Mariangela De Maria. La pelle della pittura
A cura di: Testo di Luca Pietro Nicoletti
La pelle della pittura.
Tappe per una lettura del percorso di Mariangela De Maria
Luca Pietro Nicoletti
La ricerca artistica di Mariangela Del Maria nasce e trova alimento nella pratica del disegno: è infatti attraverso l’inchiostro e la grafica che, nel corso degli anni Novanta, dopo aver abbandonato per decenni la ricerca pittorica, ritorna gradualmente all’esercizio diretto delle arti visive. Aveva fatto alcune esperienze artistiche, fra cui una personale nel 1965 presso l’associazione allievi ed ex allievi dell’Istituto Solferino di via Quintino Sella, a Milano, presentata da Giorgio Kaisserlian e la partecipazione a una delegazione di artisti invitati al Cremlino per il Primo incontro della pittura italiana con l’Unione Sovietica, sempre nel 1965, quando attraversare quella frontiera era una questione tutt’altro che semplice. Un suo quadro, da allora, è rimasto là, e andrebbe forse rintracciato per capire qualcosa del suo lavoro di quel periodo. Una stagione in cui partecipa ai premi più importanti del momento, dal Premio Ramazzotti (nel 1964 e nel 1965) al Premio San Fedele (1965). Fa impressione, leggendo quanto scrisse Kaisserlian presentando quella personale, quanto le sue affermazioni andrebbero bene anche per la stagione più recente di Mariangela De Maria dopo il 1990, e merita rileggerle pur cercando di trattenersi dalla tentazione di applicare quelle frasi a dipinti che il critico, per ragioni di anagrafe, non può aver visto. Dopo aver chiarito che il disegno, per lei, serviva non come promemoria di cose viste ma come strumento di indagine per una ricerca in fieri, osservava infatti che dopo alcune ricerche iniziali di tendenza postcubista, «Mariangela è giunta ad una esibizione di strutture libere plastiche, che si affrontano nello spazio compositivo che è loro offerto, e si accordano in un seguito di ritmi meditati e complessi. Ci pare di intravedere un’ansia creativa tutta orientata verso la definizione di uno spazio autonomo. Ed ecco che in questo spazio che già affiora, gli scontri, i contrasti incominciano ad assumere un volto, il discorso prende un piglio narrativo: siamo sulle vie di una nuova figurazione».
Il testo si chiudeva poi con un messaggio augurale, con l’auspicio che Mariangela portasse avanti quella ricerca fino ad esiti maturi.
Ma nel lungo intervallo che sarebbe seguito Mariangela aveva fatto tutt’altro: aveva dedicato molte energie all’insegnamento e uno spirito appassionato l’aveva portata a consacrarsi al flamenco.
Eppure, quando finalmente si deciderà a riprendere in mano il mestiere pittorico, indugiando a lungo sulla carta prima di decidersi al salto sulla superficie della tela, sembra che il discorso riprenda da dove si era interrotto. Pur non avendo praticato a lungo, non aveva perso la mano, né si era dimenticata quanto aveva appreso negli anni del liceo e di Scenografia all’Accademia di Brera, in quel tirocinio che le aveva dato tanta facilità di tecnica e di improvvisazione grafica.
Lo si vede chiaramente nei primi fogli esposti al Circolo Culturale Bertold Brecht nel 1999, accompagnati da una breve presentazione di Alberto Veca che parla di quei disegni e quelle chine come di un “taccuino di viaggio”. In effetti, Mariangela ha cominciato a disegnare su grandi fogli di carta luoghi ben familiari per lunga frequentazione come i boschi e soprattutto le montagne della Val d’Aosta, oppure schizzi di avifauna da cui si capisce che il suo sguardo è proiettato più avanti. Sono fogli ancora completamente figurativi, tanto da far pensare a Veca che Mariangela avesse fatto dei “ritratti” di luoghi secondo le convenzioni tipiche della “veduta”, recuperandone i codici rappresentativi per “quinte” che definiscono la distanza del punto di vista dell’osservatore e i piani con cui il paesaggio si scala in profondità, come una scenografia teatrale. Nel suo caso, poi, si trattava di una rappresentazione “sospesa”, attestata a mezza altezza, in un incerto punto di stazione.
