Lina Passalacqua "Fiabe e leggende"
A cura di: Carlo Fabrizio Carli
Complesso del Vittoriano - Ala Brasini una mostra di Lina Passalacqua, pittrice calabrese da molti anni naturalizzata romana.
Con la mostra Fiabe e leggende - patrocinata dalla Regione Lazio e curata da Carlo Fabrizio Carli – Lina Passalacqua propone delle libere interpretazioni pittoriche di una letteratura spesso e ingiustamente relegata nel novero della narrativa per l’infanzia.
Coi suoi lavori, Lina Passalacqua rivendica il fascino del mito, della leggenda e della fantasia, utilizzando un linguaggio coerente con i suoi precedenti cicli pittorici quali Le Quattro Stagioni, Voli, Vele, che vengono richiamati in mostra così da dar vita a una, seppur sintetica, rassegna antologica.
Ciò che più colpisce in queste opere sono un incrollabile atto di fede nella pittura, ma anche un dinamismo e un’energia sorprendenti, di manifesta discendenza futurista.
Un lavoro, quello di Passalacqua, dietro cui opera un lungo, appassionato esercizio disegnativo, documentato in mostra nella sezione Flash.
Lina Passalacqua, con all’attivo un sessantennio di attività artistica costellata di rassegne personali, vanta numerose partecipazioni a prestigiose mostre collettive, presenze permanenti in decine di musei e collezioni pubbliche, riconoscimenti da parte di critici assai autorevoli (da Carlo Alberto Petrucci a Duilio Morosini, da Vito Apuleo a Maria Teresa Benedetti, da Giorgio Di Genova a Mario Verdone).
Cosmico dinamismo, pubblicato da Gangemi Editore
Cosmico dinamismo di Lina Passalacqua
Carlo Fabrizio Carli
Lina Passalacqua è una pittrice che opera per cicli tematici, e questi scandiscono, con successione cronologica all’incirca decennale, il suo itinerario artistico. La presente mostra romana, nell’ambientazione prestigiosa, anche se per lei non nuova, del Vittoriano, e il catalogo che l’accompagna, si propongono un duplice obbiettivo: innanzitutto quello di documentare il più recente di questi cicli, Fiabe e leggende, e, nello stesso tempo, di ripercorrere, seppure in sostanziosa sintesi, l’intero svolgimento del suo lavoro, che spazia su un arco temporale di quasi dodici lustri, dando vita a una vera e propria rassegna antologica.
In realtà già le poche parole del mio esordio comportano alcune precisazioni, che ritengo importanti per poter accostare in modo adeguato il percorso dell’artista calabrese, da decenni naturalizzata romana. A cominciare dalla stessa definizione di pittrice, che non riesce più, come un tempo, di scontata individuazione, quanto è piuttosto discrimine di una vera e propria scelta di campo. Oggi, come tutti sanno, siamo alle prese con una diffusa disaffezione nei confronti della pittura considerata un linguaggio che si pretenderebbe usurato e reso banale dal troppo e troppo lungo impiego; un linguaggio che tutto avrebbe visto e tutto detto. Lina Passalacqua resta invece incrollabilmente legata alle ragioni e alla pratica della pittura, il che non toglie che, nel corso del tempo, essa si sia cimentata anche con materiali e tecniche differenti, quali bassorilievi in legno e collage di carte, questi utilizzati soprattutto quali bozzetti degli oli di più vasto impegno.
Pure l’opzione di organizzare il suo lavoro secondo una cadenza decennale, se da un certo punto di vista può rischiare di apparire convenzionale e forzato, perché poi, riguardo all’attività di un artista, un arco temporale è equivalente a un altro, sempre, certo, che non sopravvengano epocali sconvolgimenti politici e culturali a marcare e modificare con prepotenza il corso della storia. Questa scelta – dicevo - appare suffragata da un’arcana capacità ordinatrice, come ha rivendicato efficacemente Giorgio Di Genova con la sua Storia dell’Arte italiana del ‘900, strutturata sulla base di generazioni appunto decennali (e Passalacqua vi è meritatamente inclusa, come lo fu nella più pertinente mostra riguardante la Generazione Anni Trenta).
