Salvatore Pulvirenti. "Sicilitudine"
A cura di: Francesco Gallo Mazzeo - Testo di Tito Marci
Unum
a cura di Francesco Gallo Mazzeo
Un'opera unica di Salvatore Pulvirenti
Puoi immaginare un pomeriggio sfinito d’estate, l’effervescenza del mare, l’umidità della luce, il sole assoluto sospeso sui cactus, due piccole nubi. Puoi chiudere gli occhi e trattenere il riflesso del bianco accecante solcato dai flebili tratti di segni sfocati, luci senz’ombra. Il breve momento in cui le astrazioni mentali incontrano i dati sensibili e le impressioni concrete. È qui, in questo preciso momento, che un’inconfessabile assenza irrompe nei tratti visibili della sua sparizione. Ed è questa l’ultima scena della ricerca pittorica di Salvatore Pulvirenti. Una scena in cui il bianco procede dall’esperienza cromatica, dal tono, dal parossismo del colore. Qui l’ha condotto, come in modo diverso è accaduto a Fontana, un percorso di sottrazione, di purificazione, di astrazione. E l’ha condotto a quel vuoto, a quel nulla, che paradossalmente riempie, nel bianco, lo spazio assente lasciato dal segno; l’ha condotto all’essenziale cecità dell’immagine, alla sua capacità di disfare il “reale”, a quel momento in cui l’oggetto, la cosa, diventa miraggio. Per ragioni che intrecciano il percorso artistico a quello personale del pittore, non possiamo non richiamare il Giappone, L’impero dei segni narrato da Barthes; non possiamo non tornare a quel “vuoto di parola”, a quell’interstizio senza bordi a cui accede l’immagine-segno, l’arte del gesto grafico. Vi è, in effetti, un’“astrazione sensibile” nel lavoro di Pulvirenti che, nella delicatezza del tratto, sospende il linguaggio esponendo la pittura al silenzio della rarefazione. Si procede attraverso cancellazioni, alleggerimenti, purificazioni del segno da ogni tentazione discorsiva, da ogni ridondanza decorativa e sovrabbondanza cromatica, da ogni accumulazione. Ed è proprio in questo esercizio di s-comparizione, in questa esperienza di perdita, che l’astrazione raggiunge il concreto sensibile, la concretezza dell’immagine-segno nel suo radicale disancoraggio in una memoria senza durata; fino ad arrivare all’elementarità dell’immagine nella sua manifestazione tangibile, al suo darsi e mostrarsi nella sua immediatezza: proprio qui, nell’assenza di parola, di discorso, nell’impossibilità di dire, in ciò che si mostra senza di-mostrare, senza differire altrimenti la sua manifestazione. Così, se torniamo al Giappone, l’esperienza estraniante di un bianco flagrante che irrompe nell’evanescenza del vuoto, ci riconduce, al contempo, in Sicilia, nell’implacabile scena di luce meridiana. E qui comprendiamo che la pittura di Salvatore Pulvirenti non è solamente “essenziale”; è ancor più “elementare”: è essa stessa “elemento”. Se volessimo dare a questa esperienza la veste di una trattazione teorica, potremmo intitolare il trattato Le forme elementari della raffigurazione pittorica. E gli elementi, in questo caso, non sono le cose, gli oggetti, i volumi, ma le relazioni formali, le corrispondenze semantiche, le intersezioni spaziali, l’intreccio dei segni, le linee di forza che attraversano il campo pittorico. Se vi è una tensione in questa pittura, è proprio la leggerezza intuitiva che rende visibili tali rapporti, più visibili di ciò che permane nel dato, nella contingenza della figurazione. Potresti anche scomporre l’organizzazione del quadro, disarticolare il suo ordine figurativo; l’equilibrio non verrebbe a mancare, resistendo ad ogni oggettivazione, ad ogni reificazione oggettuale, ad ogni pretesa naturalistica della rappresentazione. Sono le pure geometrie spaziali che ordinano il senso della figurazione. Ed è proprio per questo che possiamo ancora paradossalmente parlare di astrazione concreta. Non sappiamo se questo sia un approdo o un inizio. Per adesso preferiamo restare sul limite, soggiornare sul bordo, nello spazio sospeso sul vuoto.
