Jeff Koons In Florence
A cura di: Sergio Risaliti
Firenze, 25 settembre 2015, per la prima volta, dopo circa cinquecento anni dalla messa in posa dell’Ercole e Caco di Baccio Bandinelli (1493-1560), una scultura originale di grandi dimensioni sarà collocata sull’arengario di Palazzo Vecchio. Si tratta di Pluto and Proserpina di Jeff Koons (1955), un’opera monumentale alta più di tre metri. Un evento eccezionale che inaugura il progetto In Florence, un programma ambizioso e innovativo che vede i protagonisti dell’arte del nostro tempo confrontarsi con gli spazi e le opere del Rinascimento fiorentino.
Jeff Koons In Florence è l’evento più atteso dell’anno: un confronto tra la provocante bellezza delle opere del geniale artista americano e i capolavori senza tempo di Donatello (1386-1466) e Michelangelo (1475-1564). I luoghi eletti del “dialogo” saranno la Sala dei Gigli in Palazzo Vecchio e Piazza della Signoria. La mostra, organizzata da Associazione Mus.e e a cura di Sergio Risaliti, è realizzata grazie alle relazioni e al generoso contributo di Fabrizio Moretti, nuovo mecenate per l’arte contemporanea e per Firenze, già noto a livello internazionale come mercante d’arte antica.
A Palazzo Vecchio sarà esposta Gazing Ball (Barberini Faun), opera realizzata nel 2013 appartenente alla serie denominata dall’artista Gazing Ball, calchi in gesso di celebri sculture del periodo greco-romano cui l’artista ha aggiunto, in posizione di precario equilibrio, una sfera di colore azzurro brillante e dalla superficie specchiante. Un raffinato e attraente gesto concettuale per ribaltare e deviare lo sguardo dello spettatore dall’ammirazione dell’opera classica, quale immagine memorabile di pura perfezione, alla totalità dello spazio ambientale, in cui si riconoscono anche gli osservatori e i vari elementi che caratterizzano il contesto espositivo. Un lavoro che insiste sulla seduzione del calco in gesso, così puro, leggero, impalpabile, e la magia disorientante della sfera azzurra con la sua superficie riflettente come uno specchio.
L’antico Fauno Barberini ( “Uno fauno a sedere più grande del naturale quale sta dormendo e tiene un braccio in testa”, Archivio Barberini, Roma, 1632) è una scultura di età imperiale – ispirata probabilmente a un opera in bronzo di epoca tardo-ellenistica. Rinvenuto a Roma nei fossati di Castel Sant’Angelo intorno al 1624, il marmo entrò nella collezione del Cardinale Francesco Barberini nel 1628, per poi arrivare in Germania agli inizi dell’Ottocento, dove è conservato presso la Gliptoteca di Monaco. Alcuni restauri della scultura furono eseguiti, già all’epoca del rinvenimento, dalla bottega di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) o da lui medesimo.
Koons spiega in questi termini il senso del suo lavoro: “Ho pensato a Gazing Ball guardando per molti anni sfere di questo genere. Ho voluto affermare la perentorietà e la generosità della superficie specchiante e la gioia che scatenano sfere come queste. La serie Gazing Ball si basa sulla trascendenza. La consapevolezza della propria mortalità è un pensiero astratto, e a partire da questa scoperta uno inizia ad avere coscienza maggiore del mondo esterno, della propria famiglia, della comunità, può instaurare un dialogo più vasto con l’umanità al di là del presente”.
La sfera deve essere letta come simbolo o archetipo della perfezione del cosmo, dell’Uno, dell’infinito e dell’eterno – come nel Timeo di Platone -, ma tale idealità è contraddetta dalla posizione arrischiata in cui l’oggetto sferico si trova, posto com’è sulla coscia sinistra del giovane Fauno, nonché dalla superficie che riflette il transeunte, il molteplice, il mondo della vita.