Aveva ragione Rachele Ferrario, presentando nel 2001 una mostra di disegni scalati fra il 1993 e il 2000 (Milano, Spazio Bocca in Galleria, 7-25 marzo 2001) a dire che queste opere mostrano una grande “pienezza di vita” e che «la necessità fisica di riempire e vivere lo spazio è racchiusa tra le pieghe del chiaroscuro, che rimandano indirettamente alla struttura geometrica della danza gitana e alla terza dimensione, che per l’artista è solo ed esclusivamente quella del racconto». Una sensazione che prelude a quella che Marilisa Di Giovanni, in un testo del 2016, registra ancora come la grande «gioia della raggiunta libertà espressiva» (Mariangela De Maria Mario Raciti, Pavia, Spazio per le arti contemporanee del Broletto, 5-20 marzo 2016).
Ci si deve soffermare su queste rappresentazioni di montagne, per affrontare poi il lavoro squisitamente informale di Mariangela, perché qui sono leggibili con maggiore chiarezza alcuni aspetti che sarà poi più semplice ritrovare anche nella più libera pittura di gesto. Perché il dato essenziale, meno immediatamente percepibile dal lavoro di gesto, è che anche una volta trascesa alla dimensione informale Mariangela De Maria non ha mai dimenticato le montagne della Val d’Aosta e non ha mai smesso sostanzialmente di raffigurarle, per quanto trasfigurate progressivamente per via di astrazione, con una pittura fatta di aggiunte e di cancellazioni, di tracciati quanto di colature e dilavamenti. È qui, infatti, che prende familiarità con un certo modo di condurre il segno, con quella che Veca aveva giustamente definito «una sorta di scrittura automatica che per sovrapposizioni definisce pesi e volumi». E non è di troppo aggiungere che, oltre a pesi e volumi, con quel tratteggio fitto e maniacale, ma anche irruente e vitale, reiterato e impulsivo, limitandosi al piano bidimensionale definiva i pieni e i vuoti compositivi, le aree e le forme da mettere a fuoco, come delle apparizioni che per affioramento prendono progressivamente consistenza rispetto a un vuoto candido e silente lasciato volutamente intonso.
In nuce, qui, a ben guardare si trova tutto, ed è l’artista stessa ad esserne consapevole osservando che il suo lavoro fa continuamente i conti con la memoria, come se il ricordo stesse evaporando per dare spazio al dato prettamente visivo e facendo un importante passo in avanti fino a diventare una ricerca aniconica in cui il colore non è più referente di un soggetto, ma è esso stesso soggetto: un “racconto”, quindi, fatto di pittura, o meglio ancora un racconto “di pittura” fatto non di traiettorie ma di apparizioni.
Il passaggio avviene nel giro di pochi anni, come chiarisce Claudio Cerritelli in un primo scritto su Mariangela, nel 2004, per una piccola pubblicazione in cui si gioca sul problema del “dentro” il paesaggio, secondo delle variazioni sul tema che cercano però di andare anche “oltre” quella raffigurazione (Claudio Cerritelli, Per Mariangela De Maria, in Mariangela De Maria. Il dentro e l’oltre, variazioni dal paesaggio, Milano, i frutti dell’albero, 2004). A quel punto, scrive Cerritelli, Mariangela è «uscita dal vincolo dei mezzi grafici per affrontare l’avventura del colore». Questo comporta, fa notare il critico, un cambiamento nei tempi di esecuzione e nel rapporto con la superficie, richiedendo un’immediatezza diversa dai tempi lenti e meditati del segno grafico, e soprattutto servendosi del colore come strumento astraente, complice anche un cambio di medium grafico dall’esattezza degli inchiostri all’effusione del pastello, in combutta con atmosferiche stesure di colore a pennello per preparare il fondo delle carte. Ma il passaggio non può essere solamente di tecnica: un cambio di mezzo espressivo comporta infatti un mutamento anche del linguaggio, e porta con sé un approfondimento dei contenuti metaforici che la pittura vuole veicolare. Infatti, scrive ancora Cerritelli, «nel rivolgersi alle fonti del colore, Mariangela dà voce alle memorie intime della natura e, nel contempo, si serve delle qualità espansive del pigmento per vivere un’idea di pittura come libertà visionaria, come ricerca del volto irreale del paesaggio». Il critico parla anzi di un vero e proprio «processo di erosione della luce che vela e rivela le cose come tramiti della fantasia, facendo della montagna un fantasma interiore e del mare una danza di sguardi sospesi nel vento».
