Paolo Conti. Galvanizzati 1970-1973
A cura di: Valerio Dehò
La PoliArt Contemporary è lieta di presentare Galvanizzati 1970-1973, esposizione dedicata alle opere di Paolo Conti dei primi anni Settanta, a cura di Valerio Dehò. In collaborazione con l’Archivio Paolo Conti, la mostra è un’anteprima dell’uscita del primo volume del catalogo Ragionato previsto per l’inverno 2015-2016.
Tra il 1969 e i primi anni settanta, ai suoi inizi come artista, Paolo Conti ha l’intuizione giusta. Utilizzare gli scarti industriali, le parti in surplus o rifiutate degli ingranaggi, il negativo degli stampaggi di parti meccaniche per costruire un’utopia artistica basata sul riciclo dell’inutile e non funzionale, e sull’estetica del post industriale. In quegli anni non era facile lavorare ad un progetto di “inconscio tecnologico” , qualcosa di simile, ma nel campo della fotografia l’aveva pensata e realizzata Franco Vaccari proprio nel 1972. Negli stessi anni Conti affronta la costruzione dell’arte a partire dal quell’ hardware che non è più utile o è un avanzo di un procedimento. Soprattutto non è interessato a creare macchine più o meno celibi alla Tinguely, ma a costruire un universo in cui il dato industriale, la forma e il colore, la durezza della composizione, producessero un’estetica del riscatto pittorico.
Come in Burri, che aveva aperto la strada alla materia che viene modificata e diventa “parlante” in nome e per conto della pittura, ormai morta come linguaggio, Paolo Conti opera nell’incertezza degli esiti, nella rarefazione formale, nell’insufficienza dell’arte in quegli anni a rapportarsi con la storia. Lui non opera una cesura netta, ma adotta il paradigma pittorico, l’idea del comporre e giustapporre segno/forma/colore, per dare spazio al fantasma del mondo della produzione.
Nel fare questo parte dal monocromo , dall’esplicitazione dei materiali e del processo costruttivo, non rinunciando però nei titoli a proporre metafore di un mondo concreto, vicino, non semplice da capire e accettare. Parte da un minimalismo meccanico che esalta gli oggetti originali e li compone secondo una sintassi visiva che a loro non apparteneva. O meglio, che ancora non gli apparteneva. In fondo ha sempre cercato di trovare un’identità al mondo moderno. La sua idea è stata quella di comporre con il non visto del mondo industriale il visto e il vedibile dell’arte. La sua è una ricostruzione a partire dai dettagli, fantomatici e inconsci, della meccanica, qualcosa che serva all’uomo per comprendere e comprendersi. AI suoi inizi aveva già chiara la sua strada e la sua poetica, in modo così forte e convinto che le trasformazioni dell’idea iniziale sono state altrettante conferme della stessa. Per questo da allora ha elaborato il proprio linguaggio rimanendo fedele al suo assunto inziale.
Tra il 1969 e i primi anni settanta, ai suoi inizi come artista, Paolo Conti ha l’intuizione giusta. Utilizzare gli scarti industriali, le parti in surplus o rifiutate degli ingranaggi, il negativo degli stampaggi di parti meccaniche per costruire un’utopia artistica basata sul riciclo dell’inutile e non funzionale, e sull’estetica del post industriale. In quegli anni non era facile lavorare ad un progetto di “inconscio tecnologico” , qualcosa di simile, ma nel campo della fotografia l’aveva pensata e realizzata Franco Vaccari proprio nel 1972. Negli stessi anni Conti affronta la costruzione dell’arte a partire dal quell’ hardware che non è più utile o è un avanzo di un procedimento. Soprattutto non è interessato a creare macchine più o meno celibi alla Tinguely, ma a costruire un universo in cui il dato industriale, la forma e il colore, la durezza della composizione, producessero un’estetica del riscatto pittorico.
Come in Burri, che aveva aperto la strada alla materia che viene modificata e diventa “parlante” in nome e per conto della pittura, ormai morta come linguaggio, Paolo Conti opera nell’incertezza degli esiti, nella rarefazione formale, nell’insufficienza dell’arte in quegli anni a rapportarsi con la storia. Lui non opera una cesura netta, ma adotta il paradigma pittorico, l’idea del comporre e giustapporre segno/forma/colore, per dare spazio al fantasma del mondo della produzione.
Nel fare questo parte dal monocromo , dall’esplicitazione dei materiali e del processo costruttivo, non rinunciando però nei titoli a proporre metafore di un mondo concreto, vicino, non semplice da capire e accettare. Parte da un minimalismo meccanico che esalta gli oggetti originali e li compone secondo una sintassi visiva che a loro non apparteneva. O meglio, che ancora non gli apparteneva. In fondo ha sempre cercato di trovare un’identità al mondo moderno. La sua idea è stata quella di comporre con il non visto del mondo industriale il visto e il vedibile dell’arte. La sua è una ricostruzione a partire dai dettagli, fantomatici e inconsci, della meccanica, qualcosa che serva all’uomo per comprendere e comprendersi. AI suoi inizi aveva già chiara la sua strada e la sua poetica, in modo così forte e convinto che le trasformazioni dell’idea iniziale sono state altrettante conferme della stessa. Per questo da allora ha elaborato il proprio linguaggio rimanendo fedele al suo assunto inziale.
Luoghi
www.galleriapoliart.com 02 70636109
orario: mer, gio, ven 16.30-19, sab 10.30-13 ingresso libero