GUIDO PECCI “di Roma, di Napoli e d'altre cose sparse”
A cura di: Marco De Gemmis e Loredana Rea
Di Roma, di Napoli e d'altre cose sparse, proposta al MANN in collaborazione con la galleria Honos Art di Roma, presenta i più recenti lavori di Guido Pecci, artista formatosi a Roma e non nuovo a esposizioni nella città di Napoli.
Dopo “La casa di Giulia” (2005), in cui l’esilio a Ventotene della figlia di Augusto era narrato con solidale dolore per le accuse di immoralità e per l’eros a lei negato, con questa mostra Pecci, anche ribadendo il profondo ma liberissimo legame della sua arte con la tradizione, torna a riferirsi al mondo antico.
Nelle opere Pecci trasferisce la propria, personale esperienza delle due amatissime città, entrambe dense di stratificazioni storiche e sollecitanti contraddizioni ma per lui anzitutto spazi di libertà e poesia: ed è, la sua, un’esperienza inscindibile dalle innumerevoli tracce di antichità incontrate quotidianamente, che affiorano come reperti e icone misteriose opponendosi alla voracità dell’oblio e dimostrando la persistente e tuttora vibrante intensità di un tempo remoto, i cui resti, da lui mai pedissequamente citati, sono recuperati alla rigenerante vitalità del qui e ora e presentati senza alcun filtro distanziatore.
La sua, quindi, è un’antichità rimodellata dal proprio sguardo, reinventata, largamente trasfigurata, non accolta così come essa si presenta: in nessun volto può riconoscersi un preciso personaggio, e le cose da Pecci viste e riviste e sentimentalmente fatte proprie ci giungono, dipinte o modellate e quindi in maniera indelebile fissate e finalmente ‘tesaurizzate’, per lo più in uno stato frammentario o recando in sé la preziosa difficoltà dell’avvenuto affioramento: quasi mai sono perfettamente delineate o formate, talvolta sono proprio sbiadite o appena sbozzate. È quel che si può osservare per esempio nel grande Requiem (ampolla), dove Pecci trascrive come graffite da un disordinato imbrattatore di età neroniana le parole dell’ineffabile Trimalcione del Satyricon di Petronio sulla Sibilla Cumana decrepita e rinsecchita in un’ampolla sospesa, che, schernita dai ragazzi del posto e interrogata su cosa desiderasse, rispondeva «morire».
A completare il titolo della mostra, le “altre cose sparse”, anzitutto i suoi colori - «il nero, il grigio e il rosa (antico)» - e gli artisti che maggiormente lo stanno segnando.
La mostra, che comprende tele e carte di dimensioni differenti e frammenti di argilla, propone di inoltrarsi nella complessità di una ricerca espressiva mai monocorde, il cui obiettivo è un processo di costante scavalcamento dei risultati raggiunti per inseguire un insopprimibile bisogno di erranza che si nutre di suggestioni diverse: dalla poesia alla musica, dal cinema al proprio vissuto quotidiano, dalla pittura pompeiana ai graffiti sui muri delle periferie urbane, dai cui segni, così come da quelli del passato, Pecci è stato sempre profondamente suggestionato.
La mostra è accompagnata da un catalogo (Honos Art Edizioni) con testi critici di Marco De Gemmis e Loredana Rea.
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------
DELLA PITTURA E DI ALTRE COSE SPARSE
a recuperare l’incanto dell’antico
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia
Non c’è neppure solitudine fra i monti
Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
Da porte di case di fango screpolato
Thomas Stearns Eliot La terra desolata
Approdare alla pittura ha significato per Guido Pecci provare a recintare la complessità perturbante del proprio immaginario con una materia densa, che raccoglie e accoglie i sedimenti del quotidiano. In essa il divenire dell’esistenza lievita e germina, a creare immagini che colano lungo la tela prima di assumere la verticalità della superficie o si impastano a suggerire insospettate profondità in cui scavare. Lentamente tra le smagliature dell’ordito affiorano come reperti icone misteriose e potenti, sospese al farsi delle cose, per opporsi alla voracità dell’oblio. Tra occultamenti e svelamenti richiamano la persistente intensità di un tempo remoto, recuperato alla rigenerante vitalità dell’ora, che si distende affievolendo l’irriducibilità del reale.
Continuare a braccare i suoi mobili confini, armato di mappe tracciate sommariamente da chi insegue la possibilità di coniugare al presente, nel ritmo fratto dell’arte, il tempo passato, significa per Pecci cercare le impossibili certezze di un’esistenza sospesa al filo sottile di una bellezza che non può essere pienamente posseduta. Solo sfiorata, annusata, inseguita e poi sognata, ancora e ancora. Stando in piedi nella solitudine di una terra vasta, difficile da misurare anche solo con lo sguardo, o accoccolato tra le mura di sé, a respingere i presagi del futuro.
Lungo le tracce di sentieri già percorsi da altri o inoltrandosi per terre non ancora esplorate, accompagnato da brezze dolci o venti sferzanti che sostengono il passo o spingono a cambiare direzione, Pecci insegue immagini, o i frammenti di esse, che la grafite cattura veloce e la pittura invece decanta, ignara delle leggi di gravità, dopo aver trascinato i pensieri e le azioni nel vortice di impeti e impulsi che sembrano non conoscere sicuri ancoraggi.