Tito Marci
a cura di Francesco Gallo Mazzeo
Un'opera unica di Salvatore Pulvirenti
Puoi immaginare un pomeriggio sfinito d’estate, l’effervescenza del mare, l’umidità della luce, il sole assoluto sospeso sui cactus, due piccole nubi. Puoi chiudere gli occhi e trattenere il riflesso del bianco accecante solcato dai flebili tratti di segni sfocati, luci senz’ombra. Il breve momento in cui le astrazioni mentali incontrano i dati sensibili e le impressioni concrete. È qui, in questo preciso momento, che un’inconfessabile assenza irrompe nei tratti visibili della sua sparizione. Ed è questa l’ultima scena della ricerca pittorica di Salvatore Pulvirenti. Una scena in cui il bianco procede dall’esperienza cromatica, dal tono, dal parossismo del colore. Qui l’ha condotto, come in modo diverso è accaduto a Fontana, un percorso di sottrazione, di purificazione, di astrazione. E l’ha condotto a quel vuoto, a quel nulla, che paradossalmente riempie, nel bianco, lo spazio assente lasciato dal segno; l’ha condotto all’essenziale cecità dell’immagine, alla sua capacità di disfare il “reale”, a quel momento in cui l’oggetto, la cosa, diventa miraggio. Per ragioni che intrecciano il percorso artistico a quello personale del pittore, non possiamo non richiamare il Giappone, L’impero dei segni narrato da Barthes; non possiamo non tornare a quel “vuoto di parola”, a quell’interstizio senza bordi a cui accede l’immagine-segno, l’arte del gesto grafico. Vi è, in effetti, un’“astrazione sensibile” nel lavoro di Pulvirenti che, nella delicatezza del tratto, sospende il linguaggio esponendo la pittura al silenzio della rarefazione. Si procede attraverso cancellazioni, alleggerimenti, purificazioni del segno da ogni tentazione discorsiva, da ogni ridondanza decorativa e sovrabbondanza cromatica, da ogni accumulazione. Ed è proprio in questo esercizio di s-comparizione, in questa esperienza di perdita, che l’astrazione raggiunge il concreto sensibile, la concretezza dell’immagine-segno nel suo radicale disancoraggio in una memoria senza durata; fino ad arrivare all’elementarità dell’immagine nella sua manifestazione tangibile, al suo darsi e mostrarsi nella sua immediatezza: proprio qui, nell’assenza di parola, di discorso, nell’impossibilità di dire, in ciò che si mostra senza di-mostrare, senza differire altrimenti la sua manifestazione. Così, se torniamo al Giappone, l’esperienza estraniante di un bianco flagrante che irrompe nell’evanescenza del vuoto, ci riconduce, al contempo, in Sicilia, nell’implacabile scena di luce meridiana. E qui comprendiamo che la pittura di Salvatore Pulvirenti non è solamente “essenziale”; è ancor più “elementare”: è essa stessa “elemento”. Se volessimo dare a questa esperienza la veste di una trattazione teorica, potremmo intitolare il trattato Le forme elementari della raffigurazione pittorica. E gli elementi, in questo caso, non sono le cose, gli oggetti, i volumi, ma le relazioni formali, le corrispondenze semantiche, le intersezioni spaziali, l’intreccio dei segni, le linee di forza che attraversano il campo pittorico. Se vi è una tensione in questa pittura, è proprio la leggerezza intuitiva che rende visibili tali rapporti, più visibili di ciò che permane nel dato, nella contingenza della figurazione. Potresti anche scomporre l’organizzazione del quadro, disarticolare il suo ordine figurativo; l’equilibrio non verrebbe a mancare, resistendo ad ogni oggettivazione, ad ogni reificazione oggettuale, ad ogni pretesa naturalistica della rappresentazione. Sono le pure geometrie spaziali che ordinano il senso della figurazione. Ed è proprio per questo che possiamo ancora paradossalmente parlare di astrazione concreta. Non sappiamo se questo sia un approdo o un inizio. Per adesso preferiamo restare sul limite, soggiornare sul bordo, nello spazio sospeso sul vuoto.
Tito Marci
Luoghi
www.bibliothe.net 39 066781427
Orario apertura galleria dal lunedì al sabato dalle 11 alle 23