Da qui in poi, la critica si sofferma a più riprese sul tema della luce. Si intitola proprio “questa sete di luce”… la mostra a cura di Claudio Rizzi di dipinti del biennio 2005-2006 esposti nello stesso 2006 presso la milanese galleria Scoglio di Quarto di Gabriella Brembati (15 marzo-9 aprile 2006), che da quel momento comincia a seguire con assiduità il suo lavoro e gioca anche un ruolo significativo nel segnare le tappe evolutive del suo percorso. Ma l’intuizione più suggestiva è di Sara Fontana, che nel 2008 intravede in queste tele la raffigurazione di una «sorta di sudario, di quinta architettonica costituita da un incontro di trasparenze, che scaturisce dalla ricerca della luce» (Mariangela De Maria, Monticello Conte Otto, Sante Moretto arte contemporanea, 24 maggio-30 giugno 2008).
Il punto fondamentale, infatti, è che la pittura di Mariangela De Maria è diventata una raffinatissima tessitura di pittura, approdata finalmente dalla carta alla tela, fatta di un lavoro lento di sovrapposizioni e dilavamenti e, soprattutto, di continue vibrazioni tonali. Non ha infatti scelto una pittura di segno, ma un lavoro sulla superficie della tela che non ha più preoccupazioni prospettiche e di fronte al quale non si pone più il problema di una collocazione virtuale del fruitore rispetto alla rappresentazione. Piuttosto, si pone invece una interazione dovuta alle aumentate dimensioni dei dipinti, che inducono a una immersione nel quadro. Il dipinto è una rappresentazione ariosa che chiede all’occhio una perlustrazione palmare della tela, che chiede di soffermarsi sul dettaglio prezioso di trame di pastello che si intrecciano sopra la pittura a tempera. Se ne deduce quindi che il segno non ha una funzione di immediato riconoscimento: non è un marchio grafico, né ha vocazione a somigliare a una nuova scrittura, bensì è traccia di colore che si sfarina, che sottolinea la trama della tela e con questa si fonde creando un effetto di fusione. Fra la conduzione liquida della tempera e il discorso del segno, infatti, c’è una continua iterazione e compenetrazione: la campitura non è mai soltanto uno sfondo su cui tracciare dei segni, ma è uno strumento per muovere la superficie di fondo, per dare una marezzatura su cui tornare con il segno e intervenire poi nuovamente con il colore, aggiungendo velature oppure abbassando il tono con semplici colature di acqua. Per questo motivo, non si può dire che la sua pittura abbia una dimensione narrativa, come è presente per esempio nella notazione asciutta -ma non priva di vibrazioni nella sua stagione matura- di Raciti, che è fatta per condurre lo sguardo dell’osservatore lungo una traiettoria in movimento, come a volerlo guidare nello sviluppo di un intreccio. Nei dipinti di De Maria, infatti, l’immagine è fissa e “racconta” se stessa dichiarandosi poco alla volta: solo attraverso un’osservazione prolungata, infatti, l’immagine si chiarisce sulla retina diventando un miraggio. Lo ha detto con parole efficaci Marco Goldin, che dedica al suo lavoro un testo di inclinazione lirica intitolato L’acqua e la notte in occasione di una nuova mostra allo Scoglio di Quarto (20 aprile-7 maggio 2010) osservando, oltre al fatto ormai appurato che i quadri recenti dipendono dai disegni di allora, che «quella griglia spirituale, e frutto dell’occhio interiore, agisce come una struttura esilissima, leggera, che pare sostenere il mondo adesso più acquatico della De Maria. Sono notturni, improvvise apparizioni della luce, sono fondi subacquei e strascichi d’alba».
Il repertorio di segni e di procedimenti esecutivi messi in atto in questi quadri, infatti, potevano essere per questo paragonati, scrive sempre Goldin, a «slabbrature, colate di una cenere umida rappresa, fuochi fatui, apparizioni, inganni, tracce, misteri. Tutto converge verso l’identità tra pittura e una non-immagine che si tramuta largamente in assenza, risuono, rintocco. Il colore si presta a una identificazione tra gesto trattenuto e riproducibilità di quella identificazione».
Va sulla stessa linea, nel 2016, Marilisa Di Giovanni, annotando che «la ricchezza cromatica nasce da una improvvisa immagine che va a costruirsi come un’idea che appare per un momento e scompare nella stessa memoria col sopraggiungere di nuove sollecitazioni», tanto che «la materia si scioglie nella percezione di un momento, è presenza suggerita che si traduce in assenza perdendosi nello spazio, ma lo spazio assorbito dal colore lucidamente visionario in cui ogni referenzi alitò è ampiamente superata».