Un’altra considerazione preliminare, ma fondamentale, riguarda il rapporto di Passalacqua con il linguaggio astrattivo. Ora è innegabile che tra i dipinti di Fiabe e Leggende, ma soprattutto, nei cicli dei Voli e delle Vele, di esiti apparentemente aniconici - di un astrattismo, comunque, lirico e non raziocinante, come ebbe occasione di puntualizzare Maria Teresa Benedetti - in cui la presenza figurale è ridotta al minimo, ve ne sono parecchi. Eppure ritengo che la pittura di Passalacqua resti, anche in questi casi, di istanza perentoriamente figurale, a tal punto le motivazioni concretiste vengono meno rispetto alle pulsioni del vero fenomenico, che la pittura della nostra artista assedia con urgenza non eludibile.
Il motivo dell’astrazione ne coinvolge un altro, anch’esso di primaria importanza per la comprensione della pittrice calabrese, ovverosia i rapporti con il Futurismo. Che sono stati molto intensi (in piena controtendenza con le opinioni storico-critiche accreditate al tempo, ovvero negli anni Sessanta e Settanta, che sembrano oggi di inesplicabile valenza riduttiva), fin dagli esordi della giovanissima artista, che non ebbe incertezze nel riconoscere nel movimento marinettiano una delle tendenze estetiche fondamentali del secolo passato, all’insegna della gran parola d’ordine futurista: Dinamismo. E se, inizialmente, il punto di riferimento era stato il grandissimo Giacomo Balla (uno dei primi dipinti di Passalacqua s’intitola infatti Omaggio a Balla), la nostra artista ebbe poi occasione di stringere stretti legami con altri futuristi storici calabresi, come Antonio Marasco e, in particolare, Enzo Benedetto. Quest’ultimo, oltre all’attività propriamente artistica, era infatti il principale teorizzatore, con la rivista “Futurismo oggi”, della continuità operativa, e non soltanto museale; dell’eredità vitale, insomma, del movimento marinettiano, anche dopo la fisica scomparsa del fondatore, occorsa il 2 dicembre 1944. Con il che si è introdotta spontaneamente una questione di vasto momento, di riflessione, o, forse, per dire così, di metabolismo culturale, che coinvolge anche la nostra artista, cospicuamente rappresentata a Cosenza nella Sala permanente dei Futuristi Calabresi (nucleo aperto, per diritto di nascita, nientemeno che da Umberto Boccioni), dove, evidentemente, la controversia è stata senz’altro risolta, fin d’ora, in senso affermativo.
Ed eccoci alle prese, a questo punto, con il ciclo più recente, tuttora in elaborazione, di Lina Passalacqua, che viene esposto per la prima volta. Fiabe e leggende, una ventina di dipinti ideati e realizzati nell’ultimo quinquennio: riesce impossibile non provare sentimenti di stupore di fronte alla freschezza, alla forza, alla libertà inventiva di questa tarda ma vitalissima stagione, che accoglie alcuni degli esiti più convincenti del lungo itinerario della pittrice.
Come attesta il titolo, l’ispirazione deriva qui dalla piena affermazione del regno fantastico. Temi e personaggi sono spesso forniti da capolavori assoluti della letteratura universale, di cui solo l’approssimazione intellettuale ha cercato di sbarazzarsi, classificandoli come testi per l’infanzia, e per ciò stesso minori. Mentre essi meritano appieno le sapienti pagine di Cristina Campo consegnate a un libro di culto come Il flauto e il tappeto o le lucide analisi di Attilio Mordini raccolte nel suo saggio Dal mito al materialismo. Ad essi a si affianca adesso l’interpretazione visiva di Lina Passalacqua.
Il soldatino di piombo, le avventure di Alice, di Pinocchio, di Aladino, di Peter Pan; e L’uccello di fuoco, Il bosco incantato, l’uccellino azzurro e via di questo passo; oppure la poetica leggenda araba che narra la formazione del deserto, ci introducono nel mondo incantato delle fiabe che non si esaurisce nella facile ricreazione e neppure nel disagio del presente, ma apre l’accesso a un’arcana e più profonda dimensione sapienziale. Del resto, ci sono pure, a definire la complessa realtà delle fiabe e delle leggende, antiche e moderne - presenze come Malefica e Specchio delle mie brame, meno positive e scontate. Non a caso, al loro proposito, Passalacqua evoca l’immagine della maschera, pronta a occultare i lineamenti del volto, a dare vita a una continua alternanza di verità e di finzione. Si rimane stupiti osservando, con la necessaria attenzione, l’energia racchiusa in questi dipinti, per i quali il riferimento al lascito futurista riesce addirittura perentorio (più pacato è invece l’andamento della Leggenda araba).
