Sergio Ceccotti, uno sguardo nell’invisibile
A cura di: Francesco Gallo Mazzeo - Testo di Cesare Biasini Selvaggi
Sergio Ceccotti è, eminentemente, pittore di città e di certe città, perfino anzi di determinate porzioni e ambientazioni di quelle medesime città, sempre ben riconoscibili, per cogliere tranches de vie. Parigi, innanzitutto, oggetto di indiscrete violazioni voyeristiche e, più frequentemente, scenario di vicende singolarmente sospese tra l’ordinaria quotidianità e l’avvisaglia del dramma. Ecco i bordi del canale Saint-Martin, dove appena comincia a fare caldo, i giovani organizzano picnic quasi ogni sera; al di là del ponte le facciate del quai de Jemmapes, su una delle quali un nome attira l’attenzione Hôtel du Nord, quello del romanzo di Eugène Dabit e del film di Marcel Carné; senza tralasciare la Rive gauche, tra la Senna e Saint Germain, con i vecchi palazzi del secondo Ottocento incoronati dalle caratteristiche mansarde. E poi la periferia di Roma, in un pomeriggio d’estate: piazza De Cristoforis è deserta: una vettura sul passaggio pedonale in primo piano proietta un’ombra violetta da destra a sinistra, al centro c’è un’aiuola con l’erba un po’ ingiallita, in fondo un grande edificio formato da due ali convergenti verso di noi, unite da un arco che dà accesso a un grande cortile con alberi; a sinistra dell’edificio ancora degli alberi in prospettiva lungo il viale che si perde all’orizzonte. Altro riferimento al cinema: il grande edificio in questione degli anni Trenta che ospita case popolari figura nel film Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini come domicilio di Anna Magnani. Ma ci sono altri luoghi da visitare nei quadri di Ceccotti: ancora delle vie di Parigi e di Roma, i canali di Venezia o un quartiere di Londra. Qualche volta illuminati dalla luna, altre volte da una luce vespertina, quando gli ultimi raggi di sole conferiscono una tonalità rosa-arancione alla statua di un generale o di un centauro per creare una sospensione “metafisica” che diviene la scena privilegiata degli enigmi dell’artista, lo scenario assurdo dei suoi misteri metropolitani, di quei drammi che, con sapiente regia, sono preclusi al nostro sguardo (ma non a quello dei personaggi raffigurati) e che possiamo solo immaginare.
Nei dipinti di Ceccotti gli abituali nessi tra gli oggetti non mancano di essere stravolti per licenza creativa, fino a risultare a-logici, surreali, enigmatici, inquietanti. Si veda in tal senso, e in linea con una “poetica dell’oggetto”, la serie di interni Atelier ovvero lo studio dell’artista, dove viene posto al centro del quadro, su un cavalletto, un altro quadro (un quadro nel quadro, come ne Le mille e una notte, il racconto nel racconto) e, in primo piano, non manca mai del cibo e del vino, oppure una moka. Sullo sfondo dell’opera talvolta si scorge una seducente donna in déshabillé scendere una scala a chiocciola. I dipinti della serie Atelier, colmi di “frammenti d’uno specchio universale”, con queste loro tensioni per la poesia e la magia del ricordo, non rispettano i prevedibili, gli attesi legami di tempo e di luogo. In Ceccotti il tempo è folgorato nell’eterno presente insistente su una spazialità immota, dove l’istante appare irrevocabile. Le storie dipinte da Ceccotti, come in Le roman d’un soir (2010), ne guadagnano tanto di ambiguità quanto di interesse, più per lo stato d’animo creato con il suo metodo, che per quell’universo di dettagli quasi maniacale e un po’ accumulativo che raffigurano. L’innovazione e, al contempo, la poesia di Ceccotti risiedono proprio in questo, nel suo modo originale di presentare le evocazioni atmosferiche di tempo, di spazio e di memoria ovvero della riconsiderazione a posteriori del reale. I dettagli di uno spazio, come quelli di un appartamento della middle class (un soggiorno, una camera da letto, una stanza da bagno) che sembra uscito dal set di una sit-com televisiva, permettono allo spettatore di ricorrere alla propria memoria e soggettività per interpretare quel che vede nel dipinto e, attraverso questo procedimento, se stesso. Anche un insignificante utensile da cucina può cominciare, allora, a farci paura, assumendo una valenza che prima non aveva. Sfugge, infatti, alla nostra illusoria comprensione. Non è questo, forse che si chiede all’Arte? Aiutarci a meditare sul mistero dell’esistenza? Aiutarci a cogliere i rapporti segreti e invisibili intessuti intorno a noi o dentro di noi? Il metodo di Ceccotti rappresenta insomma l’alter ego pittorico delle macchie di Rorschach in psicologia: è un sofisticato strumento d’indagine della personalità, il cui scopo è quello di far affiorare nello spettatore emozioni inconsce, conflitti interiori attraverso la stimolazione visiva degli spazi (interni o esterni) inscenati sulla tela. Al riguardo, appaiono illuminanti e sorprendentemente attuali le parole di Philippe Soupault, il poeta e scrittore surrealista francese autore del testo di presentazione della prima monografia su Ceccotti: «Tutte le notti sogno e tutte le mattine mi sforzo di ricordare i miei sogni. Io posso, non senza sforzo, riconoscere dei personaggi, uomini, donne, bambini, ma non mi riesce mai di ricordarmi degli ambienti, delle atmosfere, della luce in cui sono stato immerso durante la notte e che spariscono al mattino. Tuttavia, un terzo della mia esistenza l’ho vissuta nella spazio e nell’illuminazione dei sogni, senza potermici mai ritrovare. È grazie a Sergio Ceccotti che ho riconosciuto il “teatro” dei miei sogni. Guardando le sue opere, ho provato lo choc del riconoscimento». Ecco allora conseguito quel primo piacere estetico, quel riconoscimento (l’“agnizione”) postulato da Aristotele nella sua Estetica.