C’è però un altro elemento che complica la questione, e che si affaccia con maggiore evidenza nella mostra del 2012, sempre allo Scoglio di Quarto, intitolata Sulla soglia del rosso (3-27 aprile 2012). Cerritelli parla di un viaggio «verso le fonti emotive del colore, dentro e oltre i confini del visibile che la pittura esplora sul crinale luminoso del paesaggio», tanto che «De Maria entra nel pensiero di ogni opera come nel profondo respiro della percezione». Ma nel momento in cui Mariangela ricorre con insistenza al rosso pompeiano come intonazione di fondo di quella serie, con quel colore intenso e insanguinato, pieno e opaco, balza in evidenza che il piano della tela è diventato una parete, e che allo sfondamento in profondità -per quanto evocato e non descritto, alluso e non dichiarato- si è sostituito un lavoro sulla superficie, o meglio una identificazione metaforica fra la tela e un intonaco antico, con la sua teoria di scrostature ed efflorescenze superficiali. Un giro per catacombe a Roma le aveva lasciato una forte impressione: su quei muri dipinti, che trasudavano umori e mostravano come dei “sudari” le ferite del tempo, ritrovava infatti qualcosa di congeniale al suo discorso espressivo.
A questo punto, la via maestra era quella di un’ulteriore e più radicale semplificazione, nel tentativo, se possibile, di rendere ancora più immateriale la rappresentazione. Il segno del pastello tende a sparire, resta talvolta come notazione di colore funzionale all’economia compositiva, ma è il colore e la stesura larga e liquida il protagonista assoluto della ricerca. È chiara, qui, l’intenzione ferma di superare l’informale e di proporre un proprio discorso più in sintonia con il tempo moderno, come se nell’artista si fosse instillato il timore di fare della pittura di gesto una “bella maniera”, cedendo a una piacevolezza epidermica.
Questo non vuol dire, tuttavia, rinnegare un percorso che mostra con inequivocabile evidenza le proprie radici e i propri presupposti culturali. Ed è inevitabile, del resto, che nel fare i conti con il presente un lavoro di questo genere mantenga un rapporto con un’avanguardia storicizzata approfondendo gli elementi di appartenenza a quella temperie. Del resto, di fronte al dipinto diventa ancora più leggibile il processo esecutivo, come un dispositivo trasparente che rende visibile la pittura nel suo farsi, nell’espandersi della velatura d’acqua che dilava il colore e fa riaffiorare la luce di fondo, nella tessitura di segni dati a pennello che si intrecciano come vent’anni prima per delineare la conformazione rocciosa delle montagne. Qui il ricordo dei crepacci delle Alpi è più che remoto, e quell’avvicendarsi di segni fitti e trasparenti somigliano più a un accordo musicale. Non si è ancora riflettuto abbastanza su quanto abbia contato per questa generazione di pittori la lezione del Divisionismo e quel passaggio dal Simbolismo al Futurismo fatto di intersezioni di tratti capaci di dare al dipinto una trama tutta di luce. Eppure, a fare da comune denominatore, questi pittori, a Milano, avevano seguito le lezioni di Guido Ballo che nelle aule di Brera (prima al liceo e poi all’Accademia) raccontava la fulminante ed esemplare vicenda pittorica di Umberto Boccioni. Sono convinto che quell’insegnamento, quell’insistenza su determinati episodi delle vicende novecentesche della pittura italiana non abbia lasciato indifferenti questi artisti: un proliferare di dipinti fatti di piccoli tratti giustapposti deve venire necessariamente da lì. Ne poteva rimanere estraneo soltanto chi non era passato dalle aule di Brera, o che in quelle aule aveva avuto altri esempi, sovente più arcaici, di “pittura di luce”. Nel caso di Mariangela quel motivo deve aver avuto un suo profondo significato, intensamente metabolizzato e restituito inconsciamente nel modo di strutturare i segni, le tracce e le trame. Ma di fronte alle sue tele, specialmente una volta svoltato il primo decennio del terzo millennio, a questa impressione se ne aggiunge un’altra, che si fa ancora più forte nel momento in cui la tela diventa una “parete” di colore. Viene infatti da ripensare a Leonardo da Vinci, ma a un Leonardo visto con gli occhi degli anni Cinquanta, quando aveva un significato molto particolare, di improvvisa attualità, la raccomandazione dell’antico maestro di guardare le muffe fiorite sugli intonaci, e dentro queste rivedere, con la propria immaginazione, le nuvole come macchie e la prima conformazione, embrionale ma carica di mistero, di un nuovo, trasfigurato paesaggio.