Indovinata è la scelta di affiancare in mostra al dipinto ad olio il relativo bozzetto preparatorio, realizzato mediante collage di carte colorate, comprese fotografie di rotocalchi, ridotte ove occorra a esili strisce e impiegate alla stregua di un’ideale tavolozza e di altrettante pennellate. Vorrei segnalare come i fantasmagorici bozzetti costituiscano opere, nel loro genere, compiute e di pari dignità estetica degli oli. Essi si propongono efficaci interpreti della carica energetica dispiegata dall’artista, procedente con andamento tipicamente diagonale per accentuare l’effetto del movimento, del resto assecondata dai ritmi cromatici incalzanti e dalla vivacità dei toni: si veda, ad esempio, come Passalacqua abbia interpretato l’incandescente ideazione strawinskiana dell’Uccello di fuoco.
Un discorso analogo si può fare per altri cicli tecnicamente, ma non certo tematicamente, analoghi, come Le quattro stagioni, i Voli e le Vele, una densissima produzione, frutto complessivamente di un trentennio di lavoro. In particolare, Le quattro stagioni sono dedicate, nel contesto di una più diffusa sensibilità ecologica, alla dimensione arborea e floreale. Spetta infatti ai fiori offrire i lineamenti più coinvolgenti del ciclico, annuale susseguirsi dei tempi meteorologici, e quindi dei ritmi biologici e psichici: un fiore, si sa, è appena un frammento minuscolo della realtà, fragile ed effimero, eppure in quel microcosmo si specchia il macrocosmo, si affaccia il Tutto.
Si guardi, ad esempio, alle Fresie in fiore, e al tenero verde della pianta, che Passalacqua ha scelto quale annuncio di rinascita della vita dopo il grande letargo invernale. Non è certo senza significato che lo splendore di un fiore - di fronte a cui, ci assicura il Vangelo, Salomone con tutta la sua sapienza e la sua ricchezza, non potette mai indossare un abito più elegante - costituisce un dono gratuito, del tutto inutile, sprecato, ad uno sguardo meramente funzionalistico. Credo non sia azzardato proporre una lettura dal sapore cosmologico della pittura di Lina Passalacqua, basti citare la serie dei Voli, tutta incentrata sugli elementi, non quelli del sistema periodico di Mendeleev, quanto i protagonisti delle cosmologie tradizionali: terra, aria, acqua e fuoco. Ma vorrei anche coinvolgere nel discorso “Le vele”, un tema allegorico quant’altri mai, nelle cui pieghe si percepisce il suono del mare: gonfiare le vele è espressione sinonimica della partenza, dell’avvio dell’umana avventura, degli Argonauti che puntano temerari oltre le colonne d’Ercole, al di là di terre e mari allora conosciuti. Proprio queste associazioni simboliche, ed altre simili valenze mitiche, mi sembrò giusto evocare all’attenzione dell’osservatore, presentando nel 1999 la mostra delle “Vele”, allestita nella Cripta delle statue del duomo di Siena.
Ma, come ho già avuto occasione di accennare, questi cicli appartenenti al più recente trentennio di attività di Passalacqua, sono lontani dall’esaurire la sua lunga e intensa attività pittorica, come la mostra ricorda giustamente: ecco la felice fase Pop degli anni Settanta e Ottanta; la numericamente contenuta, ma profondamente sentita, produzione di Arte sacra (per Il Verbo si è fatto carne, un olio del 1989, non è eccessivo parlare di capo d’opera: Fillia l’avrebbe sicuramente inserito in un ideale repertorio di Arte sacra futurista). Ecco le prove, più tradizionali, degli anni Sessanta che riflettono (anche documentariamente, con le inquadrature del suo studio) l’importante discepolato presso il pittore e incisore Carlo Alberto Petrucci. Ma soprattutto occorre qui almeno ricordare quella che è stata la costante e più autentica matrice del lavoro antico e recente dell’artista: il disegno. Ritratti, schizzi più o meno elaborati, ideazioni di quadri futuri: il “matitatoio”, di cui parlavano gli antichi, riconferma le ragioni della pittura e la solidità del lavoro di Passalacqua in una stagione in cui la trovata e il calembour sembrano spesso avere la meglio.
