Michele Lombardelli "Sequenza dissonante"
A cura di: Alfredo Sigolo
Per prima cosa vorrei dire del grigio o della localizzazione. Il filosofo Alain Badiou ha ben illustrato gli spasmodici tentativi riduzionisti di Samuel Beckett di spogliare la prosa di ogni particolarità descrittiva, di fissare la scena dell’essere e di determinarne la luminosità, “cogliendola nella neutralità di ciò che non è né notte né luce”.
Sulla soglia, laddove la luce non è ancora separata dall’oscurità, nell’indistinto non-colore, prima che accada qualcosa, esattamente lì, nella grigia penombra, si colloca il luogo dell’essere che precede la piena conoscenza, il “mero minimo”, l’inafferrabile innesco ontologico.
Ora, questo spazio vuoto, predisposto all’attesa, quale atto segnico o verbale può accogliere per non snaturarsi nella sua essenza, determinando un cambiamento di stato?
Proprio per la sua natura liminare (da limen -mĭnis “soglia”) lo spazio grigio, così come è stato precedentemente descritto, tende a contrarsi senza però coagulare, restando permeabile e in uno stato pressoché gassoso, incapace di sostenere e fissare il segno.
Nella ricerca di Lombardelli non è difficile riconoscere i tratti della poetica beckettiana, specie nei ricorrenti aspetti di indefinitezza e indeterminatezza che la connotano.
Nei suoi ultimi lavori pittorici forme geometriche elementari sembrano galleggiare in uno spazio immateriale e cedevole, adagiate su una superficie uniforme e vellutata, resa tale da strati di tempera stesa sulla tela di lino.
Insignificanti o, per meglio dire, prive di significazione, le forme non hanno alcuna consequenzialità né si declinano in alcun paradigma, fluttuano ai margini della percezione in uno stato inconcludente e frammentario. Esse costituiscono l’approdo delle riflessioni sul segno svolte da Lombardelli che, muovendo da immagini e suggestioni appuntate nel corso del tempo, è pervenuto agli esiti in mostra tramite un processo di sintesi e di impoverimento semantico.
Si potrebbe dire che per predisporsi in modo corretto alla lettura del ciclo di opere in mostra è opportuno considerarle frutto di una stratificazione al contrario, ovvero di una sorta di esfoliazione progressiva dell’immaginario dell’artista. Perché – ed ecco che Beckett si ripresenta - l’enunciazione sta nel “non detto”, nella volontà espressiva che non trova compimento, che si ferma sulla soglia senza varcarla.
Le grandi tele di Lombardelli non costituiscono una progressione o una successione armonica ma una sequenza dissonante: un balbettio solipsistico che idealmente si propaga fino alla scultura in ceramica nera che chiude idealmente la mostra, muto segno dove il riverbero si infrange.
Sulla soglia, laddove la luce non è ancora separata dall’oscurità, nell’indistinto non-colore, prima che accada qualcosa, esattamente lì, nella grigia penombra, si colloca il luogo dell’essere che precede la piena conoscenza, il “mero minimo”, l’inafferrabile innesco ontologico.
Ora, questo spazio vuoto, predisposto all’attesa, quale atto segnico o verbale può accogliere per non snaturarsi nella sua essenza, determinando un cambiamento di stato?
Proprio per la sua natura liminare (da limen -mĭnis “soglia”) lo spazio grigio, così come è stato precedentemente descritto, tende a contrarsi senza però coagulare, restando permeabile e in uno stato pressoché gassoso, incapace di sostenere e fissare il segno.
Nella ricerca di Lombardelli non è difficile riconoscere i tratti della poetica beckettiana, specie nei ricorrenti aspetti di indefinitezza e indeterminatezza che la connotano.
Nei suoi ultimi lavori pittorici forme geometriche elementari sembrano galleggiare in uno spazio immateriale e cedevole, adagiate su una superficie uniforme e vellutata, resa tale da strati di tempera stesa sulla tela di lino.
Insignificanti o, per meglio dire, prive di significazione, le forme non hanno alcuna consequenzialità né si declinano in alcun paradigma, fluttuano ai margini della percezione in uno stato inconcludente e frammentario. Esse costituiscono l’approdo delle riflessioni sul segno svolte da Lombardelli che, muovendo da immagini e suggestioni appuntate nel corso del tempo, è pervenuto agli esiti in mostra tramite un processo di sintesi e di impoverimento semantico.
Si potrebbe dire che per predisporsi in modo corretto alla lettura del ciclo di opere in mostra è opportuno considerarle frutto di una stratificazione al contrario, ovvero di una sorta di esfoliazione progressiva dell’immaginario dell’artista. Perché – ed ecco che Beckett si ripresenta - l’enunciazione sta nel “non detto”, nella volontà espressiva che non trova compimento, che si ferma sulla soglia senza varcarla.
Le grandi tele di Lombardelli non costituiscono una progressione o una successione armonica ma una sequenza dissonante: un balbettio solipsistico che idealmente si propaga fino alla scultura in ceramica nera che chiude idealmente la mostra, muto segno dove il riverbero si infrange.
Luoghi
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contact: Dario Bonetta - orari: giovedì - sabato 15/19