Tappe per una lettura del percorso di Mariangela De Maria
Luca Pietro Nicoletti
La ricerca artistica di Mariangela Del Maria nasce e trova alimento nella pratica del disegno: è infatti attraverso l’inchiostro e la grafica che, nel corso degli anni Novanta, dopo aver abbandonato per decenni la ricerca pittorica, ritorna gradualmente all’esercizio diretto delle arti visive. Aveva fatto alcune esperienze artistiche, fra cui una personale nel 1965 presso l’associazione allievi ed ex allievi dell’Istituto Solferino di via Quintino Sella, a Milano, presentata da Giorgio Kaisserlian e la partecipazione a una delegazione di artisti invitati al Cremlino per il Primo incontro della pittura italiana con l’Unione Sovietica, sempre nel 1965, quando attraversare quella frontiera era una questione tutt’altro che semplice. Un suo quadro, da allora, è rimasto là, e andrebbe forse rintracciato per capire qualcosa del suo lavoro di quel periodo. Una stagione in cui partecipa ai premi più importanti del momento, dal Premio Ramazzotti (nel 1964 e nel 1965) al Premio San Fedele (1965). Fa impressione, leggendo quanto scrisse Kaisserlian presentando quella personale, quanto le sue affermazioni andrebbero bene anche per la stagione più recente di Mariangela De Maria dopo il 1990, e merita rileggerle pur cercando di trattenersi dalla tentazione di applicare quelle frasi a dipinti che il critico, per ragioni di anagrafe, non può aver visto. Dopo aver chiarito che il disegno, per lei, serviva non come promemoria di cose viste ma come strumento di indagine per una ricerca in fieri, osservava infatti che dopo alcune ricerche iniziali di tendenza postcubista, «Mariangela è giunta ad una esibizione di strutture libere plastiche, che si affrontano nello spazio compositivo che è loro offerto, e si accordano in un seguito di ritmi meditati e complessi. Ci pare di intravedere un’ansia creativa tutta orientata verso la definizione di uno spazio autonomo. Ed ecco che in questo spazio che già affiora, gli scontri, i contrasti incominciano ad assumere un volto, il discorso prende un piglio narrativo: siamo sulle vie di una nuova figurazione».
Il testo si chiudeva poi con un messaggio augurale, con l’auspicio che Mariangela portasse avanti quella ricerca fino ad esiti maturi.
Ma nel lungo intervallo che sarebbe seguito Mariangela aveva fatto tutt’altro: aveva dedicato molte energie all’insegnamento e uno spirito appassionato l’aveva portata a consacrarsi al flamenco.
Eppure, quando finalmente si deciderà a riprendere in mano il mestiere pittorico, indugiando a lungo sulla carta prima di decidersi al salto sulla superficie della tela, sembra che il discorso riprenda da dove si era interrotto. Pur non avendo praticato a lungo, non aveva perso la mano, né si era dimenticata quanto aveva appreso negli anni del liceo e di Scenografia all’Accademia di Brera, in quel tirocinio che le aveva dato tanta facilità di tecnica e di improvvisazione grafica.
Lo si vede chiaramente nei primi fogli esposti al Circolo Culturale Bertold Brecht nel 1999, accompagnati da una breve presentazione di Alberto Veca che parla di quei disegni e quelle chine come di un “taccuino di viaggio”. In effetti, Mariangela ha cominciato a disegnare su grandi fogli di carta luoghi ben familiari per lunga frequentazione come i boschi e soprattutto le montagne della Val d’Aosta, oppure schizzi di avifauna da cui si capisce che il suo sguardo è proiettato più avanti. Sono fogli ancora completamente figurativi, tanto da far pensare a Veca che Mariangela avesse fatto dei “ritratti” di luoghi secondo le convenzioni tipiche della “veduta”, recuperandone i codici rappresentativi per “quinte” che definiscono la distanza del punto di vista dell’osservatore e i piani con cui il paesaggio si scala in profondità, come una scenografia teatrale. Nel suo caso, poi, si trattava di una rappresentazione “sospesa”, attestata a mezza altezza, in un incerto punto di stazione.
