Nini' Elia. Primo stato di avanzamento lavori 2012-2014
A cura di: Lorenzo Madaro e Mina Tarantino
Ninì Elia, architetto originario di Squinzano (LE), vive a Lecce, ove condivide l’impegno professionale con la ricerca artistica. Dal 2012 è direttore del MUST, Museo Storico della Città di Lecce.
Scrive in catalogo il critico d’arte Lorenzo Madaro: «È partito dall’informale, attraverso una gestualità che guardava alla storia dell’arte europea e americana del secondo Novecento. Tra screziature cromatiche, tensioni estreme e sofisticate nei confronti di un luogo ipotetico che risponde al nome di “segno” (riecheggiamenti premeditati, tra Capogrossi e Vedova, sempre scaldati da una luce mediterranea, anzi salentina, per essere più precisi). Ma non poteva di certo rinnegare la sua cultura di provenienza, ovvero l’architettura – Elia ha studiato a Venezia, in quell’ambiente plurale che è lo IUAV –, gli sguardi e le tangenze con il confine fisico e intellettivo dell’opera, la materia, la relazione terminale con gli spazi e soprattutto con lo spettatore, che è invitato a analizzarla nella sua sensuale tridimensionalità. Così Ninì Elia negli ultimi due anni è giunto spesso a quella che potremmo talvolta far rientrare senza mezzi termini nella categoria fluida dell’installazione. Non si tratta difatti di scultura nel senso tradizionale. Nel concepimento di questi “volumi eccentrici” presentati a Monopoli, d’altronde, è molto chiaro il punto di partenza, ovvero la conformazione di una tridimensionalità ben più strutturata, di una forma che si fa spazio vero e proprio, potenzialmente percorribile. Sono come progetti di edifici immaginari, luoghi dell’immaginazione in cui ritrovarsi a desiderare e a vivere. Questo non dovrebbe farci distogliere l’attenzione dalla natura schiettamente materica di questi elementi, che sono frutto di un lavoro manuale sulle lamiere, di accostamenti ricercati anche nell’apparente casualità, di assemblaggi dei brandelli di ferro con altri materiali, dal legno al tessuto, dal colore che si fa struttura, alla combustione e, ancora una volta, al segno impetuoso. I morsetti, da elementi precari diventano parte integrante e durevole dell’opera, si confondono sui piani tridimensionali dello spazio, compromettono la sua stessa spazialità. Ma non solo gli unici elementi apparentemente estranei all’opera.
È irruento, talvolta, il lavoro di Elia. Questo accade in particolare quando la materia è penetrata da una teoria di chiodi, che come lame ritmano la superficie, la trascendono, la modificano, ne cambiano le conformazioni volumetriche. In altri casi predilige un profilo minimalista, quando l’opera è frutto esclusivamente di una modifica manuale e spontanea della lamiera arrugginita.
Nella mostra di Monopoli, l’ambiente ad aula unica di Spaziosei è stato strutturato come un’installazione unitaria composta anche dall’accostamento di opere bidimensionali. Sono i suoi Coldscapes, paesaggi di una memoria recondita, in cui la lamiera è stata abrasa e ossidata per far emergere venature e squarci talvolta sorprendenti, che riecheggiano, appunto, brani di una natura congetturata, vere e proprie ipotesi immaginarie di spazio. Si conclude così, ma solo apparentemente, un percorso senza sosta, che è poi quello dell’arte. Non si tratta di evoluzione, poiché l’arte include nel suo stesso scorrere prevede al suo interno un processo un non evolutivo ma di trascendenza, mutazione e cammino verso quello che potremmo rapidamente individuare con “altro”».
Scrive in catalogo il critico d’arte Lorenzo Madaro: «È partito dall’informale, attraverso una gestualità che guardava alla storia dell’arte europea e americana del secondo Novecento. Tra screziature cromatiche, tensioni estreme e sofisticate nei confronti di un luogo ipotetico che risponde al nome di “segno” (riecheggiamenti premeditati, tra Capogrossi e Vedova, sempre scaldati da una luce mediterranea, anzi salentina, per essere più precisi). Ma non poteva di certo rinnegare la sua cultura di provenienza, ovvero l’architettura – Elia ha studiato a Venezia, in quell’ambiente plurale che è lo IUAV –, gli sguardi e le tangenze con il confine fisico e intellettivo dell’opera, la materia, la relazione terminale con gli spazi e soprattutto con lo spettatore, che è invitato a analizzarla nella sua sensuale tridimensionalità. Così Ninì Elia negli ultimi due anni è giunto spesso a quella che potremmo talvolta far rientrare senza mezzi termini nella categoria fluida dell’installazione. Non si tratta difatti di scultura nel senso tradizionale. Nel concepimento di questi “volumi eccentrici” presentati a Monopoli, d’altronde, è molto chiaro il punto di partenza, ovvero la conformazione di una tridimensionalità ben più strutturata, di una forma che si fa spazio vero e proprio, potenzialmente percorribile. Sono come progetti di edifici immaginari, luoghi dell’immaginazione in cui ritrovarsi a desiderare e a vivere. Questo non dovrebbe farci distogliere l’attenzione dalla natura schiettamente materica di questi elementi, che sono frutto di un lavoro manuale sulle lamiere, di accostamenti ricercati anche nell’apparente casualità, di assemblaggi dei brandelli di ferro con altri materiali, dal legno al tessuto, dal colore che si fa struttura, alla combustione e, ancora una volta, al segno impetuoso. I morsetti, da elementi precari diventano parte integrante e durevole dell’opera, si confondono sui piani tridimensionali dello spazio, compromettono la sua stessa spazialità. Ma non solo gli unici elementi apparentemente estranei all’opera.
È irruento, talvolta, il lavoro di Elia. Questo accade in particolare quando la materia è penetrata da una teoria di chiodi, che come lame ritmano la superficie, la trascendono, la modificano, ne cambiano le conformazioni volumetriche. In altri casi predilige un profilo minimalista, quando l’opera è frutto esclusivamente di una modifica manuale e spontanea della lamiera arrugginita.
Nella mostra di Monopoli, l’ambiente ad aula unica di Spaziosei è stato strutturato come un’installazione unitaria composta anche dall’accostamento di opere bidimensionali. Sono i suoi Coldscapes, paesaggi di una memoria recondita, in cui la lamiera è stata abrasa e ossidata per far emergere venature e squarci talvolta sorprendenti, che riecheggiano, appunto, brani di una natura congetturata, vere e proprie ipotesi immaginarie di spazio. Si conclude così, ma solo apparentemente, un percorso senza sosta, che è poi quello dell’arte. Non si tratta di evoluzione, poiché l’arte include nel suo stesso scorrere prevede al suo interno un processo un non evolutivo ma di trascendenza, mutazione e cammino verso quello che potremmo rapidamente individuare con “altro”».
Luoghi
080.802903 339.6162515
orario:da martedì a sabato ore 17.30 - 20.30