Quel piacere di cui lo spettatore gode quando, di fronte a un’opera d’arte, riconosce un brandello di realtà, di sé, malgrado gli appaia sotto forma di sogno, di illusione, di sguardo nell’invisibile.
Nei dipinti di Ceccotti gli abituali nessi tra gli oggetti non mancano di essere stravolti per licenza creativa, fino a risultare a-logici, surreali, enigmatici, inquietanti. Si veda in tal senso, e in linea con una “poetica dell’oggetto”, la serie di interni Atelier ovvero lo studio dell’artista, dove viene posto al centro del quadro, su un cavalletto, un altro quadro (un quadro nel quadro, come ne Le mille e una notte, il racconto nel racconto) e, in primo piano, non manca mai del cibo e del vino, oppure una moka. Sullo sfondo dell’opera talvolta si scorge una seducente donna in déshabillé scendere una scala a chiocciola. I dipinti della serie Atelier, colmi di “frammenti d’uno specchio universale”, con queste loro tensioni per la poesia e la magia del ricordo, non rispettano i prevedibili, gli attesi legami di tempo e di luogo. In Ceccotti il tempo è folgorato nell’eterno presente insistente su una spazialità immota, dove l’istante appare irrevocabile. Le storie dipinte da Ceccotti, come in Le roman d’un soir (2010), ne guadagnano tanto di ambiguità quanto di interesse, più per lo stato d’animo creato con il suo metodo, che per quell’universo di dettagli quasi maniacale e un po’ accumulativo che raffigurano. L’innovazione e, al contempo, la poesia di Ceccotti risiedono proprio in questo, nel suo modo originale di presentare le evocazioni atmosferiche di tempo, di spazio e di memoria ovvero della riconsiderazione a posteriori del reale. I dettagli di uno spazio, come quelli di un appartamento della middle class (un soggiorno, una camera da letto, una stanza da bagno) che sembra uscito dal set di una sit-com televisiva, permettono allo spettatore di ricorrere alla propria memoria e soggettività per interpretare quel che vede nel dipinto e, attraverso questo procedimento, se stesso. Anche un insignificante utensile da cucina può cominciare, allora, a farci paura, assumendo una valenza che prima non aveva. Sfugge, infatti, alla nostra illusoria comprensione. Non è questo, forse che si chiede all’Arte? Aiutarci a meditare sul mistero dell’esistenza? Aiutarci a cogliere i rapporti segreti e invisibili intessuti intorno a noi o dentro di noi? Il metodo di Ceccotti rappresenta insomma l’alter ego pittorico delle macchie di Rorschach in psicologia: è un sofisticato strumento d’indagine della personalità, il cui scopo è quello di far affiorare nello spettatore emozioni inconsce, conflitti interiori attraverso la stimolazione visiva degli spazi (interni o esterni) inscenati sulla tela. Al riguardo, appaiono illuminanti e sorprendentemente attuali le parole di Philippe Soupault, il poeta e scrittore surrealista francese autore del testo di presentazione della prima monografia su Ceccotti: «Tutte le notti sogno e tutte le mattine mi sforzo di ricordare i miei sogni. Io posso, non senza sforzo, riconoscere dei personaggi, uomini, donne, bambini, ma non mi riesce mai di ricordarmi degli ambienti, delle atmosfere, della luce in cui sono stato immerso durante la notte e che spariscono al mattino. Tuttavia, un terzo della mia esistenza l’ho vissuta nella spazio e nell’illuminazione dei sogni, senza potermici mai ritrovare. È grazie a Sergio Ceccotti che ho riconosciuto il “teatro” dei miei sogni. Guardando le sue opere, ho provato lo choc del riconoscimento». Ecco allora conseguito quel primo piacere estetico, quel riconoscimento (l’“agnizione”) postulato da Aristotele nella sua Estetica.
Quel piacere di cui lo spettatore gode quando, di fronte a un’opera d’arte, riconosce un brandello di realtà, di sé, malgrado gli appaia sotto forma di sogno, di illusione, di sguardo nell’invisibile.
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