Aveva ragione Rachele Ferrario, presentando nel 2001 una mostra di disegni scalati fra il 1993 e il 2000 (Milano, Spazio Bocca in Galleria, 7-25 marzo 2001) a dire che queste opere mostrano una grande “pienezza di vita” e che «la necessità fisica di riempire e vivere lo spazio è racchiusa tra le pieghe del chiaroscuro, che rimandano indirettamente alla struttura geometrica della danza gitana e alla terza dimensione, che per l’artista è solo ed esclusivamente quella del racconto». Una sensazione che prelude a quella che Marilisa Di Giovanni, in un testo del 2016, registra ancora come la grande «gioia della raggiunta libertà espressiva» (Mariangela De Maria Mario Raciti, Pavia, Spazio per le arti contemporanee del Broletto, 5-20 marzo 2016).
Ci si deve soffermare su queste rappresentazioni di montagne, per affrontare poi il lavoro squisitamente informale di Mariangela, perché qui sono leggibili con maggiore chiarezza alcuni aspetti che sarà poi più semplice ritrovare anche nella più libera pittura di gesto. Perché il dato essenziale, meno immediatamente percepibile dal lavoro di gesto, è che anche una volta trascesa alla dimensione informale Mariangela De Maria non ha mai dimenticato le montagne della Val d’Aosta e non ha mai smesso sostanzialmente di raffigurarle, per quanto trasfigurate progressivamente per via di astrazione, con una pittura fatta di aggiunte e di cancellazioni, di tracciati quanto di colature e dilavamenti. È qui, infatti, che prende familiarità con un certo modo di condurre il segno, con quella che Veca aveva giustamente definito «una sorta di scrittura automatica che per sovrapposizioni definisce pesi e volumi». E non è di troppo aggiungere che, oltre a pesi e volumi, con quel tratteggio fitto e maniacale, ma anche irruente e vitale, reiterato e impulsivo, limitandosi al piano bidimensionale definiva i pieni e i vuoti compositivi, le aree e le forme da mettere a fuoco, come delle apparizioni che per affioramento prendono progressivamente consistenza rispetto a un vuoto candido e silente lasciato volutamente intonso.
In nuce, qui, a ben guardare si trova tutto, ed è l’artista stessa ad esserne consapevole osservando che il suo lavoro fa continuamente i conti con la memoria, come se il ricordo stesse evaporando per dare spazio al dato prettamente visivo e facendo un importante passo in avanti fino a diventare una ricerca aniconica in cui il colore non è più referente di un soggetto, ma è esso stesso soggetto: un “racconto”, quindi, fatto di pittura, o meglio ancora un racconto “di pittura” fatto non di traiettorie ma di apparizioni.
Il passaggio avviene nel giro di pochi anni, come chiarisce Claudio Cerritelli in un primo scritto su Mariangela, nel 2004, per una piccola pubblicazione in cui si gioca sul problema del “dentro” il paesaggio, secondo delle variazioni sul tema che cercano però di andare anche “oltre” quella raffigurazione (Claudio Cerritelli, Per Mariangela De Maria, in Mariangela De Maria. Il dentro e l’oltre, variazioni dal paesaggio, Milano, i frutti dell’albero, 2004). A quel punto, scrive Cerritelli, Mariangela è «uscita dal vincolo dei mezzi grafici per affrontare l’avventura del colore». Questo comporta, fa notare il critico, un cambiamento nei tempi di esecuzione e nel rapporto con la superficie, richiedendo un’immediatezza diversa dai tempi lenti e meditati del segno grafico, e soprattutto servendosi del colore come strumento astraente, complice anche un cambio di medium grafico dall’esattezza degli inchiostri all’effusione del pastello, in combutta con atmosferiche stesure di colore a pennello per preparare il fondo delle carte. Ma il passaggio non può essere solamente di tecnica: un cambio di mezzo espressivo comporta infatti un mutamento anche del linguaggio, e porta con sé un approfondimento dei contenuti metaforici che la pittura vuole veicolare. Infatti, scrive ancora Cerritelli, «nel rivolgersi alle fonti del colore, Mariangela dà voce alle memorie intime della natura e, nel contempo, si serve delle qualità espansive del pigmento per vivere un’idea di pittura come libertà visionaria, come ricerca del volto irreale del paesaggio». Il critico parla anzi di un vero e proprio «processo di erosione della luce che vela e rivela le cose come tramiti della fantasia, facendo della montagna un fantasma interiore e del mare una danza di sguardi sospesi nel vento».
