Rowena Harris "Soft Boundaries"
Soft Boundaries delinea l’attuale stato in cui viviamo – uno stato in cui le esperienze, gli effetti e la comprensione acquisiti dall’universo digitale, si muovono liberamente all’interno della nostra realtà tangibile. I confini che una volta potevano essere ben definiti, ora sono molli e flessibili - sono membrane superficiali che sostengono positivamente l’atto dell’osmosi tra il digitale e il materiale. Al centro della ricerca di Harris vi è il corpo. Attraverso la riflessione sul concetto di “schema corporeo” (o immagine corporea), che può essere interpretato come la capacità del corpo di aprirsi a, e intrecciarsi con il mondo, e dove l’immagine corporea non è fissa o rigida ma adattabile alla miriade di strumenti e tecnologie che possono essere incarnate[i], l’artista considera il corpo contemporaneo non limitato dal confine della propria pelle – i nostri corpi sono diventati dei media e i media stanno riconfigurando la nostra materia[ii]. Le tecnologie quotidiane di cui disponiamo sono in grado di alterare la nostra percezione del tatto? – la nostra percezione della materialità? – la nostra percezione di dove risiedono i limiti dei nostri stessi corpi? Interrogativi che la mostra si propone di interpretare in chiave poetica, forse fenomenologica, come un breve momento in cui la percezione corporea improvvisamente fallisce. Come stare seduti ma la sedia è più bassa di quanto previsto; come aspettarsi un gradino in più nel salire o scendere le scale; come quando ci si aspetta che il terreno sotto i piedi sia duro ma poi si rivela morbido. Essere soggetto a un confine molle è come cadere quando meno te lo aspetti.
La pratica artistica di Harris è pervasa da uno spazio vago sospeso tra materialità e digitalità, considerate dal punto di vista del corpo umano, e la sua opera abbraccia sia opere scultoree che digitali. Nella mostra, l’artista coinvolge lo stesso corpo dello spettatore attraverso un elemento esperienziale: un soffice pavimento in schiuma che spunta sotto i piedi dell’astante. Introduce inoltre l’idea di pelle come una presenza fantasma, attraverso le sculture “Golden Brown Texture Like Sun” composte da lampade abbronzanti utilizzate e scadute – lampade che hanno operato su infiniti corpi umani – trasferendo raggi UV nella loro pelle. Queste “pelli infinite” diventano veri fantasmi nella mostra, mentre maschere protettrici per gli occhi, dorate e dalla forma conica, che rappresentano un tipico oggetto dei centri estetici di abbronzatura, ricoprono il pavimento come spazzatura.
La serie “Pelts” composta da sottili superfici in rame, accompagnata da un film nel piano interrato anch’esso intitolato “Pelt”, è incentrata sulla resa digitale della pelle, dove la pelle in modellazione e stampa 3D (colloquialmente chiamata “pellame” dai programmatori) non è nient’altro che pura superficie – la profondità è resa in modo illusorio come pixel in una foto jpeg, e avvolta come una coperta su un formato digitale 3D. Nelle sculture, Harris immagina una conversione incidendo in rilievo l’immagine jpeg all’interno di una superficie, realizzando opere che scorrono tra superficie piana e forma tridimensionale. Nella serie di sculture “At the Edge of the Frame” , composta da scarpe in calcestruzzo, Harris ha applicato l’azione digitale del “cropping”, comune a Photoshop, Instagram e simili, alla forma materica. Una linea netta disseziona ciascun paio di scarpe, creando così una forma che gioca con la nostra comprensione familiare dell’immaginario digitale, mentre con lo stesso gesto rivela l’interno in cemento delle sculture e l’“essere” brutale della materia.
Nel piano interrato della galleria il film “A room within which the computer can control the existence of matter” prende il titolo da una frase di Ivan Sutherland, creatore del primo visore di realtà virtuale (VR). Il film riflette sulle potenzialità dell’esperienza digitale di riformare il modo in cui comprendiamo il nostro corpo umano. Unisce la ricerca sullo “schema corporeo” – materializzazione all’interno della realtà virtuale – e l’interesse di lunga data di Harris nella terapia virtuale del dolore dell'arto fantasma (virtual phantom limb therapy -VPLT)[iii], e indaga se le nostre esperienze digitali possano essere considerate sulla stessa scia della VPLT e degli esperimenti di personificazione di VR nell’alterare la percezione del nostro stato corporeo, ma inglobate e inavvertite quale parte della nostra realtà quotidiana.
La pratica artistica di Harris è pervasa da uno spazio vago sospeso tra materialità e digitalità, considerate dal punto di vista del corpo umano, e la sua opera abbraccia sia opere scultoree che digitali. Nella mostra, l’artista coinvolge lo stesso corpo dello spettatore attraverso un elemento esperienziale: un soffice pavimento in schiuma che spunta sotto i piedi dell’astante. Introduce inoltre l’idea di pelle come una presenza fantasma, attraverso le sculture “Golden Brown Texture Like Sun” composte da lampade abbronzanti utilizzate e scadute – lampade che hanno operato su infiniti corpi umani – trasferendo raggi UV nella loro pelle. Queste “pelli infinite” diventano veri fantasmi nella mostra, mentre maschere protettrici per gli occhi, dorate e dalla forma conica, che rappresentano un tipico oggetto dei centri estetici di abbronzatura, ricoprono il pavimento come spazzatura.
La serie “Pelts” composta da sottili superfici in rame, accompagnata da un film nel piano interrato anch’esso intitolato “Pelt”, è incentrata sulla resa digitale della pelle, dove la pelle in modellazione e stampa 3D (colloquialmente chiamata “pellame” dai programmatori) non è nient’altro che pura superficie – la profondità è resa in modo illusorio come pixel in una foto jpeg, e avvolta come una coperta su un formato digitale 3D. Nelle sculture, Harris immagina una conversione incidendo in rilievo l’immagine jpeg all’interno di una superficie, realizzando opere che scorrono tra superficie piana e forma tridimensionale. Nella serie di sculture “At the Edge of the Frame” , composta da scarpe in calcestruzzo, Harris ha applicato l’azione digitale del “cropping”, comune a Photoshop, Instagram e simili, alla forma materica. Una linea netta disseziona ciascun paio di scarpe, creando così una forma che gioca con la nostra comprensione familiare dell’immaginario digitale, mentre con lo stesso gesto rivela l’interno in cemento delle sculture e l’“essere” brutale della materia.
Nel piano interrato della galleria il film “A room within which the computer can control the existence of matter” prende il titolo da una frase di Ivan Sutherland, creatore del primo visore di realtà virtuale (VR). Il film riflette sulle potenzialità dell’esperienza digitale di riformare il modo in cui comprendiamo il nostro corpo umano. Unisce la ricerca sullo “schema corporeo” – materializzazione all’interno della realtà virtuale – e l’interesse di lunga data di Harris nella terapia virtuale del dolore dell'arto fantasma (virtual phantom limb therapy -VPLT)[iii], e indaga se le nostre esperienze digitali possano essere considerate sulla stessa scia della VPLT e degli esperimenti di personificazione di VR nell’alterare la percezione del nostro stato corporeo, ma inglobate e inavvertite quale parte della nostra realtà quotidiana.
Luoghi
www.thegalleryapart.it 6 68809863
orario: mar-sab 16-20 o su appuntamento