La sfera immagine ridotta della terra, del globo celeste o del cosmo infinito, simbolo della fortuna o della vacuità esistenziale, dello scorrere dei giorni e dell’eternità, è una figura ricorrente nella storia dell’arte. Si ritrova ai piedi del Tempo che solitamente tiene in mano un compasso o una clessidra. La sfera è il mondo terrestre per il Bramante – in un affresco del 1488 circa in cui sono ritratti Eraclito e Democrito. Appare sul tavolo dell’Astronomo di Jan Vermeer in forma di globo celeste nel 1668 circa. Con allusioni all’influenza di Saturno, all’alchimia, una sfera, forse di pietra, è raffigurata ai piedi dell’angelo malinconico di Dürer. Poi, la Nemesi-Fortuna, in una delle famose incisioni del pittore tedesco, poggia i piedi su una sfera che sembra un pallone aerostatico. Dei putti giocano con una palla nella Malinconia di Lucas Cranach del 1532. Nella tavola di Copenaghen (Statens Museum for Kunst) si notano alcuni dettagli che inducono a interpretare il soggetto del dipinto come discorso sull’indolenza del malinconico o accidioso, influenzato dal demonio, tema su cui si era espresso anche Martin Lutero. Ne sarebbero una prova la coppia di pernici accanto alla dama, simbolo di lussuria, le figure demoniache in alto e a sinistra nel cielo, la battaglia in corso sotto le mura di un castello. Elementi che alludono all’aspetto distruttivo tipico del depresso. Anche Giovanni Bellini associa la Malinconia alla sfera, in una misteriosa allegoria del 1490 circa, conservata ora a Venezia, Galleria dell’Accademia. Qui la sfera è di un bel colore azzurro, quasi fosse una boccia, un’ampolla in cui è protetta l’essenza stessa del cielo sereno, dell’acqua chiara, il colore ceruleo della pupilla di un dio o dea d’amore. La sfera si fa poi bolla di sapone per Jean-Baptiste-Siméon Chardin, goccia di rugiada nelle nature morte d’epoca barocca, pallone che s’alza in cielo nei quadri veneti del settecento. In una tela dipinta da René Magritte nel 1928 una sfera si solleva da terra senza peso; in modo quasi minacciosa sembra occupare la stanza, mentre la parete sul fondo, completamente nera, parrebbe alludere ai nostri peggiori incubi infantili. Differentemente Nicolas Poussin (Eliezer e Rebecca dipinto del 1648, oggi al Louvre) raffigura una sfera in cima ad una colonna: l’elemento geometrico genera un senso di quieta armonia, d’immobile perfezione, di rassicurante stabilità a dimostrare la tenuta della fede, o forse la spiegazione logica di tanti misteri cristiani. Qualche secolo dopo la sfera rivive come simbolo di perfezione formale o d’instabile equilibrio in una Natura morta di Giorgio Morandi del 1919, assieme ad altri elementi minimali; ma qui è più piccola, sembra una boccia da lanciare contro le forme di legno nella stanza del dipinto. Per trovare qualcosa di simile al quadro di Poussin dobbiamo visitare il giardino della villa di Goethe a Weimar, dove il poeta ha costruito in anticipo sugli artisti contemporanei un monumento astratto di straordinario fascino. Su un cubo di pietra di 90 cm per lato Goethe ha appoggiato una sfera di circa 72 cm di diametro. Nei suoi diari Goethe ricorda il giorno della posa e fa riferimento ad Agathè-Tyche dea della fortuna.
Gazing Ball prende il nome dalle sfere specchianti, scoperte tante volte da Koons nella casa d’infanzia in Pennsylvania: ammalianti, incantevoli oggetti ornamentali prodotti per la prima volta a Venezia nel tredicesimo secolo, divenuti poi famosi nel diciannovesimo secolo durante il regno di Ludovico II di Baviera che li usava per decorare i giardini dei suoi palazzi, quindi arrivati in Pennsylvania attraverso gli Europei. Il potere incantatorio di questi oggetti risiede nel fatto che a chi guarda ad essi viene concessa la possibilità di vedere dietro le proprie spalle e fino agli angoli più lontani, con effetto panottico e anamorfico, assorbendo all’interno della stessa superficie il proprio riflesso e ogni altro elemento intorno al proprio corpo. Forme affascinanti, magiche, piacevoli anche per la loro leggerezza (si tratta di sfere di vetro soffiato) e per la loro associazione con il gioco infantile. Data la loro estrema fragilità sono anche associate all’effimera durata della vita umana – così come le bolle di sapone cui spesse volte vengono associate. Ecco perché la sfera, simbolo di perfezione, spesse volte è associata al tema della malinconia, stato d’animo provocato dal confronto dell’animo umano con l’incommensurabile. Come afferma Koons: “La serie denominata Gazing Ball ha alla base lo “sguardo del filosofo” che giunge alla trascendenza attraverso i sensi per poi dirigere la nostra visione verso l’eternità tramite la pura forma e l’idea”.
