Marina Buratti. Mondi Intermedi
A cura di: Maria Rosa Pividori
I mondi intermedi a cui alludono le opere, diverse per slittamenti concettuali e stilistici, che Marina Buratti presenta in mostra nello spazio della Dieci!2 è il tema sotteso che le collega nella complessa ricerca di una visione, che affonda nel proprio vissuto e nel modo di pensare e fare arte che si amplia traslando da valenza estetica a una vera e propria Weltanschauung. E’ questo l’unico modo in cui l’arte può essere pensata come istanza salvifica, o può ripercorre le vie del sacro o essere letta in una chiave freudiana e una modalità con cui è anche possibile elaborare i traumi. Questioni tutte che attraversano il Novecento a cominciare dalle avanguardie e si ripropongono ora in nuovi termini.
E’ per questo aspetto doppio che le sue immagini richiamano e trattengono lo sguardo e insieme inquietano chi le guarda, come ci avviene quando l’identità speculare o quella di un ritratto ci sorprende o quando l’immagine fotografica ci lascia senza parola, vietandoci l’accesso con il suo silenzio, per la distanza da ogni sintassi per la presenza muta di un evento non codificato. Si soffermano infatti, restando in bilico in una sorta di terra di mezzo o di terzo spazio dallo statuto incerto, sulla soglia della transizione, dei passaggi esistenziali e temporali. E utilizzano la compresenza degli opposti tra apparire e svanire, tra presenza e assenza, tra vitalità e disfacimento, tra quiete e azione. A cogliere quello che appare per un attimo o a richiamare, velandole allo sguardo e con la distorsione, il carattere effimero delle cose.
Apre la mostra una tavola, più che una mappa, in cui l’artista condensa tramite simboli la sua complessa visione. In essa dominano il seme, il germinare, i misteri della terra e della luce, una visione in cui tutto è animato o pervaso d’anima: una summa che racchiude il tesoro di oggetti votivi e insieme il tesoro di figure disposte come in una scacchiera. E’ una chiave di lettura dei simboli che troviamo nelle serie di opere presentate in mostra, che si tratti dei disegni a china sulle stampe fotografiche della serie Saelde, o dei colori che strutturano la serie delle pitture dei Landscapes, dei Dialoghi, delle Presenze, delle Dimore.
Nelle opere della serie Saelde (evoluzione),le immagini del figlio, fotografato di fronte o disteso e immerso nel sonno, sono sfocate, diafane, trasfigurate, rese fluide, deformate. E’ sul volto che si concentra l’immagine e il retino azzurro che ulteriormente lo vela e lo vivifica. Intorno al corpo si dispongo piccole icone di ulivi quando non nascono direttamente dal suo stesso corpo o dal sogno in cui è immerso.
Ora, il volto luogo dello sguardo, dell’esporsi e del ritrarsi, del tempo che si iscrive sulla pelle, è una sorta di geroglifico nelle cui tracce è possibile scoprire i tratti di un volto. E dato che è emblema del visivo, il viso si dà allo sguardo e in esso vive, è anzitutto visibilità dell’identità. Così, per quanto si cerchi un suo dire altro, la sua potenza evocativa sta nell’atto del vedere ed è nella sua figuratività e raffiguratività che si dà il riconoscere e il somigliare, la faccia che ci identifica. Ma il volto è anche ciò che può, per Lévinas, esprimere la precarietà della vita, la nudità dell’altro, ai limiti della vita stessa, quindi l’immagine che tutti noi siamo e che ci rende eguali. E’ in questi termini che leggo le immagini del figlio diafane e velate, a impedirci uno sguardo diretto: immagini ben diverse da quelle dei visi luminosi che ci offrono i media e le nuove tecnologie del visibile. Tanto più che intorno al velare c’è sempre una verità che si accampa e si fa intravvedere, rimandandoci al senso antico di una verità che è insieme svelare e nascondere: ché questo è aletheia.
Anche le opere di pittura di Marina Buratti si contrassegnano per la tensione che si istituisce tra figura e dissoluzione dell’immagine. Le diverse tecniche, l’olio, l’acquarello, l’oil bar, la tempera sono usate in modo da rispondere alle diverse istanze che si tratti di delicate velature e trasparenze, di esplosioni di colori tracciati con rapida gestualità esecutiva su fondi bianchi in cui i colori sembrano galleggiare in spazi indistinti spalancati sul nulla o sono tesi a immaginare e instaurare dialoghi: modi diversi di esprimere le emozioni e di rapportarsi al mondo e alle cose, o a ciò che di essi resta, o di evocarle, ma sempre comunque espressioni tutti di vita, della luce che anima l’esistenza o quelle delle cose. E’ di se stessa, di una sua crescita o rinascita, mi pare, che Marina Buratti parla attraverso i colori.