Da qui in poi, la critica si sofferma a più riprese sul tema della luce. Si intitola proprio “questa sete di luce”… la mostra a cura di Claudio Rizzi di dipinti del biennio 2005-2006 esposti nello stesso 2006 presso la milanese galleria Scoglio di Quarto di Gabriella Brembati (15 marzo-9 aprile 2006), che da quel momento comincia a seguire con assiduità il suo lavoro e gioca anche un ruolo significativo nel segnare le tappe evolutive del suo percorso. Ma l’intuizione più suggestiva è di Sara Fontana, che nel 2008 intravede in queste tele la raffigurazione di una «sorta di sudario, di quinta architettonica costituita da un incontro di trasparenze, che scaturisce dalla ricerca della luce» (Mariangela De Maria, Monticello Conte Otto, Sante Moretto arte contemporanea, 24 maggio-30 giugno 2008).
Il punto fondamentale, infatti, è che la pittura di Mariangela De Maria è diventata una raffinatissima tessitura di pittura, approdata finalmente dalla carta alla tela, fatta di un lavoro lento di sovrapposizioni e dilavamenti e, soprattutto, di continue vibrazioni tonali. Non ha infatti scelto una pittura di segno, ma un lavoro sulla superficie della tela che non ha più preoccupazioni prospettiche e di fronte al quale non si pone più il problema di una collocazione virtuale del fruitore rispetto alla rappresentazione. Piuttosto, si pone invece una interazione dovuta alle aumentate dimensioni dei dipinti, che inducono a una immersione nel quadro. Il dipinto è una rappresentazione ariosa che chiede all’occhio una perlustrazione palmare della tela, che chiede di soffermarsi sul dettaglio prezioso di trame di pastello che si intrecciano sopra la pittura a tempera. Se ne deduce quindi che il segno non ha una funzione di immediato riconoscimento: non è un marchio grafico, né ha vocazione a somigliare a una nuova scrittura, bensì è traccia di colore che si sfarina, che sottolinea la trama della tela e con questa si fonde creando un effetto di fusione. Fra la conduzione liquida della tempera e il discorso del segno, infatti, c’è una continua iterazione e compenetrazione: la campitura non è mai soltanto uno sfondo su cui tracciare dei segni, ma è uno strumento per muovere la superficie di fondo, per dare una marezzatura su cui tornare con il segno e intervenire poi nuovamente con il colore, aggiungendo velature oppure abbassando il tono con semplici colature di acqua. Per questo motivo, non si può dire che la sua pittura abbia una dimensione narrativa, come è presente per esempio nella notazione asciutta -ma non priva di vibrazioni nella sua stagione matura- di Raciti, che è fatta per condurre lo sguardo dell’osservatore lungo una traiettoria in movimento, come a volerlo guidare nello sviluppo di un intreccio. Nei dipinti di De Maria, infatti, l’immagine è fissa e “racconta” se stessa dichiarandosi poco alla volta: solo attraverso un’osservazione prolungata, infatti, l’immagine si chiarisce sulla retina diventando un miraggio. Lo ha detto con parole efficaci Marco Goldin, che dedica al suo lavoro un testo di inclinazione lirica intitolato L’acqua e la notte in occasione di una nuova mostra allo Scoglio di Quarto (20 aprile-7 maggio 2010) osservando, oltre al fatto ormai appurato che i quadri recenti dipendono dai disegni di allora, che «quella griglia spirituale, e frutto dell’occhio interiore, agisce come una struttura esilissima, leggera, che pare sostenere il mondo adesso più acquatico della De Maria. Sono notturni, improvvise apparizioni della luce, sono fondi subacquei e strascichi d’alba».
Il repertorio di segni e di procedimenti esecutivi messi in atto in questi quadri, infatti, potevano essere per questo paragonati, scrive sempre Goldin, a «slabbrature, colate di una cenere umida rappresa, fuochi fatui, apparizioni, inganni, tracce, misteri. Tutto converge verso l’identità tra pittura e una non-immagine che si tramuta largamente in assenza, risuono, rintocco. Il colore si presta a una identificazione tra gesto trattenuto e riproducibilità di quella identificazione».
Va sulla stessa linea, nel 2016, Marilisa Di Giovanni, annotando che «la ricchezza cromatica nasce da una improvvisa immagine che va a costruirsi come un’idea che appare per un momento e scompare nella stessa memoria col sopraggiungere di nuove sollecitazioni», tanto che «la materia si scioglie nella percezione di un momento, è presenza suggerita che si traduce in assenza perdendosi nello spazio, ma lo spazio assorbito dal colore lucidamente visionario in cui ogni referenzi alitò è ampiamente superata».
