Pizzi Cannella. Galleria del vento
A cura di: Fabio Sargentini
(Vado e vengo senza posa nelle sale de l’Attico mentre aspetto il fotografo Simon. Mi acquieto infine su un divano. Sono emozionato, sto per varare una delle mostre più belle della mia carriera). Come si muovono indolenti le lunghe tende bianche davanti a me dato il debole vento! Ognuna reca impressa l’immagine di un vestito femminile per mano di Pizzi Cannella. Sono ipnotiche così animate, ti ispirano voli pindarici. Socchiudi gli occhi e diventano donne immaginarie che si esibiscono in una danza del ventre inventata. E’ bonaccia oggi, probabilmente si muovono troppo poco perché fotografate rendano il senso del vento.
(Questo rimugino mentre me ne sto sul divano davanti a una coppia di vestiti bianchi, essendo tutti gli altri sette neri. Non sono solo nella stanza, sono presenze vive le loro. Da quanto tempo me ne sto qui a seguirle con gli occhi? Una mezz’ora, almeno).
Guardo il movimento lento mai uguale dei vestiti dipinti e mi dico che è forse la prima volta che la pittura, non snaturando se stessa, si fa pienamente teatro. Del teatro assume, laddove ha sempre avuto funzione di statico decoro, il dinamismo dell’azione, lo sviluppo, l’improvvisazione. In questo momento, sul divano, sono a tutti gli effetti uno spettatore. Uno spettatore rapito da uno spettacolo in divenire. Si è mai vista una pittura cinetica? Questo deve avere pensato Pizzi Cannella quando gli ho proposto di mettere il suo segno inconfondibile al centro del progetto. Il suo assenso è stato subito entusiasta. E gli sono grato per l’umiltà con cui il suo ego ha accettato di stringere un patto di alleanza creativa con il mio. E’ raro che accada agli artisti, individualisti sommi.
(Ma quando arriva il fotografo?)
Era da tempo che mi frullava in mente l’idea della galleria del vento, mi pare che ci pensai tornando in nave qualche anno fa dalla Sicilia con Elsa. Si pensava inizialmente a opere immobili: quadri, sculture, oggetti, perfino tableau vivant, sul tema comune del vento. Però qualcosa non tornava. A me premeva porre l’accento sullo spazio ventoso in sé prima che sulle opere. Ci voleva una mostra col vento vero, come quello che ci scompigliava i capelli sul ponte della nave, ma a questa conclusione sono giunto soltanto di recente.
(Nel frattempo è arrivato il fotografo. I vestiti hanno subito trasalito come presentendo l’imminenza di un’entrata in scena).
C‘è abbastanza vento? gli domando. Lui scuote la testa perplesso. Anche nei prossimi giorni è prevista bonaccia, mi informa. Quando mi dice così capisco che bisogna rompere gli indugi, prendere noi l’iniziativa. Dico a Simon: aiutiamolo il vento, simuliamolo quel tanto che basta. E così dicendo afferro un lembo della tenda e scansandomi lo lascio cadere dall’alto. Lui velocissimo non si fa cogliere di sorpresa, scatta in rapida successione come una raffica con la sua Reflex digitale. Il risultato è splendido! Tra sapienza registica mia e destrezza fotografica sua realizziamo un’ottima messa in scena ventosa.
(E’ andato via il fotografo. I vestiti sono di nuovo tranquilli).
Ne approfitto per guardarli da vicino uno per uno e mi dico che Pizzi raramente ha sfoggiato una mano così lieve, ispirata. Si è dovuto inventare un procedimento pittorico nuovo, indiretto rispetto al suo solito, e questo gli ha prosciugato la pennellata materica. La texture tiene conto del tessuto trasparente, ne prevede gli effetti di luce e controluce, il dispiegarsi della gonna nell’aria e il suo ripiegarsi fino a sfiorare il pavimento.
(Spalanco le finestre de l’Attico e il vento spira, eccome! Sono passati due giorni, è primo pomeriggio, la luce diurna lascia trasparire attraverso i vestiti la città: la piazzetta del Paradiso, le insegne degli alberghi Lunetta e Sole, il vicolo dei Bovari fino alla Cancelleria… L’altra sera, quando scattammo le foto, era già buio fuori. Bisognerà completare il lavoro).
Oggi il vento detta legge. Scaraventa le tende fuori delle finestre, le trattiene a lungo, per poi rilasciarle ed esse rientrano gonfie, come incinte di lui. Adesso mi si rivela il senso ultimo di questa mostra. Essa evidenzia la soglia tra spazio esterno, il mondo reale, e spazio interno, la galleria-teatro dove quel mondo si trasfigura in arte. Nell’azione culturale e nel linguaggio artistico mi sono spesso trovato di fronte a soglie: porte, saracinesche, sipari. Ora anche finestre. Compiaciuto assisto allo spettacolo dei vestiti di Pizzi che sui cornicioni ballano indifferentemente il rock o il blues a seconda di come fischia o fischietta il vento.
(Soltanto ora mi rendo conto che a ciascuno dei vestiti il pittore ha dato il nome di un vento. Uno dei due bianchi, il più nuziale, l’ha chiamato Tramontana. Anche il vento, dunque, è femminile?).
