Mancino. Rilievi
A cura di: Giancarlo Zanini
"La metafora dell'artista che entra in un bosco senza nulla cercare di preciso, ma lasciandosi invece scivolare di sentiero in sentiero, di macchia in macchia, di radice in radice, caratterizza il lavoro di Mancino, che in tal modo, peraltro, descrive il senso del proprio linguaggio. Per naturale associazione la mente corre nei luoghi del segno, della scrittura, dell'attente, in quella sorta di flànerie che appartiene al sogno o alla realtà vissuta come sogno. Breton e la sua Nada insegnano. E Mancino, nel rifiuto di qualsivoglia istituzionalità e nella negazione di qualsiasi timone che dia regola e progetto al suo percorso, é senz'altro vicino agli sviluppi di un pensiero in continua emigrazione, alla deriva nell'esperienza di un mondo sempre imprevedibile ed enigmatico.Stilemi della realtà e stilemi del segno s'incrociano nella scintilla della sorpresa, nello spaesamento simultaneo delle cose e del loro valore emotivo. Di conseguenza Mancino, che ha un suo stile riconoscibile, lo possiede proprio in virtù del fatto di avervi rinunciato. Ha peraltro rinunciato anche alle convinzioni di poetica, anche al rumore dell'arte e dei suoi sistemi. Preferisce il silenzio, perciò "sbianca" o "incenerisce" le cose che coglie nel "bosco" e le congiunge per associazione emotiva sulle superfici delle sue opere. Vere e proprie vetrine di un museo? No. Infatti il museo é già di per se stesso il bosco, e le "vetrine" ne sono la testimonianza. A questo punto credo sia necessario chiarire quale sia il "bosco" di Mancino. Forse é la storia stessa, il tempo interiore della storia e contemporaneamente il tempo storico dell'esperienza e della coscienza. Al di là dell'identità degli oggetti, dei reperti, delle cose che insomma vanno a comporre il "paesaggio" di Mancino, resta il fatto che la loro specificità appartiene alla risacca del mare, ai lidi carichi di carcasse della realtà. In altre parole il "bosco" di Mancino si compone di ciò che la storia ha sottratto all'uomo e ha poi rigettato come inutile resto.
Gli sviluppi della storia hanno sottratto all'uomo la manualità, gli strumenti e i
segreti del lavoro, che si é meccanizzato prima e robotizzato poi; ha deleted l'avventurosa esperienza della natura, che si é plastificata nel turismo delle isole... Mancino non é però un nostalgico. In lui, voglio dire, non scatta la molla dello spleen, il rimpianto dei tempi perduti. Egli sa che il bosco della memoria é già un fossile, un circuito di segni incrociati. Una natura morta.
Ecco, credo, la ragione della manocromia. Ritengo cioé che il nostro artista non indulga in vaghi ricordi di matrice malinconica, ma sia invece incline a captare i sortilegi di un mondo ridotto a fossile, rintracciando in esso il lirismo sotteso ad ogni tramonto. In quell'attimo di respiro sfuggente Mancino raggela il suo "bosco" di sortilegi infranti, creando perciò una poesia carica di amarezze ma intenzionata, si direbbe, a non rinunciare al proprio diritto di sopravvivenza.
Anche le sue "sculture" godono della stessa capacità d'innestare il tarlo del dubbio congiunto all'effusione lirica del contesto. Ricordo di aver conosciuto per la prima volta tali esiti circa dieci anni fa: legni slavati nel tempo, filiformi presenze, marchingegni minimali simili a trappole inutili che si aggrappavano, uncinandolo, allo spazio. Una scultura in versi? Forse. In ogni caso un'opera d'inusitata libertà poetica."
Giorgio Cortenova
[Estratto da: Mancino Michele tarasco, catalogo della mostra di Palazzo Forti, Verona, 1999]
Luoghi
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