La scelta di installare il Fauno nella Sala dei Gigli, fastoso ambiente, decorato con pregevoli affreschi di Domenico Ghirlandaio (1449-1494), e una finta tappezzeria impreziosita dalla presenza di gigli d’oro -emblema angioino in campo azzurro- nasce dalla volontà di creare un dialogo tra il linguaggio rinascimentale e quello contemporaneo. La sala ospita anche l’originale in bronzo della Giuditta e Oloferne (1457 circa) di Donatello, una delle sculture più fascinose e significative del Quattrocento italiano. Di fronte al capolavoro donatelliano – Giuditta implacabile punitrice di Oloferne, intorpidito dalla bellezza virginale della giovane eroina, poi fiaccato dal vino, infine decapitato – il Fauno Barberini -nella versione rivisitata di Koons- si presenterà al pubblico ancora nella sua provocante posa, esempio di una bellezza non volgare, sebbene spinta al limite dell’osceno. La plateale esibizione del nudo, con i genitali in bella mostra, la posa sensuale, indice di una potenza sessuale selvaggia sembrerà provocare la stessa Giuditta, punitrice degli eccessi libidinosi, della perdizione sessuale, come simboleggiano i baccanali scolpiti a bassorilievo nel basamento. La sfera specchiante e di colore azzurro entrerà, altresì, in rapporto con l’effige in bronzo, e poi con il contesto decorativo della sala, con le sue dominanti cromatiche e il prezioso soffitto ligneo. Contrasti esaltati dall’operazione eseguita da Koons che affronta il quotidiano e l’eterno, la bellezza classica e l’estetica di massa, la sfera del mito e quella della mondanità, l’infanzia e la storia, Eros e Thanatos, mentre l’ambivalenza tra equilibrio e instabilità, originale e copia, oggetto artistico e merce, invita a riflettere anche sul rapporto tra immaginazione e serialità, tra metafisica e basso materialismo, tra stupore e mistificazione. Infine quello tra immagini classiche e simulacri post-moderni.
Altre relazioni, altri significati emergeranno in Piazza della Signoria dove, a poca distanza dalla copia in marmo del David di Michelangelo, sarà esposta una delle più celebri sculture di Jeff Koons, Pluto and Proserpina (2010-2013), un’opera monumentale, alta più di tre metri, in acciaio inox, lucidata a specchio e con una cromatura in color oro. Le due figure di Plutone e Proserpina, avvinghiate in un abbraccio drammatico e sensuale, scintilleranno alla luce del giorno e, illuminate durante la notte, strideranno in contrasto con le sculture in marmo e bronzo della piazza. Abbagliante presenza, l’opera di Koons, catturerà lo sguardo dei cittadini e dei turisti, unico originale tra le copie del David e della Giuditta sull’arengario. La superficie specchiante dell’opera di Koons funzionerà in modo da assorbire, catturare e liquefare tutto lo spazio circostante, con effetti di splendore abbacinante e di virtuosistica defigurazione. Le stesse forme del dio dell’Averno, quelle della sua futura sposa – Persefone per i greci- sembreranno liquefarsi in una materia fluida, quasi gelatinosa, fortemente sensuale, al limite della dissoluzione figurativa, con il risultato di disperdere i connotati iconografici, quindi il presupposto mitologico dell’immagine, assieme all’originale morfologia barocca di cui l’opera di Koons è in qualche modo una libera riproduzione. In effetti, Pluto and Proserpina di Koons s’ispira a una celebre opera di Gian Lorenzo Bernini, il Ratto di Proserpina (225 cm, base 109 cm), commissionata all’artista dal Cardinale Scipione Caffarelli Borghese ed eseguita tra il 1621 e il 1622, quando Bernini aveva di poco superato i vent’anni. Nei documenti dell’epoca il gruppo viene descritto in questi termini: “Una Proserpina di marmo che un Plutone la porta via alto palmi 12 in circa et un can trifauce con piedistallo di marmo con alcuni versi di faccia”. Alla base della scultura era stato apposto, infatti, un testo poetico dedicato all’opera del Bernini, adattamento di un distico composto dal cardinale Maffeo Barberini, poi papa Urbano VIII, impressionato dalla bellezza del marmo. Nei Dodici distichi per una Galleria, illustra, con epigrammi e brevi descrizioni, dodici quadri di una galleria immaginaria si legge: “Quisquis humi pronus flores legis, inspice saevi / me Ditis ad domum rapi”. Per questo il punto di vista privilegiato deve essere considerato quello frontale, visto che qui si trovava l’iscrizione di Maffeo Barberini. Guardando la scultura di Bernini, scopriamo, infatti, che Plutone ha già lasciato cadere a terra il suo scettro bidentato per agguantare con vigore la giovane che innalza la mano destra al cielo con un gesto di lamento, supplicando aiuto e rimarcando a questo modo con virtuoso effetto quell’ “inspice me” al centro dei versi.