A questo punto, caro Pizzi, l’identità muliebre che si cela tra le pieghe dei tuoi vestiti, parafrasando Flaubert, m’impone una buona volta di chiederti: Madame Bovary c’est toi?
Fabio Sargentini
(Questo rimugino mentre me ne sto sul divano davanti a una coppia di vestiti bianchi, essendo tutti gli altri sette neri. Non sono solo nella stanza, sono presenze vive le loro. Da quanto tempo me ne sto qui a seguirle con gli occhi? Una mezz’ora, almeno).
Guardo il movimento lento mai uguale dei vestiti dipinti e mi dico che è forse la prima volta che la pittura, non snaturando se stessa, si fa pienamente teatro. Del teatro assume, laddove ha sempre avuto funzione di statico decoro, il dinamismo dell’azione, lo sviluppo, l’improvvisazione. In questo momento, sul divano, sono a tutti gli effetti uno spettatore. Uno spettatore rapito da uno spettacolo in divenire. Si è mai vista una pittura cinetica? Questo deve avere pensato Pizzi Cannella quando gli ho proposto di mettere il suo segno inconfondibile al centro del progetto. Il suo assenso è stato subito entusiasta. E gli sono grato per l’umiltà con cui il suo ego ha accettato di stringere un patto di alleanza creativa con il mio. E’ raro che accada agli artisti, individualisti sommi.
(Ma quando arriva il fotografo?)
Era da tempo che mi frullava in mente l’idea della galleria del vento, mi pare che ci pensai tornando in nave qualche anno fa dalla Sicilia con Elsa. Si pensava inizialmente a opere immobili: quadri, sculture, oggetti, perfino tableau vivant, sul tema comune del vento. Però qualcosa non tornava. A me premeva porre l’accento sullo spazio ventoso in sé prima che sulle opere. Ci voleva una mostra col vento vero, come quello che ci scompigliava i capelli sul ponte della nave, ma a questa conclusione sono giunto soltanto di recente.
(Nel frattempo è arrivato il fotografo. I vestiti hanno subito trasalito come presentendo l’imminenza di un’entrata in scena).
C‘è abbastanza vento? gli domando. Lui scuote la testa perplesso. Anche nei prossimi giorni è prevista bonaccia, mi informa. Quando mi dice così capisco che bisogna rompere gli indugi, prendere noi l’iniziativa. Dico a Simon: aiutiamolo il vento, simuliamolo quel tanto che basta. E così dicendo afferro un lembo della tenda e scansandomi lo lascio cadere dall’alto. Lui velocissimo non si fa cogliere di sorpresa, scatta in rapida successione come una raffica con la sua Reflex digitale. Il risultato è splendido! Tra sapienza registica mia e destrezza fotografica sua realizziamo un’ottima messa in scena ventosa.
(E’ andato via il fotografo. I vestiti sono di nuovo tranquilli).
Ne approfitto per guardarli da vicino uno per uno e mi dico che Pizzi raramente ha sfoggiato una mano così lieve, ispirata. Si è dovuto inventare un procedimento pittorico nuovo, indiretto rispetto al suo solito, e questo gli ha prosciugato la pennellata materica. La texture tiene conto del tessuto trasparente, ne prevede gli effetti di luce e controluce, il dispiegarsi della gonna nell’aria e il suo ripiegarsi fino a sfiorare il pavimento.
(Spalanco le finestre de l’Attico e il vento spira, eccome! Sono passati due giorni, è primo pomeriggio, la luce diurna lascia trasparire attraverso i vestiti la città: la piazzetta del Paradiso, le insegne degli alberghi Lunetta e Sole, il vicolo dei Bovari fino alla Cancelleria… L’altra sera, quando scattammo le foto, era già buio fuori. Bisognerà completare il lavoro).
Oggi il vento detta legge. Scaraventa le tende fuori delle finestre, le trattiene a lungo, per poi rilasciarle ed esse rientrano gonfie, come incinte di lui. Adesso mi si rivela il senso ultimo di questa mostra. Essa evidenzia la soglia tra spazio esterno, il mondo reale, e spazio interno, la galleria-teatro dove quel mondo si trasfigura in arte. Nell’azione culturale e nel linguaggio artistico mi sono spesso trovato di fronte a soglie: porte, saracinesche, sipari. Ora anche finestre. Compiaciuto assisto allo spettacolo dei vestiti di Pizzi che sui cornicioni ballano indifferentemente il rock o il blues a seconda di come fischia o fischietta il vento.
(Soltanto ora mi rendo conto che a ciascuno dei vestiti il pittore ha dato il nome di un vento. Uno dei due bianchi, il più nuziale, l’ha chiamato Tramontana. Anche il vento, dunque, è femminile?).
A questo punto, caro Pizzi, l’identità muliebre che si cela tra le pieghe dei tuoi vestiti, parafrasando Flaubert, m’impone una buona volta di chiederti: Madame Bovary c’est toi?
Fabio Sargentini
Luoghi
www.fabiosargentini.it 06 6869846