Con la mostra Fiabe e leggende - patrocinata dalla Regione Lazio e curata da Carlo Fabrizio Carli – Lina Passalacqua propone delle libere interpretazioni pittoriche di una letteratura spesso e ingiustamente relegata nel novero della narrativa per l’infanzia.
Coi suoi lavori, Lina Passalacqua rivendica il fascino del mito, della leggenda e della fantasia, utilizzando un linguaggio coerente con i suoi precedenti cicli pittorici quali Le Quattro Stagioni, Voli, Vele, che vengono richiamati in mostra così da dar vita a una, seppur sintetica, rassegna antologica.
Ciò che più colpisce in queste opere sono un incrollabile atto di fede nella pittura, ma anche un dinamismo e un’energia sorprendenti, di manifesta discendenza futurista.
Un lavoro, quello di Passalacqua, dietro cui opera un lungo, appassionato esercizio disegnativo, documentato in mostra nella sezione Flash.
Lina Passalacqua, con all’attivo un sessantennio di attività artistica costellata di rassegne personali, vanta numerose partecipazioni a prestigiose mostre collettive, presenze permanenti in decine di musei e collezioni pubbliche, riconoscimenti da parte di critici assai autorevoli (da Carlo Alberto Petrucci a Duilio Morosini, da Vito Apuleo a Maria Teresa Benedetti, da Giorgio Di Genova a Mario Verdone).
Cosmico dinamismo, pubblicato da Gangemi Editore
Cosmico dinamismo di Lina Passalacqua
Carlo Fabrizio Carli
Lina Passalacqua è una pittrice che opera per cicli tematici, e questi scandiscono, con successione cronologica all’incirca decennale, il suo itinerario artistico. La presente mostra romana, nell’ambientazione prestigiosa, anche se per lei non nuova, del Vittoriano, e il catalogo che l’accompagna, si propongono un duplice obbiettivo: innanzitutto quello di documentare il più recente di questi cicli, Fiabe e leggende, e, nello stesso tempo, di ripercorrere, seppure in sostanziosa sintesi, l’intero svolgimento del suo lavoro, che spazia su un arco temporale di quasi dodici lustri, dando vita a una vera e propria rassegna antologica.
In realtà già le poche parole del mio esordio comportano alcune precisazioni, che ritengo importanti per poter accostare in modo adeguato il percorso dell’artista calabrese, da decenni naturalizzata romana. A cominciare dalla stessa definizione di pittrice, che non riesce più, come un tempo, di scontata individuazione, quanto è piuttosto discrimine di una vera e propria scelta di campo. Oggi, come tutti sanno, siamo alle prese con una diffusa disaffezione nei confronti della pittura considerata un linguaggio che si pretenderebbe usurato e reso banale dal troppo e troppo lungo impiego; un linguaggio che tutto avrebbe visto e tutto detto. Lina Passalacqua resta invece incrollabilmente legata alle ragioni e alla pratica della pittura, il che non toglie che, nel corso del tempo, essa si sia cimentata anche con materiali e tecniche differenti, quali bassorilievi in legno e collage di carte, questi utilizzati soprattutto quali bozzetti degli oli di più vasto impegno.
Pure l’opzione di organizzare il suo lavoro secondo una cadenza decennale, se da un certo punto di vista può rischiare di apparire convenzionale e forzato, perché poi, riguardo all’attività di un artista, un arco temporale è equivalente a un altro, sempre, certo, che non sopravvengano epocali sconvolgimenti politici e culturali a marcare e modificare con prepotenza il corso della storia. Questa scelta – dicevo - appare suffragata da un’arcana capacità ordinatrice, come ha rivendicato efficacemente Giorgio Di Genova con la sua Storia dell’Arte italiana del ‘900, strutturata sulla base di generazioni appunto decennali (e Passalacqua vi è meritatamente inclusa, come lo fu nella più pertinente mostra riguardante la Generazione Anni Trenta).
