Con l’esposizione “Approdare alla Deriva”, Riccarda Montenero inscena una produzione concreta di significati, in un dislocamento che ne definisce le dinamiche di appropriazione e dispersione. Il tempo si fa macchia illogica, accumulo di informazioni. Lo spazio si compone teatralmente, ridotto a simulazione di un non-luogo rivisitato: limite consunto, valvola di sfogo più che situazione di stallo. L’esausto sfiato della parola incarnata giunge ai sensi di un altrettanto spossato visitatore: il pubblico, con il suo fardello di preclusioni o con il suo carico di speranze. Monconi, uncini, protesi, tronchi di un corpo nomade preparano la zona di una futura permanenza, di una sistemazione stanziale. Questo particolare territorio occupa il tragitto di un’invasione barbarica. Dalla spiaggia di attracco clandestino – infestata da inesorabili presagi mortiferi – ai locali di stoccaggio, la traccia grammaticale delle migrazioni si condensa in ieratiche figure scultoree, in effigi sinuose e misteriose. Allacciata agli avvenimenti testimoniati dalla storia e dall’attualità, la tragedia rilascia un alone universale, distaccato, che evapora, fluttua e, finalmente, condensa. Questi risultati riportano agli esiti archetipici del viaggio: gli ostacoli del percorso, la preghiera, la sublimazione poetica, il passaggio denso del tempo, l’enigma di un orizzonte sconosciuto, l’abbraccio sensuale della conquista, la contaminazione e l’epidemia, le sbarre della prigionia…
La mostra personale “Approdare alla Deriva” di Riccarda Montenero trasforma lo spazio dell’esposizione in una vera e propria riflessione scenica sui concetti di territorio, nomadismo e permanenza…
Perché non assoggettarsi all’uso di forme condivise? Perché allontanarsi dalle consuetudini della rappresentazione? A richiedercelo è un’analisi approfondita della realtà, che ci porta a considerare il mondo come un insieme di relazioni sottoposte ad una complessa logica del divenire. La conseguente necessità, derivante da questa presa di coscienza, implica un superamento dell’arte come prodotto umano, al fine di ricreare un mutamento espressivo costante, ad
immagine della natura stessa. Inevitabile è tendere verso l’adeguamento a una regola sottostante e, al tempo stesso, a un’originaria modalità di produzione delle apparenze. Comprendiamo e produciamo significati nella consapevolezza di essere immersi in un complicato dinamismo, strutturante e modellante, che forgia tutto il vivente in gradazioni e tonalità. Abbandoniamo, allo stesso modo, l’idea di un dualismo incessante tra materia e sostanza, aspetto e contenuto: creatore e garante di soggetti e oggetti, essenze e coscienze. Percepiamo la totalità nell’incommensurabilità di incontri, affetti, sfumature, concatenazioni. Il tempo non rappresenta soltanto una misura: è differenza, variazione, riproduzione dell’uguale. Oltre a estensione, lo spazio è intensità, distanza, unione e separazione.
Il territorio, di conseguenza, non equivale esclusivamente ad ambiente, paesaggio, costruzione, ma soprattutto a vettore: condizione di entrata e uscita incessante, perenne funzione di incanalamento. Le coordinate sono semplicemente rappresentate dai segni di demarcazione prodotti dalle creature. Per il mondo animale, le indicazioni imprescindibili e i confini biologici risultano molto precisi e circoscritti. Gli uomini, operando una grande quantità di segni, tratteggiano lo spazio, senza definire limiti statici. L’artista, declinando il proprio operato secondo infinite possibilità, incide e imprime sempre il territorio con i colori e le forme, con le parole e le immagini: tali segnalazioni costituiscono un flusso che va dall’autore al mondo, e viceversa. In questo caso, l’esistenza si esprime nell’invenzione di segni, i quali, riproducendo i meccanismi della vita, marcano il territorio esplicitamente, ripiegandosi sensibilmente sulla loro stessa finalità: mise en abyme, circolo vizioso, mimetismo tautologico. Gli artisti sarebbero, in questo senso, equiparabili a bestie sovrumane, pachidermi in continuo spostamento, stormi migratori capaci di portare, lasciare oppure depositare un messaggio compiuto in modo inequivocabile e manifesto.
Con l’esposizione “Approdare alla Deriva”, Riccarda Montenero inscena una produzione concreta di significati, in un dislocamento che ne definisce le dinamiche di appropriazione e dispersione. Il tempo si fa macchia illogica, accumulo di informazioni. Lo spazio si compone teatralmente, ridotto a simulazione di un non-luogo rivisitato: limite consunto, valvola di sfogo più che situazione di stallo. L’esausto sfiato della parola incarnata giunge ai sensi di un altrettanto spossato visitatore: il pubblico, con il suo fardello di preclusioni o con il suo carico di speranze. Monconi, uncini, protesi, tronchi di un corpo nomade preparano la zona di una futura permanenza, di una sistemazione stanziale.
Questo particolare territorio occupa il tragitto di un’invasione barbarica. Dalla spiaggia di attracco clandestino – infestata da inesorabili presagi mortiferi – ai locali di stoccaggio, la traccia grammaticale delle migrazioni si condensa in ieratiche figure scultoree, in effigi sinuose e misteriose. Allacciata agli avvenimenti testimoniati dalla storia e dall’attualità, la tragedia rilascia un alone universale, distaccato, che evapora, fluttua e, finalmente, condensa. Questi risultati riportano agli esiti archetipici del viaggio: gli ostacoli del percorso, la preghiera, la sublimazione poetica, il passaggio denso del tempo, l’enigma di un orizzonte sconosciuto, l’abbraccio sensuale della conquista, la contaminazione e l’epidemia, le sbarre della prigionia…
Ivan Fassio