L’approdo è sempre lontano eppure non è questo che lo preoccupa. A guidarlo è l’impalpabile eternità di un attimo, nella cui assolutezza il desiderio non può arrivare a compimento. Solamente lasciarsi assaporare fugacemente, per tornare e ritornare a centellinare l’incanto sensuale dell’antico, respiro vitalissimo che infiamma la sostanza della libertà espressiva e nutre l’idea del mondo che attraverso l’arte trova le sue coordinate culturali ed etiche.
Esplorando la dimensione labirintica e mai puramente citazionista di un antico ricercato e interiorizzato, Pecci ha elaborato un linguaggio stimolante e problematico, che procede mai in maniera lineare ma sempre inseguendo la tortuosità dei tracciati, per materializzare la corrente indistinta di pulsioni profonde e di istinti inarrestabili. A dominare è la necessità di spingere lo sguardo a penetrare sotto la pelle delle cose, per perdersi tra le pennellate livide, tra le sgocciolature opache e riaffiorare afferrando i bagliori improvvisi, che strappano la superficie.
La pittura per sua natura promiscua allo spirito e all’anima necessita di manipolazioni, contaminazioni, cancellazioni, prima di raggiungere un equilibrio sottile e mai definitivo, in cui la velocità e il rallentamento costituiscono i tempi differenti dell’ideazione e dell’esecuzione, della visione e della comprensione, della manualità e della riflessione. Le mani allora si lasciano guidare sulle carte e sulle tele, muovendosi come a cercare il punto di innesco che può avviare la gestazione di un’immagine, pronta a frapporsi alla diaspora della memoria e a generare una dimensione sospesa in cui serbare la consapevolezza di sé.
Come se spazio e tempo non esistessero fuori dalla pittura. È in essa che tutto trova il suo senso: i frammenti discinti aspettano di essere ricomposti, i colori di perdere la loro opacità tra le fessure dei rosa, dei gialli, degli azzurri e i reperti di argilla di essere recuperati dalle pieghe ctonie di un tempo che appare senza tempo.
Lento il fiume della pittura esce dal suo letto e oltrepassando gli argini bagna con i suoi umori fecondi le terre che accompagnano il suo farsi, mentre il racconto di un’intimità che non può essere svelata attende di essere narrato, per riannodare i fili spezzati di parole non dette, che tornano e ritornano come nenia sul proprio ritmo. A suggerire e mai spiegare.
Loredana Rea
Dopo “La casa di Giulia” (2005), in cui l’esilio a Ventotene della figlia di Augusto era narrato con solidale dolore per le accuse di immoralità e per l’eros a lei negato, con questa mostra Pecci, anche ribadendo il profondo ma liberissimo legame della sua arte con la tradizione, torna a riferirsi al mondo antico.
Nelle opere Pecci trasferisce la propria, personale esperienza delle due amatissime città, entrambe dense di stratificazioni storiche e sollecitanti contraddizioni ma per lui anzitutto spazi di libertà e poesia: ed è, la sua, un’esperienza inscindibile dalle innumerevoli tracce di antichità incontrate quotidianamente, che affiorano come reperti e icone misteriose opponendosi alla voracità dell’oblio e dimostrando la persistente e tuttora vibrante intensità di un tempo remoto, i cui resti, da lui mai pedissequamente citati, sono recuperati alla rigenerante vitalità del qui e ora e presentati senza alcun filtro distanziatore.
La sua, quindi, è un’antichità rimodellata dal proprio sguardo, reinventata, largamente trasfigurata, non accolta così come essa si presenta: in nessun volto può riconoscersi un preciso personaggio, e le cose da Pecci viste e riviste e sentimentalmente fatte proprie ci giungono, dipinte o modellate e quindi in maniera indelebile fissate e finalmente ‘tesaurizzate’, per lo più in uno stato frammentario o recando in sé la preziosa difficoltà dell’avvenuto affioramento: quasi mai sono perfettamente delineate o formate, talvolta sono proprio sbiadite o appena sbozzate. È quel che si può osservare per esempio nel grande Requiem (ampolla), dove Pecci trascrive come graffite da un disordinato imbrattatore di età neroniana le parole dell’ineffabile Trimalcione del Satyricon di Petronio sulla Sibilla Cumana decrepita e rinsecchita in un’ampolla sospesa, che, schernita dai ragazzi del posto e interrogata su cosa desiderasse, rispondeva «morire».
A completare il titolo della mostra, le “altre cose sparse”, anzitutto i suoi colori - «il nero, il grigio e il rosa (antico)» - e gli artisti che maggiormente lo stanno segnando.