Un’altra considerazione preliminare, ma fondamentale, riguarda il rapporto di Passalacqua con il linguaggio astrattivo. Ora è innegabile che tra i dipinti di Fiabe e Leggende, ma soprattutto, nei cicli dei Voli e delle Vele, di esiti apparentemente aniconici - di un astrattismo, comunque, lirico e non raziocinante, come ebbe occasione di puntualizzare Maria Teresa Benedetti - in cui la presenza figurale è ridotta al minimo, ve ne sono parecchi. Eppure ritengo che la pittura di Passalacqua resti, anche in questi casi, di istanza perentoriamente figurale, a tal punto le motivazioni concretiste vengono meno rispetto alle pulsioni del vero fenomenico, che la pittura della nostra artista assedia con urgenza non eludibile.
Il motivo dell’astrazione ne coinvolge un altro, anch’esso di primaria importanza per la comprensione della pittrice calabrese, ovverosia i rapporti con il Futurismo. Che sono stati molto intensi (in piena controtendenza con le opinioni storico-critiche accreditate al tempo, ovvero negli anni Sessanta e Settanta, che sembrano oggi di inesplicabile valenza riduttiva), fin dagli esordi della giovanissima artista, che non ebbe incertezze nel riconoscere nel movimento marinettiano una delle tendenze estetiche fondamentali del secolo passato, all’insegna della gran parola d’ordine futurista: Dinamismo. E se, inizialmente, il punto di riferimento era stato il grandissimo Giacomo Balla (uno dei primi dipinti di Passalacqua s’intitola infatti Omaggio a Balla), la nostra artista ebbe poi occasione di stringere stretti legami con altri futuristi storici calabresi, come Antonio Marasco e, in particolare, Enzo Benedetto. Quest’ultimo, oltre all’attività propriamente artistica, era infatti il principale teorizzatore, con la rivista “Futurismo oggi”, della continuità operativa, e non soltanto museale; dell’eredità vitale, insomma, del movimento marinettiano, anche dopo la fisica scomparsa del fondatore, occorsa il 2 dicembre 1944. Con il che si è introdotta spontaneamente una questione di vasto momento, di riflessione, o, forse, per dire così, di metabolismo culturale, che coinvolge anche la nostra artista, cospicuamente rappresentata a Cosenza nella Sala permanente dei Futuristi Calabresi (nucleo aperto, per diritto di nascita, nientemeno che da Umberto Boccioni), dove, evidentemente, la controversia è stata senz’altro risolta, fin d’ora, in senso affermativo.
Ed eccoci alle prese, a questo punto, con il ciclo più recente, tuttora in elaborazione, di Lina Passalacqua, che viene esposto per la prima volta. Fiabe e leggende, una ventina di dipinti ideati e realizzati nell’ultimo quinquennio: riesce impossibile non provare sentimenti di stupore di fronte alla freschezza, alla forza, alla libertà inventiva di questa tarda ma vitalissima stagione, che accoglie alcuni degli esiti più convincenti del lungo itinerario della pittrice.
Come attesta il titolo, l’ispirazione deriva qui dalla piena affermazione del regno fantastico. Temi e personaggi sono spesso forniti da capolavori assoluti della letteratura universale, di cui solo l’approssimazione intellettuale ha cercato di sbarazzarsi, classificandoli come testi per l’infanzia, e per ciò stesso minori. Mentre essi meritano appieno le sapienti pagine di Cristina Campo consegnate a un libro di culto come Il flauto e il tappeto o le lucide analisi di Attilio Mordini raccolte nel suo saggio Dal mito al materialismo. Ad essi a si affianca adesso l’interpretazione visiva di Lina Passalacqua.
Il soldatino di piombo, le avventure di Alice, di Pinocchio, di Aladino, di Peter Pan; e L’uccello di fuoco, Il bosco incantato, l’uccellino azzurro e via di questo passo; oppure la poetica leggenda araba che narra la formazione del deserto, ci introducono nel mondo incantato delle fiabe che non si esaurisce nella facile ricreazione e neppure nel disagio del presente, ma apre l’accesso a un’arcana e più profonda dimensione sapienziale. Del resto, ci sono pure, a definire la complessa realtà delle fiabe e delle leggende, antiche e moderne - presenze come Malefica e Specchio delle mie brame, meno positive e scontate. Non a caso, al loro proposito, Passalacqua evoca l’immagine della maschera, pronta a occultare i lineamenti del volto, a dare vita a una continua alternanza di verità e di finzione. Si rimane stupiti osservando, con la necessaria attenzione, l’energia racchiusa in questi dipinti, per i quali il riferimento al lascito futurista riesce addirittura perentorio (più pacato è invece l’andamento della Leggenda araba).