Per meglio comprendere il soggetto, dobbiamo rileggere le Metamorfosi di Ovidio, laddove viene descritto il momento in cui il dio degli inferi aggredisce la figlia di Cerere, intenta a raccogliere fiori in un boschetto nei pressi di un lago. La dea “si stava divertendo a cogliere viole e candidi gigli, ne riempiva con fanciullesco zelo dei cestelli e i lembi della veste, gareggiando con le compagne a chi più ne coglieva, quando in un lampo Plutone la vide, se ne invaghì e la rapì: tanto precipitosa fu quella passione. Atterrita la dea invocava con voce accorata la madre e le compagne, ma più la madre; e poiché aveva strappato il lembo inferiore della veste, questa s’allentò e i fiori raccolti caddero a terra: tanto era il candore di quella giovane, che nel suo cuore di vergine anche la perdita dei fiori le causò dolore“. La mitica vicenda, secondo gli studiosi, si ricollega all’alternarsi delle stagioni: al freddo e al gelo dell’inverno, alla rinascita primaverile. Plutone, infatti, nella tradizione letteraria viene spesse volte descritto come immagine del Sole. Nel trattato Imagini di Vincenzo Cartari (1531ca.- post 1571), ad esempio, testo indispensabile per l’iconografia rinascimentale, si trova scritto: “[…] fu finto che Plutone, intendendo per lui il Sole, la rapì, e portossela in inferno, perche il calore del Sole nodrisce, e conserva sotto terra tutto il tempo dell’inverno il seminato grano”. Secondo Varrone, citato da Sant’Agostino, il nome Proserpina verrebbe addirittura da proserpere, che simboleggia lo “sgusciare fuori” del seme dalla terra. Nel marmo di Bernini, Proserpina, bella come la Venere di Prassitele, sta lottando invano per la sua verginità. Grida, spalancando la bocca, invoca la madre e le compagne. Nello sguardo di lei si leggono: vergogna per la sua nudità offesa, paura nei confronti della furia erotica di Plutone e commovente disperazione, perché tra pochissimo la ragazza conoscerà l’oscurità dell’Ade. I versi di Ovidio spiegano inoltre la presenza di mazzi di fiori freschi aggiunti, da Jeff Koons, con precisione filologica, alla sua nuova scultura in acciaio inox, che, a differenza di Bernini, ad esempio, omette la figura del cane Cerbero. Opera monumentale, ricordiamolo, Pluto and Proserpina verrà esposta dal 25 settembre sull’arengario di Palazzo Vecchio a poca distanza dalla copia del David, simbolo universale del rinascimento fiorentino, tanto quanto la Primavera del Botticelli agli Uffizi.
In tale posizione, si esplicita una diversa e più sottile relazione tra Pluto and Proserpina di Koons e il contesto espositivo di Piazza Signoria, con la sua sfilata di mirabili sculture. Il senso dell’arte, della bellezza e dell’amore come continua rinascita, come sublimazione del dolore e come superamento della morte (anche della morte dell’arte). Infatti, nel mito di “Plutone e Proserpina” la potenza ctonia di eros che può essere seminatrice di morte e di violenza – sia spirituale sia materiale – è contraddetta dalla forza generatrice della bellezza e dell’amore, dalla funzione vitale e solare dell’unione di maschile e femminile, così come di storia e immaginazione. La speciale collocazione di Pluto and Proserpina di Koons è stata pensata anche per esaltare la peculiare somiglianza di quest’opera con il Ratto delle Sabine del Giambologna (1529-1608) – posto sotto la Loggia dei Lanzi- e con il Genio della Vittoria del Buonarroti -conservato nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, massimi esempi di una soluzione spiraliforme del movimento nei corpi; suggerendoci inoltre che Bernini deve molto all’arte del cinquecento nella sua prodigiosa invenzione del Ratto di Proserpina. Secondo la critica, Gian Lorenzo Bernini, avrebbe, infatti, prima studiato l’Ercole e Anteo del Giambologna, per poi prendere spunto dall’opera del toscano Pietro da Barga (documentato da 1574 al 1588), autore di un bronzo di stesso soggetto -oggi conservato al Museo Nazionale del Bargello- forse ispirato ad un brano di Plinio, che nella Naturalis Historia, (XXXIV, 69) descrive un gruppo bronzeo di mano di Prassitele, avente a oggetto proprio il “Raptus Proserpinae”, così come ad un bronzo di Vincenzo de’ Rossi (1525-1587), fuso nel 1565 circa.
