Giovanni Del Brenna. Ibidem
Gogol&Company presenta una personale del fotografo Giovanni Del Brenna, che sarà presente la sera dell’inaugurazione, giovedì 9 marzo.
La mostra, realizzata in collaborazione con la galleria di s.t. di Roma e curata da Matteo Di Castro, propone una selezione di tredici immagini tratte dal progetto Ibidem: una ricognizione, sulla metamorfosi delle grandi città, che tendono sempre più a somigliare l’una all’altra, a diventare lo “stesso posto” (in latino: ibidem). Da questa ricerca, sviluppata nel corso di sette anni utilizzando una Leica tradizionale con pellicola a colori, ha preso poi forma un libro, con i testi dell’antropologo Marc Augé e della storica della fotografia Carole Naggar.
Nato a Genova ma cresciuto a Rio de Janeiro, italiano di cultura francese, Giovanni Del Brenna ha poi vissuto tra Lisbona, Lille, Parigi, Londra, Milano, Napoli, Roma e New York, nutrendo il proprio lavoro di questo continuo transito fra luoghi diversi.
Proprio a New York (dove studia all’International Center of Photography) capisce che molti degli scenari che percorre e che sceglie di fotografare, avrebbero potuto essere messi a fuoco altrove.
Nasce così l’idea di abbinare le immagini di alcune metropoli attraversate nel corso del tempo (Los Angeles, Londra, Berlino, New York, Parigi, Milano, Singapore, Hong Kong, Shanghai e Tokyo), per comporre il ritratto di un’unica città virtuale: Ibidem.
Il progetto è stato prodotto ed esposto per la prima volta in Francia nel 2011, nell’ambito della mostra "Nos Vi[ll]es" all’Arsenal di Metz.
Il libro, edito in Olanda dal fotografo stesso, rende ancor più esplicito il suo obiettivo di “perdersi in una città immaginaria non sapendo più dove si è: si pensa di essere da qualche parte, si percepisce questo mondo come familiare, ma si è altrove”.
Le immagini in mostra documentano spesso la condizione di isolamento della figura umana (in particolare quella maschile) nello spazio urbano, nonché la consistenza teatrale che ogni luogo-non luogo tende ad assumere.
“Le cose non si abitano veramente, non coincidono più né con i loro luoghi né con i propri confini. Dubitano di se stesse e di noi e quindi diventano, istantaneamente, teatro”.
(Carole Naggar)
“Il paradosso e la sfida di Giovanni Del Brenna sono doppi: percorrere il mondo per trovarvi il contrario della diversità, illustrare la solitudine e l'isolamento per condividerne con altri l'evidenza.
Questa contraddizione è feconda; è quella di ogni iniziativa artistica. Gli aspetti ricorrenti del mondo sono quelli dello sguardo che se ne impadronisce, e questo stesso sguardo ha bisogno di un testimone. Ogni arte in questo senso è sociale.
Ma l'arte della fotografia è particolare: la fotografia seleziona isola, valorizza o mette in evidenza un dettaglio, una silhouette, una traccia che, per il solo fatto di questa attenzione, esprimono la mancanza e il bisogno di un'altra cosa. Questa mancanza, infine, è il loro segno distintivo ed è l'enigma dell'opera.
Tanto che alla fine ci si può chiedere: qual è esattamente l'oggetto della ricerca di Del Brenna: la solitudine del mondo o la sua? Certamente non si oppongono l'una all'altra e si comprende che cosa nello spettacolo del mondo di oggi affascina e cattura il nostro fotografo. Lost in translation: ritroviamo il paradosso iniziale; ci sentiamo vicini a coloro che esprimono così bene il nostro isolamento, e all'improvviso è come se fossimo un po' meno solitari – un po' più solidali?
E' questo in ogni caso che ci colpisce in queste fotografie dal fascino un po' disperato.”
(Marc Augé)
La mostra, realizzata in collaborazione con la galleria di s.t. di Roma e curata da Matteo Di Castro, propone una selezione di tredici immagini tratte dal progetto Ibidem: una ricognizione, sulla metamorfosi delle grandi città, che tendono sempre più a somigliare l’una all’altra, a diventare lo “stesso posto” (in latino: ibidem). Da questa ricerca, sviluppata nel corso di sette anni utilizzando una Leica tradizionale con pellicola a colori, ha preso poi forma un libro, con i testi dell’antropologo Marc Augé e della storica della fotografia Carole Naggar.
Nato a Genova ma cresciuto a Rio de Janeiro, italiano di cultura francese, Giovanni Del Brenna ha poi vissuto tra Lisbona, Lille, Parigi, Londra, Milano, Napoli, Roma e New York, nutrendo il proprio lavoro di questo continuo transito fra luoghi diversi.
Proprio a New York (dove studia all’International Center of Photography) capisce che molti degli scenari che percorre e che sceglie di fotografare, avrebbero potuto essere messi a fuoco altrove.
Nasce così l’idea di abbinare le immagini di alcune metropoli attraversate nel corso del tempo (Los Angeles, Londra, Berlino, New York, Parigi, Milano, Singapore, Hong Kong, Shanghai e Tokyo), per comporre il ritratto di un’unica città virtuale: Ibidem.
Il progetto è stato prodotto ed esposto per la prima volta in Francia nel 2011, nell’ambito della mostra "Nos Vi[ll]es" all’Arsenal di Metz.
Il libro, edito in Olanda dal fotografo stesso, rende ancor più esplicito il suo obiettivo di “perdersi in una città immaginaria non sapendo più dove si è: si pensa di essere da qualche parte, si percepisce questo mondo come familiare, ma si è altrove”.
Le immagini in mostra documentano spesso la condizione di isolamento della figura umana (in particolare quella maschile) nello spazio urbano, nonché la consistenza teatrale che ogni luogo-non luogo tende ad assumere.
“Le cose non si abitano veramente, non coincidono più né con i loro luoghi né con i propri confini. Dubitano di se stesse e di noi e quindi diventano, istantaneamente, teatro”.
(Carole Naggar)
“Il paradosso e la sfida di Giovanni Del Brenna sono doppi: percorrere il mondo per trovarvi il contrario della diversità, illustrare la solitudine e l'isolamento per condividerne con altri l'evidenza.
Questa contraddizione è feconda; è quella di ogni iniziativa artistica. Gli aspetti ricorrenti del mondo sono quelli dello sguardo che se ne impadronisce, e questo stesso sguardo ha bisogno di un testimone. Ogni arte in questo senso è sociale.
Ma l'arte della fotografia è particolare: la fotografia seleziona isola, valorizza o mette in evidenza un dettaglio, una silhouette, una traccia che, per il solo fatto di questa attenzione, esprimono la mancanza e il bisogno di un'altra cosa. Questa mancanza, infine, è il loro segno distintivo ed è l'enigma dell'opera.
Tanto che alla fine ci si può chiedere: qual è esattamente l'oggetto della ricerca di Del Brenna: la solitudine del mondo o la sua? Certamente non si oppongono l'una all'altra e si comprende che cosa nello spettacolo del mondo di oggi affascina e cattura il nostro fotografo. Lost in translation: ritroviamo il paradosso iniziale; ci sentiamo vicini a coloro che esprimono così bene il nostro isolamento, e all'improvviso è come se fossimo un po' meno solitari – un po' più solidali?
E' questo in ogni caso che ci colpisce in queste fotografie dal fascino un po' disperato.”
(Marc Augé)