Mi viene allora in mente che narrandoci di Filoteo, di colui che inventò il verbo fotografare, Didi-Huberman, ce lo descrive come un uomo che desiderava solo vivere immerso nella luce e inspirarne l’anima. Così, dopo un’immersione battesimale in una grande vasca, ne uscì con la certezza di essere stato rivelato per ciò che era di più essenziale: l’essere-secondo- l’immagine come se questo fosse il senso di tutta la sua vita. Non per un piacere per le immagini ma per quello di <>.
Eleonora Fiorani
E’ per questo aspetto doppio che le sue immagini richiamano e trattengono lo sguardo e insieme inquietano chi le guarda, come ci avviene quando l’identità speculare o quella di un ritratto ci sorprende o quando l’immagine fotografica ci lascia senza parola, vietandoci l’accesso con il suo silenzio, per la distanza da ogni sintassi per la presenza muta di un evento non codificato. Si soffermano infatti, restando in bilico in una sorta di terra di mezzo o di terzo spazio dallo statuto incerto, sulla soglia della transizione, dei passaggi esistenziali e temporali. E utilizzano la compresenza degli opposti tra apparire e svanire, tra presenza e assenza, tra vitalità e disfacimento, tra quiete e azione. A cogliere quello che appare per un attimo o a richiamare, velandole allo sguardo e con la distorsione, il carattere effimero delle cose.
Apre la mostra una tavola, più che una mappa, in cui l’artista condensa tramite simboli la sua complessa visione. In essa dominano il seme, il germinare, i misteri della terra e della luce, una visione in cui tutto è animato o pervaso d’anima: una summa che racchiude il tesoro di oggetti votivi e insieme il tesoro di figure disposte come in una scacchiera. E’ una chiave di lettura dei simboli che troviamo nelle serie di opere presentate in mostra, che si tratti dei disegni a china sulle stampe fotografiche della serie Saelde, o dei colori che strutturano la serie delle pitture dei Landscapes, dei Dialoghi, delle Presenze, delle Dimore.
Nelle opere della serie Saelde (evoluzione),le immagini del figlio, fotografato di fronte o disteso e immerso nel sonno, sono sfocate, diafane, trasfigurate, rese fluide, deformate. E’ sul volto che si concentra l’immagine e il retino azzurro che ulteriormente lo vela e lo vivifica. Intorno al corpo si dispongo piccole icone di ulivi quando non nascono direttamente dal suo stesso corpo o dal sogno in cui è immerso.
Ora, il volto luogo dello sguardo, dell’esporsi e del ritrarsi, del tempo che si iscrive sulla pelle, è una sorta di geroglifico nelle cui tracce è possibile scoprire i tratti di un volto. E dato che è emblema del visivo, il viso si dà allo sguardo e in esso vive, è anzitutto visibilità dell’identità. Così, per quanto si cerchi un suo dire altro, la sua potenza evocativa sta nell’atto del vedere ed è nella sua figuratività e raffiguratività che si dà il riconoscere e il somigliare, la faccia che ci identifica. Ma il volto è anche ciò che può, per Lévinas, esprimere la precarietà della vita, la nudità dell’altro, ai limiti della vita stessa, quindi l’immagine che tutti noi siamo e che ci rende eguali. E’ in questi termini che leggo le immagini del figlio diafane e velate, a impedirci uno sguardo diretto: immagini ben diverse da quelle dei visi luminosi che ci offrono i media e le nuove tecnologie del visibile. Tanto più che intorno al velare c’è sempre una verità che si accampa e si fa intravvedere, rimandandoci al senso antico di una verità che è insieme svelare e nascondere: ché questo è aletheia.
Anche le opere di pittura di Marina Buratti si contrassegnano per la tensione che si istituisce tra figura e dissoluzione dell’immagine. Le diverse tecniche, l’olio, l’acquarello, l’oil bar, la tempera sono usate in modo da rispondere alle diverse istanze che si tratti di delicate velature e trasparenze, di esplosioni di colori tracciati con rapida gestualità esecutiva su fondi bianchi in cui i colori sembrano galleggiare in spazi indistinti spalancati sul nulla o sono tesi a immaginare e instaurare dialoghi: modi diversi di esprimere le emozioni e di rapportarsi al mondo e alle cose, o a ciò che di essi resta, o di evocarle, ma sempre comunque espressioni tutti di vita, della luce che anima l’esistenza o quelle delle cose. E’ di se stessa, di una sua crescita o rinascita, mi pare, che Marina Buratti parla attraverso i colori.
Mi viene allora in mente che narrandoci di Filoteo, di colui che inventò il verbo fotografare, Didi-Huberman, ce lo descrive come un uomo che desiderava solo vivere immerso nella luce e inspirarne l’anima. Così, dopo un’immersione battesimale in una grande vasca, ne uscì con la certezza di essere stato rivelato per ciò che era di più essenziale: l’essere-secondo- l’immagine come se questo fosse il senso di tutta la sua vita. Non per un piacere per le immagini ma per quello di <>.
Eleonora Fiorani
Luoghi
www.diecipuntodue.it 02 58306053
orario: mar-ven 15.30-19 - passo carraio