La mostra, che comprende tele e carte di dimensioni differenti e frammenti di argilla, propone di inoltrarsi nella complessità di una ricerca espressiva mai monocorde, il cui obiettivo è un processo di costante scavalcamento dei risultati raggiunti per inseguire un insopprimibile bisogno di erranza che si nutre di suggestioni diverse: dalla poesia alla musica, dal cinema al proprio vissuto quotidiano, dalla pittura pompeiana ai graffiti sui muri delle periferie urbane, dai cui segni, così come da quelli del passato, Pecci è stato sempre profondamente suggestionato.
La mostra è accompagnata da un catalogo (Honos Art Edizioni) con testi critici di Marco De Gemmis e Loredana Rea.
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------
DELLA PITTURA E DI ALTRE COSE SPARSE
a recuperare l’incanto dell’antico
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia
Non c’è neppure solitudine fra i monti
Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
Da porte di case di fango screpolato
Thomas Stearns Eliot La terra desolata
Approdare alla pittura ha significato per Guido Pecci provare a recintare la complessità perturbante del proprio immaginario con una materia densa, che raccoglie e accoglie i sedimenti del quotidiano. In essa il divenire dell’esistenza lievita e germina, a creare immagini che colano lungo la tela prima di assumere la verticalità della superficie o si impastano a suggerire insospettate profondità in cui scavare. Lentamente tra le smagliature dell’ordito affiorano come reperti icone misteriose e potenti, sospese al farsi delle cose, per opporsi alla voracità dell’oblio. Tra occultamenti e svelamenti richiamano la persistente intensità di un tempo remoto, recuperato alla rigenerante vitalità dell’ora, che si distende affievolendo l’irriducibilità del reale.
Continuare a braccare i suoi mobili confini, armato di mappe tracciate sommariamente da chi insegue la possibilità di coniugare al presente, nel ritmo fratto dell’arte, il tempo passato, significa per Pecci cercare le impossibili certezze di un’esistenza sospesa al filo sottile di una bellezza che non può essere pienamente posseduta. Solo sfiorata, annusata, inseguita e poi sognata, ancora e ancora. Stando in piedi nella solitudine di una terra vasta, difficile da misurare anche solo con lo sguardo, o accoccolato tra le mura di sé, a respingere i presagi del futuro.
Lungo le tracce di sentieri già percorsi da altri o inoltrandosi per terre non ancora esplorate, accompagnato da brezze dolci o venti sferzanti che sostengono il passo o spingono a cambiare direzione, Pecci insegue immagini, o i frammenti di esse, che la grafite cattura veloce e la pittura invece decanta, ignara delle leggi di gravità, dopo aver trascinato i pensieri e le azioni nel vortice di impeti e impulsi che sembrano non conoscere sicuri ancoraggi.
L’approdo è sempre lontano eppure non è questo che lo preoccupa. A guidarlo è l’impalpabile eternità di un attimo, nella cui assolutezza il desiderio non può arrivare a compimento. Solamente lasciarsi assaporare fugacemente, per tornare e ritornare a centellinare l’incanto sensuale dell’antico, respiro vitalissimo che infiamma la sostanza della libertà espressiva e nutre l’idea del mondo che attraverso l’arte trova le sue coordinate culturali ed etiche.
Esplorando la dimensione labirintica e mai puramente citazionista di un antico ricercato e interiorizzato, Pecci ha elaborato un linguaggio stimolante e problematico, che procede mai in maniera lineare ma sempre inseguendo la tortuosità dei tracciati, per materializzare la corrente indistinta di pulsioni profonde e di istinti inarrestabili. A dominare è la necessità di spingere lo sguardo a penetrare sotto la pelle delle cose, per perdersi tra le pennellate livide, tra le sgocciolature opache e riaffiorare afferrando i bagliori improvvisi, che strappano la superficie.
La pittura per sua natura promiscua allo spirito e all’anima necessita di manipolazioni, contaminazioni, cancellazioni, prima di raggiungere un equilibrio sottile e mai definitivo, in cui la velocità e il rallentamento costituiscono i tempi differenti dell’ideazione e dell’esecuzione, della visione e della comprensione, della manualità e della riflessione. Le mani allora si lasciano guidare sulle carte e sulle tele, muovendosi come a cercare il punto di innesco che può avviare la gestazione di un’immagine, pronta a frapporsi alla diaspora della memoria e a generare una dimensione sospesa in cui serbare la consapevolezza di sé.
Come se spazio e tempo non esistessero fuori dalla pittura. È in essa che tutto trova il suo senso: i frammenti discinti aspettano di essere ricomposti, i colori di perdere la loro opacità tra le fessure dei rosa, dei gialli, degli azzurri e i reperti di argilla di essere recuperati dalle pieghe ctonie di un tempo che appare senza tempo.
Lento il fiume della pittura esce dal suo letto e oltrepassando gli argini bagna con i suoi umori fecondi le terre che accompagnano il suo farsi, mentre il racconto di un’intimità che non può essere svelata attende di essere narrato, per riannodare i fili spezzati di parole non dette, che tornano e ritornano come nenia sul proprio ritmo. A suggerire e mai spiegare.
Loredana Rea
Luoghi
http://cir.campania.beniculturali.it/museoarcheologiconazionale 081 4422149 081 440013
Aperto tutti i giorni dalle 9-19.30. Chiuso il martedi'