Ecco dunque che l’esposizione Jeff Koons In Florence si presenta come un gioioso e raffinato gioco di citazioni e di rinvii, di contrasti e di confronti tra antico e contemporaneo, dove la superficie scintillante nasconde il senso oscuro e magico della creazione in funzione anche apotropaica.
La mostra, visibile dal 26 settembre al 28 dicembre 2015, nasce da una proposta di Fabrizio Moretti ed è curata da Sergio Risaliti. Promossa dal Comune di Firenze, è organizzata da Mus.e con il contributo della Camera di Commercio, della Galleria Moretti e da David Zwirner con la collaborazione della Biennale Internazionale di Antiquariato di Firenze.
Koons spiega in questi termini il senso del suo lavoro: “Ho pensato a Gazing Ball guardando per molti anni sfere di questo genere. Ho voluto affermare la perentorietà e la generosità della superficie specchiante e la gioia che scatenano sfere come queste. La serie Gazing Ball si basa sulla trascendenza. La consapevolezza della propria mortalità è un pensiero astratto, e a partire da questa scoperta uno inizia ad avere coscienza maggiore del mondo esterno, della propria famiglia, della comunità, può instaurare un dialogo più vasto con l’umanità al di là del presente”.
La sfera deve essere letta come simbolo o archetipo della perfezione del cosmo, dell’Uno, dell’infinito e dell’eterno – come nel Timeo di Platone -, ma tale idealità è contraddetta dalla posizione arrischiata in cui l’oggetto sferico si trova, posto com’è sulla coscia sinistra del giovane Fauno, nonché dalla superficie che riflette il transeunte, il molteplice, il mondo della vita.
La sfera immagine ridotta della terra, del globo celeste o del cosmo infinito, simbolo della fortuna o della vacuità esistenziale, dello scorrere dei giorni e dell’eternità, è una figura ricorrente nella storia dell’arte. Si ritrova ai piedi del Tempo che solitamente tiene in mano un compasso o una clessidra. La sfera è il mondo terrestre per il Bramante – in un affresco del 1488 circa in cui sono ritratti Eraclito e Democrito. Appare sul tavolo dell’Astronomo di Jan Vermeer in forma di globo celeste nel 1668 circa. Con allusioni all’influenza di Saturno, all’alchimia, una sfera, forse di pietra, è raffigurata ai piedi dell’angelo malinconico di Dürer. Poi, la Nemesi-Fortuna, in una delle famose incisioni del pittore tedesco, poggia i piedi su una sfera che sembra un pallone aerostatico. Dei putti giocano con una palla nella Malinconia di Lucas Cranach del 1532. Nella tavola di Copenaghen (Statens Museum for Kunst) si notano alcuni dettagli che inducono a interpretare il soggetto del dipinto come discorso sull’indolenza del malinconico o accidioso, influenzato dal demonio, tema su cui si era espresso anche Martin Lutero. Ne sarebbero una prova la coppia di pernici accanto alla dama, simbolo di lussuria, le figure demoniache in alto e a sinistra nel cielo, la battaglia in corso sotto le mura di un castello. Elementi che alludono all’aspetto distruttivo tipico del depresso. Anche Giovanni Bellini associa la Malinconia alla sfera, in una misteriosa allegoria del 1490 circa, conservata ora a Venezia, Galleria dell’Accademia. Qui la sfera è di un bel colore azzurro, quasi fosse una boccia, un’ampolla in cui è protetta l’essenza stessa del cielo sereno, dell’acqua chiara, il colore ceruleo della pupilla di un dio o dea d’amore. La sfera si fa poi bolla di sapone per Jean-Baptiste-Siméon Chardin, goccia di rugiada nelle nature morte d’epoca barocca, pallone che s’alza in cielo nei quadri veneti del settecento. In una tela dipinta da René Magritte nel 1928 una sfera si solleva da terra senza peso; in modo quasi minacciosa sembra occupare la stanza, mentre la parete sul fondo, completamente nera, parrebbe alludere ai nostri peggiori incubi infantili. Differentemente Nicolas Poussin (Eliezer e Rebecca dipinto del 1648, oggi al Louvre) raffigura una sfera in cima ad una colonna: l’elemento geometrico genera un senso di quieta armonia, d’immobile perfezione, di rassicurante stabilità a dimostrare la tenuta della fede, o forse la spiegazione logica di tanti misteri