Indovinata è la scelta di affiancare in mostra al dipinto ad olio il relativo bozzetto preparatorio, realizzato mediante collage di carte colorate, comprese fotografie di rotocalchi, ridotte ove occorra a esili strisce e impiegate alla stregua di un’ideale tavolozza e di altrettante pennellate. Vorrei segnalare come i fantasmagorici bozzetti costituiscano opere, nel loro genere, compiute e di pari dignità estetica degli oli. Essi si propongono efficaci interpreti della carica energetica dispiegata dall’artista, procedente con andamento tipicamente diagonale per accentuare l’effetto del movimento, del resto assecondata dai ritmi cromatici incalzanti e dalla vivacità dei toni: si veda, ad esempio, come Passalacqua abbia interpretato l’incandescente ideazione strawinskiana dell’Uccello di fuoco.
Un discorso analogo si può fare per altri cicli tecnicamente, ma non certo tematicamente, analoghi, come Le quattro stagioni, i Voli e le Vele, una densissima produzione, frutto complessivamente di un trentennio di lavoro. In particolare, Le quattro stagioni sono dedicate, nel contesto di una più diffusa sensibilità ecologica, alla dimensione arborea e floreale. Spetta infatti ai fiori offrire i lineamenti più coinvolgenti del ciclico, annuale susseguirsi dei tempi meteorologici, e quindi dei ritmi biologici e psichici: un fiore, si sa, è appena un frammento minuscolo della realtà, fragile ed effimero, eppure in quel microcosmo si specchia il macrocosmo, si affaccia il Tutto.
Si guardi, ad esempio, alle Fresie in fiore, e al tenero verde della pianta, che Passalacqua ha scelto quale annuncio di rinascita della vita dopo il grande letargo invernale. Non è certo senza significato che lo splendore di un fiore - di fronte a cui, ci assicura il Vangelo, Salomone con tutta la sua sapienza e la sua ricchezza, non potette mai indossare un abito più elegante - costituisce un dono gratuito, del tutto inutile, sprecato, ad uno sguardo meramente funzionalistico. Credo non sia azzardato proporre una lettura dal sapore cosmologico della pittura di Lina Passalacqua, basti citare la serie dei Voli, tutta incentrata sugli elementi, non quelli del sistema periodico di Mendeleev, quanto i protagonisti delle cosmologie tradizionali: terra, aria, acqua e fuoco. Ma vorrei anche coinvolgere nel discorso “Le vele”, un tema allegorico quant’altri mai, nelle cui pieghe si percepisce il suono del mare: gonfiare le vele è espressione sinonimica della partenza, dell’avvio dell’umana avventura, degli Argonauti che puntano temerari oltre le colonne d’Ercole, al di là di terre e mari allora conosciuti. Proprio queste associazioni simboliche, ed altre simili valenze mitiche, mi sembrò giusto evocare all’attenzione dell’osservatore, presentando nel 1999 la mostra delle “Vele”, allestita nella Cripta delle statue del duomo di Siena.
Ma, come ho già avuto occasione di accennare, questi cicli appartenenti al più recente trentennio di attività di Passalacqua, sono lontani dall’esaurire la sua lunga e intensa attività pittorica, come la mostra ricorda giustamente: ecco la felice fase Pop degli anni Settanta e Ottanta; la numericamente contenuta, ma profondamente sentita, produzione di Arte sacra (per Il Verbo si è fatto carne, un olio del 1989, non è eccessivo parlare di capo d’opera: Fillia l’avrebbe sicuramente inserito in un ideale repertorio di Arte sacra futurista). Ecco le prove, più tradizionali, degli anni Sessanta che riflettono (anche documentariamente, con le inquadrature del suo studio) l’importante discepolato presso il pittore e incisore Carlo Alberto Petrucci. Ma soprattutto occorre qui almeno ricordare quella che è stata la costante e più autentica matrice del lavoro antico e recente dell’artista: il disegno. Ritratti, schizzi più o meno elaborati, ideazioni di quadri futuri: il “matitatoio”, di cui parlavano gli antichi, riconferma le ragioni della pittura e la solidità del lavoro di Passalacqua in una stagione in cui la trovata e il calembour sembrano spesso avere la meglio.
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