello in cui ogni difesa è abbassata, ogni convenzione è sciolta, ogni tattica è sospesa; il momento profondamente personale in cui siamo teoricamente soli, isolati, disconnessi, in compagnia di noi stessi, non essendo – finalmente – presenti. Non ora, non qui.
(1) Voce fuori campo del personaggio di Bertrand Morane (Charles Denner) nel lungometraggio L’uomo che amava le donne di François Truffaut, 1977
(2) (3) Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Roma, 2008
(4) (5) (7) Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, Skira, Milano, 2011
(6) Rosalind Krauss, L’inconscio ottico, Bruno Mondadori, Milano, 1993
La città.
I colori sono trasognati, morbidamente desaturati; lividi e caldi allo stesso tempo.
C’è un senso di sospensione, di fiato trattenuto con dolcezza, come si fa quando si desidera sentire meglio, ascoltare con cura e precisione i suoni o i rumori che provengono dalla scena che si sta osservando.
C’è un desiderio diffuso di abbandonarsi a ciò che si sta rivelando davanti ai nostri occhi, che si manifesta secondo volontà autonome, indipendenti, non prevedibili.
C’è una definita, pervasiva idea di bellezza, irrequieta e – in parte – struggente.
Simone Mussat Sartor fotografa la bellezza, principalmente – o esclusivamente? – femminile, scrivendo un’autobiografia per immagini realizzate secondo una pratica “automatica”, impulsiva, istantanea. Ogni scatto di questo diario intimo condiviso pubblicamente su Instagram è l’esito di un’urgenza ossessiva; ogni fotografia, per il suo autore, è indispensabile e forse – in un modo non necessariamente comprensibile – anche terapeutica.
È un rituale, un atto (creativo) ripetuto in sequenze che seguono altre sequenze, con ciclicità e continuità, portato a compimento con la costante, acuta sensibilità che serve per diluire nel singolo foto-ritratto di un soggetto qualsiasi l’innesco di una limpida emozione.
Scampoli di incroci, di incontri, di scontri.
Immagini raccolte secondo temi ricorrenti.
Primo.
Un atlante di scatti di giovani donne in movimento, quasi sempre colte nell’atto di allungare il passo, in quella frazione di secondo in cui l’azione è governata dall’istinto della camminata, dall’automatismo genuino che governa la scelta di una traiettoria; modelle inconsapevoli, comuni, incontrate per caso, finalmente liberate dalla violenta costrizione della posa per assumere andature “reali” e non “realistiche”, naturali o forse anche solo umane.
Le loro gambe sono vettori sensuali, sono “compassi che misurano il globo terrestre in tutte le direzioni, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia.” (1)
Secondo.
Un album di fotografie di un circolo di panchine; stagioni diverse, medesimo luogo.
La sosta in cui, una moltitudine di ragazze, sedendosi per un attimo che si può solo arbitrariamente immaginare più o meno lungo, abbandonano la tensione, recuperano fiato, attendono.
In questo istante di quiete, di discontinuità, le immagini restituiscono la densità quasi palpabile dei loro pensieri transitori – senza peso oppure importanti - che le trasporta altrove, che le rende presenze-assenti del vuoto urbano che stanno temporaneamente abitando.
Terzo.
Una raccolta di inquadrature di interni domestici; il soggetto principale della fotografia è la finestra, ripresa frontalmente, aperta o chiusa, affacciata su esterni diurni o notturni.
Attraverso il varco nella muratura si intravedono luoghi sempre diversi, mentre gli ambienti interni conservano la temperatura costante dell’intimo riparo o del luogo in cui le murature diventano parentesi solide, utili a separare o sottrarre qualsiasi presenza umana da ogni contesto altro.