cristiani. Qualche secolo dopo la sfera rivive come simbolo di perfezione formale o d’instabile equilibrio in una Natura morta di Giorgio Morandi del 1919, assieme ad altri elementi minimali; ma qui è più piccola, sembra una boccia da lanciare contro le forme di legno nella stanza del dipinto. Per trovare qualcosa di simile al quadro di Poussin dobbiamo visitare il giardino della villa di Goethe a Weimar, dove il poeta ha costruito in anticipo sugli artisti contemporanei un monumento astratto di straordinario fascino. Su un cubo di pietra di 90 cm per lato Goethe ha appoggiato una sfera di circa 72 cm di diametro. Nei suoi diari Goethe ricorda il giorno della posa e fa riferimento ad Agathè-Tyche dea della fortuna.
Gazing Ball prende il nome dalle sfere specchianti, scoperte tante volte da Koons nella casa d’infanzia in Pennsylvania: ammalianti, incantevoli oggetti ornamentali prodotti per la prima volta a Venezia nel tredicesimo secolo, divenuti poi famosi nel diciannovesimo secolo durante il regno di Ludovico II di Baviera che li usava per decorare i giardini dei suoi palazzi, quindi arrivati in Pennsylvania attraverso gli Europei. Il potere incantatorio di questi oggetti risiede nel fatto che a chi guarda ad essi viene concessa la possibilità di vedere dietro le proprie spalle e fino agli angoli più lontani, con effetto panottico e anamorfico, assorbendo all’interno della stessa superficie il proprio riflesso e ogni altro elemento intorno al proprio corpo. Forme affascinanti, magiche, piacevoli anche per la loro leggerezza (si tratta di sfere di vetro soffiato) e per la loro associazione con il gioco infantile. Data la loro estrema fragilità sono anche associate all’effimera durata della vita umana – così come le bolle di sapone cui spesse volte vengono associate. Ecco perché la sfera, simbolo di perfezione, spesse volte è associata al tema della malinconia, stato d’animo provocato dal confronto dell’animo umano con l’incommensurabile. Come afferma Koons: “La serie denominata Gazing Ball ha alla base lo “sguardo del filosofo” che giunge alla trascendenza attraverso i sensi per poi dirigere la nostra visione verso l’eternità tramite la pura forma e l’idea”.
La scelta di installare il Fauno nella Sala dei Gigli, fastoso ambiente, decorato con pregevoli affreschi di Domenico Ghirlandaio (1449-1494), e una finta tappezzeria impreziosita dalla presenza di gigli d’oro -emblema angioino in campo azzurro- nasce dalla volontà di creare un dialogo tra il linguaggio rinascimentale e quello contemporaneo. La sala ospita anche l’originale in bronzo della Giuditta e Oloferne (1457 circa) di Donatello, una delle sculture più fascinose e significative del Quattrocento italiano. Di fronte al capolavoro donatelliano – Giuditta implacabile punitrice di Oloferne, intorpidito dalla bellezza virginale della giovane eroina, poi fiaccato dal vino, infine decapitato – il Fauno Barberini -nella versione rivisitata di Koons- si presenterà al pubblico ancora nella sua provocante posa, esempio di una bellezza non volgare, sebbene spinta al limite dell’osceno. La plateale esibizione del nudo, con i genitali in bella mostra, la posa sensuale, indice di una potenza sessuale selvaggia sembrerà provocare la stessa Giuditta, punitrice degli eccessi libidinosi, della perdizione sessuale, come simboleggiano i baccanali scolpiti a bassorilievo nel basamento. La sfera specchiante e di colore azzurro entrerà, altresì, in rapporto con l’effige in bronzo, e poi con il contesto decorativo della sala, con le sue dominanti cromatiche e il prezioso soffitto ligneo. Contrasti esaltati dall’operazione eseguita da Koons che affronta il quotidiano e l’eterno, la bellezza classica e l’estetica di massa, la sfera del mito e quella della mondanità, l’infanzia e la storia, Eros e Thanatos, mentre l’ambivalenza tra equilibrio e instabilità, originale e copia, oggetto artistico e merce, invita a riflettere anche sul rapporto tra immaginazione e serialità, tra metafisica e basso materialismo, tra stupore e mistificazione. Infine quello tra immagini classiche e simulacri post-moderni.