C’è però un altro elemento che complica la questione, e che si affaccia con maggiore evidenza nella mostra del 2012, sempre allo Scoglio di Quarto, intitolata Sulla soglia del rosso (3-27 aprile 2012). Cerritelli parla di un viaggio «verso le fonti emotive del colore, dentro e oltre i confini del visibile che la pittura esplora sul crinale luminoso del paesaggio», tanto che «De Maria entra nel pensiero di ogni opera come nel profondo respiro della percezione». Ma nel momento in cui Mariangela ricorre con insistenza al rosso pompeiano come intonazione di fondo di quella serie, con quel colore intenso e insanguinato, pieno e opaco, balza in evidenza che il piano della tela è diventato una parete, e che allo sfondamento in profondità -per quanto evocato e non descritto, alluso e non dichiarato- si è sostituito un lavoro sulla superficie, o meglio una identificazione metaforica fra la tela e un intonaco antico, con la sua teoria di scrostature ed efflorescenze superficiali. Un giro per catacombe a Roma le aveva lasciato una forte impressione: su quei muri dipinti, che trasudavano umori e mostravano come dei “sudari” le ferite del tempo, ritrovava infatti qualcosa di congeniale al suo discorso espressivo.
A questo punto, la via maestra era quella di un’ulteriore e più radicale semplificazione, nel tentativo, se possibile, di rendere ancora più immateriale la rappresentazione. Il segno del pastello tende a sparire, resta talvolta come notazione di colore funzionale all’economia compositiva, ma è il colore e la stesura larga e liquida il protagonista assoluto della ricerca. È chiara, qui, l’intenzione ferma di superare l’informale e di proporre un proprio discorso più in sintonia con il tempo moderno, come se nell’artista si fosse instillato il timore di fare della pittura di gesto una “bella maniera”, cedendo a una piacevolezza epidermica.
Questo non vuol dire, tuttavia, rinnegare un percorso che mostra con inequivocabile evidenza le proprie radici e i propri presupposti culturali. Ed è inevitabile, del resto, che nel fare i conti con il presente un lavoro di questo genere mantenga un rapporto con un’avanguardia storicizzata approfondendo gli elementi di appartenenza a quella temperie. Del resto, di fronte al dipinto diventa ancora più leggibile il processo esecutivo, come un dispositivo trasparente che rende visibile la pittura nel suo farsi, nell’espandersi della velatura d’acqua che dilava il colore e fa riaffiorare la luce di fondo, nella tessitura di segni dati a pennello che si intrecciano come vent’anni prima per delineare la conformazione rocciosa delle montagne. Qui il ricordo dei crepacci delle Alpi è più che remoto, e quell’avvicendarsi di segni fitti e trasparenti somigliano più a un accordo musicale. Non si è ancora riflettuto abbastanza su quanto abbia contato per questa generazione di pittori la lezione del Divisionismo e quel passaggio dal Simbolismo al Futurismo fatto di intersezioni di tratti capaci di dare al dipinto una trama tutta di luce. Eppure, a fare da comune denominatore, questi pittori, a Milano, avevano seguito le lezioni di Guido Ballo che nelle aule di Brera (prima al liceo e poi all’Accademia) raccontava la fulminante ed esemplare vicenda pittorica di Umberto Boccioni. Sono convinto che quell’insegnamento, quell’insistenza su determinati episodi delle vicende novecentesche della pittura italiana non abbia lasciato indifferenti questi artisti: un proliferare di dipinti fatti di piccoli tratti giustapposti deve venire necessariamente da lì. Ne poteva rimanere estraneo soltanto chi non era passato dalle aule di Brera, o che in quelle aule aveva avuto altri esempi, sovente più arcaici, di “pittura di luce”. Nel caso di Mariangela quel motivo deve aver avuto un suo profondo significato, intensamente metabolizzato e restituito inconsciamente nel modo di strutturare i segni, le tracce e le trame. Ma di fronte alle sue tele, specialmente una volta svoltato il primo decennio del terzo millennio, a questa impressione se ne aggiunge un’altra, che si fa ancora più forte nel momento in cui la tela diventa una “parete” di colore. Viene infatti da ripensare a Leonardo da Vinci, ma a un Leonardo visto con gli occhi degli anni Cinquanta, quando aveva un significato molto particolare, di improvvisa attualità, la raccomandazione dell’antico maestro di guardare le muffe fiorite sugli intonaci, e dentro queste rivedere, con la propria immaginazione, le nuvole come macchie e la prima conformazione, embrionale ma carica di mistero, di un nuovo, trasfigurato paesaggio.
Luoghi
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