La fotografia, prelievo incondizionato e non negoziabile di un momento specifico da un più dilatato momento generico, è un coagulo istantaneo di un tempo che è stato vita, una frazione di luce isolata dal flusso dell’esistere che è sottratta al futuro, nel presente, per testimoniare il passato; nell’immagine fissa, la vertiginosa contrazione tra ciò che era e ciò che sarà definisce e registra il paradosso del non essere (più) qui e ora, perché “il nostro tempo, il presente non è, infatti, soltanto il più lontano: non può in nessun caso raggiungerci.” (2)
Nel ritratto di ciò che è – o è stato – un preciso “adesso”, si replicano e si fermano i connotati di uno stato in luogo spesso enigmatico, in cui si conservano i molti indizi che suggeriscono la sensazione “di riconoscere nella tenebra del presente la luce che, senza mai poterci raggiungere, è perennemente in viaggio verso di noi.” (3)
Anche per questo motivo, si può pensare all’immagine fotografata come ad un dispositivo di espansione della nostra capacità percettiva, un amplificatore ottico che consente di vedere ciò che, in precedenza, l’autore aveva solo potuto guardare: l’obbiettivo rileva, la fotografia rivela.
“La natura che parla all’apparecchio fotografico è diversa infatti da quella che parla all’occhio; diversa sopratutto perché, al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, ne compare uno elaborato inconsciamente.” (4) Attraverso un qualunque strumento di cattura dell’immagine – in questo caso un iPhone che fissa l’attimo traducendolo in un codice digitale composto da milioni di pixel – si elaborano e definiscono costantemente delle ipotesi di scoperta, perché nell’inquadratura programmata si somma e si miscela sempre una scintilla di casualità, un dato inatteso che è materia grazie alla quale “la realtà ha per così dire infiammato il carattere dell’immagine.” (5)
Ciò che accade nell’attimo infinitamente breve del quotidiano non può essere colto nella sua totalità ad occhio nudo, ma la sua registrazione in formato fotografico restituisce la dimensione di un universo di dettagli prima non percepibile, informandoci della complessità del nostro senso ottico, “infinitamente multiplo e simultaneamente unificato.” (6)
Gli scatti di Simone Mussat Sartor conservano una quota rilevante di questo puro inconscio ottico – così come lo definisce Walter Benjamin – di cui “veniamo a sapere solo attraverso la fotografia, così come dell’inconscio delle pulsioni attraverso la psicoanalisi.” (7)
Ogni suo click cattura dinamiche incoscienti, particolari mimetizzati, fermandoli perché possano diventare evidenti, accessibili, leggibili e forse – secondo processi di elaborazione soggettivi, di volta in volta differenti per ciascun osservatore dell’immagine finale – interpretabili; si osservano le fotografie di Mussat Sartor anche con l’ambizione e la sensazione – forse l’illusione – di riconoscere qualcosa – il soggetto, il contesto – perché questo tentativo di codifica ci permetterà di alimentare altre visioni personali, che prenderanno la forma inconsistente eppure così potentemente vivace e concreta dei nostri pensieri, delle nostre fantasie.
Queste immagini, in particolare, sono stimolanti marchingegni narrativi, perché omettendo volti, espressioni e identità dei soggetti, lasciano a noi osservatori lo spazio per definire e architettare piccole o grandi fantasie.
Queste immagini, in particolare, nella loro enigmatica composizione quasi incompiuta, sono cronache visive di una realtà capace di stimolare la finzione.
Queste immagini, davvero, sono tutte e indistintamente, preziose miniature di un unico istante: quello in cui ogni difesa è abbassata, ogni convenzione è sciolta, ogni tattica è sospesa; il momento profondamente personale in cui siamo teoricamente soli, isolati, disconnessi, in compagnia di noi stessi, non essendo – finalmente – presenti. Non ora, non qui.
(1) Voce fuori campo del personaggio di Bertrand Morane (Charles Denner) nel lungometraggio L’uomo che amava le donne di François Truffaut, 1977
(2) (3) Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Roma, 2008
(4) (5) (7) Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, Skira, Milano, 2011
(6) Rosalind Krauss, L’inconscio ottico, Bruno Mondadori, Milano, 1993
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Luoghi
www.albertopeola.com 011 8124460
orario:lun-sab 15.30-19.30, mattino su appuntamento
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