Altre relazioni, altri significati emergeranno in Piazza della Signoria dove, a poca distanza dalla copia in marmo del David di Michelangelo, sarà esposta una delle più celebri sculture di Jeff Koons, Pluto and Proserpina (2010-2013), un’opera monumentale, alta più di tre metri, in acciaio inox, lucidata a specchio e con una cromatura in color oro. Le due figure di Plutone e Proserpina, avvinghiate in un abbraccio drammatico e sensuale, scintilleranno alla luce del giorno e, illuminate durante la notte, strideranno in contrasto con le sculture in marmo e bronzo della piazza. Abbagliante presenza, l’opera di Koons, catturerà lo sguardo dei cittadini e dei turisti, unico originale tra le copie del David e della Giuditta sull’arengario. La superficie specchiante dell’opera di Koons funzionerà in modo da assorbire, catturare e liquefare tutto lo spazio circostante, con effetti di splendore abbacinante e di virtuosistica defigurazione. Le stesse forme del dio dell’Averno, quelle della sua futura sposa – Persefone per i greci- sembreranno liquefarsi in una materia fluida, quasi gelatinosa, fortemente sensuale, al limite della dissoluzione figurativa, con il risultato di disperdere i connotati iconografici, quindi il presupposto mitologico dell’immagine, assieme all’originale morfologia barocca di cui l’opera di Koons è in qualche modo una libera riproduzione. In effetti, Pluto and Proserpina di Koons s’ispira a una celebre opera di Gian Lorenzo Bernini, il Ratto di Proserpina (225 cm, base 109 cm), commissionata all’artista dal Cardinale Scipione Caffarelli Borghese ed eseguita tra il 1621 e il 1622, quando Bernini aveva di poco superato i vent’anni. Nei documenti dell’epoca il gruppo viene descritto in questi termini: “Una Proserpina di marmo che un Plutone la porta via alto palmi 12 in circa et un can trifauce con piedistallo di marmo con alcuni versi di faccia”. Alla base della scultura era stato apposto, infatti, un testo poetico dedicato all’opera del Bernini, adattamento di un distico composto dal cardinale Maffeo Barberini, poi papa Urbano VIII, impressionato dalla bellezza del marmo. Nei Dodici distichi per una Galleria, illustra, con epigrammi e brevi descrizioni, dodici quadri di una galleria immaginaria si legge: “Quisquis humi pronus flores legis, inspice saevi / me Ditis ad domum rapi”. Per questo il punto di vista privilegiato deve essere considerato quello frontale, visto che qui si trovava l’iscrizione di Maffeo Barberini. Guardando la scultura di Bernini, scopriamo, infatti, che Plutone ha già lasciato cadere a terra il suo scettro bidentato per agguantare con vigore la giovane che innalza la mano destra al cielo con un gesto di lamento, supplicando aiuto e rimarcando a questo modo con virtuoso effetto quell’ “inspice me” al centro dei versi.
Per meglio comprendere il soggetto, dobbiamo rileggere le Metamorfosi di Ovidio, laddove viene descritto il momento in cui il dio degli inferi aggredisce la figlia di Cerere, intenta a raccogliere fiori in un boschetto nei pressi di un lago. La dea “si stava divertendo a cogliere viole e candidi gigli, ne riempiva con fanciullesco zelo dei cestelli e i lembi della veste, gareggiando con le compagne a chi più ne coglieva, quando in un lampo Plutone la vide, se ne invaghì e la rapì: tanto precipitosa fu quella passione. Atterrita la dea invocava con voce accorata la madre e le compagne, ma più la madre; e poiché aveva strappato il lembo inferiore della veste, questa s’allentò e i fiori raccolti caddero a terra: tanto era il candore di quella giovane, che nel suo cuore di vergine anche la perdita dei fiori le causò dolore“. La mitica vicenda, secondo gli studiosi, si ricollega all’alternarsi delle stagioni: al freddo e al gelo dell’inverno, alla rinascita primaverile. Plutone, infatti, nella tradizione letteraria viene spesse volte descritto come immagine del Sole. Nel trattato Imagini di Vincenzo Cartari (1531ca.- post 1571), ad esempio, testo indispensabile per l’iconografia rinascimentale, si trova scritto: “[…] fu finto che Plutone, intendendo per lui il Sole, la rapì, e portossela in inferno, perche il calore del Sole nodrisce, e conserva sotto terra tutto il tempo dell’inverno il seminato grano”. Secondo Varrone, citato da Sant’Agostino, il nome Proserpina verrebbe addirittura da proserpere, che simboleggia lo “sgusciare fuori” del seme dalla terra. Nel marmo di Bernini, Proserpina, bella come la Venere di Prassitele, sta lottando invano per la sua verginità. Grida, spalancando la bocca, invoca la madre e le compagne. Nello sguardo di lei si leggono: vergogna per la sua nudità offesa, paura nei confronti della furia erotica di Plutone e commovente disperazione, perché tra pochissimo la ragazza conoscerà l’oscurità dell’Ade. I versi di Ovidio spiegano inoltre la presenza di mazzi di fiori freschi aggiunti, da Jeff Koons, con precisione filologica, alla sua nuova scultura in acciaio inox, che, a differenza di Bernini, ad esempio, omette la figura del cane Cerbero. Opera monumentale, ricordiamolo, Pluto and Proserpina verrà esposta dal 25 settembre sull’arengario di Palazzo Vecchio a poca distanza dalla copia del David, simbolo universale del rinascimento fiorentino, tanto quanto la Primavera del Botticelli agli Uffizi.
In tale posizione, si esplicita una diversa e più sottile relazione tra Pluto and Proserpina di Koons e il contesto espositivo di Piazza Signoria, con la sua sfilata di mirabili sculture. Il senso dell’arte, della bellezza e dell’amore come continua rinascita, come sublimazione del dolore e come superamento della morte (anche della morte dell’arte). Infatti, nel mito di “Plutone e Proserpina” la potenza ctonia di eros che può essere seminatrice di morte e di violenza – sia spirituale sia materiale – è contraddetta dalla forza generatrice della bellezza e dell’amore, dalla funzione vitale e solare dell’unione di maschile e femminile, così come di storia e immaginazione. La speciale collocazione di Pluto and Proserpina di Koons è stata pensata anche per esaltare la peculiare somiglianza di quest’opera con il Ratto delle Sabine del Giambologna (1529-1608) – posto sotto la Loggia dei Lanzi- e con il Genio della Vittoria del Buonarroti -conservato nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, massimi esempi di una soluzione spiraliforme del movimento nei corpi; suggerendoci inoltre che Bernini deve molto all’arte del cinquecento nella sua prodigiosa invenzione del Ratto di Proserpina. Secondo la critica, Gian Lorenzo Bernini, avrebbe, infatti, prima studiato l’Ercole e Anteo del Giambologna, per poi prendere spunto dall’opera del toscano Pietro da Barga (documentato da 1574 al 1588), autore di un bronzo di stesso soggetto -oggi conservato al Museo Nazionale del Bargello- forse ispirato ad un brano di Plinio, che nella Naturalis Historia, (XXXIV, 69) descrive un gruppo bronzeo di mano di Prassitele, avente a oggetto proprio il “Raptus Proserpinae”, così come ad un bronzo di Vincenzo de’ Rossi (1525-1587), fuso nel 1565 circa.
Ecco dunque che l’esposizione Jeff Koons In Florence si presenta come un gioioso e raffinato gioco di citazioni e di rinvii, di contrasti e di confronti tra antico e contemporaneo, dove la superficie scintillante nasconde il senso oscuro e magico della creazione in funzione anche apotropaica.
La mostra, visibile dal 26 settembre al 28 dicembre 2015, nasce da una proposta di Fabrizio Moretti ed è curata da Sergio Risaliti. Promossa dal Comune di Firenze, è organizzata da Mus.e con il contributo della Camera di Commercio, della Galleria Moretti e da David Zwirner con la collaborazione della Biennale Internazionale di Antiquariato di Firenze.
Luoghi
http://www.museicivicifiorentini.it/palazzovecchio 055 2768325 055 2768465
Sala dei Gigli, Palazzo Vecchio: Tutti i giorni escluso il giovedì: 9/23 - giovedì: 9/14 Arengario di Palazzo Vecchio. sempre fruibile