Gioberto Noro. Aperture
A cura di: Valeria Ceregini
Il solo mondo che esiste è l’opaco e l’aprico ne è solo il rovescio. Italo Calvino, Dall’opaco in Romanzi e Racconti vol. III
La coppia di artisti Gioberto Noro, mossa da una pulsione cognitiva nella realizzazione dell’opera artistica, fa mostra della volontà di conoscere il reale passando attraverso il superamento intellettivo del mezzo fotografico che da semplice macchina diventa strumento d’indagine del mondo e, quindi, del Sé.
In loro l’“Io diviso” si ricongiunge in un perfetto connubio – en to pan – in cui la polarità femminile e maschile (coniunctio oppositorum) è superata da un rapporto di complementarietà percepibile nelle loro immagini in cui i princìpi cosmici si congiungono per dar vita a un’equilibrata unione fra i generi. La salda compostezza e l’androginia delle immagini è la chiara espressione del Rebis di Sergio Gioberto e Marilena Noro che affiora nel trattamento dell’immagine e nell’“individuazione” (in-dividuus, non diviso) degli elementi rappresentati facenti parte di un universo fotografico imprescindibile da quello reale. Il microcosmo fotografato risulta avere un effetto ricorsivo nei confronti del macrocosmo potendosi quindi definire una mise en abyme in cui la dimensione individuale è reiterata in quella universale.
La ricerca poetica di Gioberto Noro, basata sull’esplorazione della struttura della materia e, nel caso specifico la struttura della luce, scruta lo spazio come un agrimensore dando origine alla serie delle Mappe. Figure “umbratili” in cui la dimensione percettiva dello spazio è definita dal passaggio della luce che definisce e compone le forme del visibile studiate e analizzate nel dettaglio per ottenere il controllo dell’ombra. Le mappe per secoli sono state un elemento di studio e di conoscenza del territorio circostante di cui l’uomo ben presto si servì per definire il proprio dominio sulla natura o su altre civiltà. L’ambivalenza della cartografia come strumento di potere, oltre che identitario e di conoscenza, è in questo specifico caso artistico superata: essa diventa espressione energetica dell’erraticità del pensiero degli artisti che immersi nella natura alla ricerca del reale ne percepiscono i flussi ombrosi. La traduzione del percepito in visivo in scala uno a uno è la summa metaforica della loro azione conoscitiva intuitiva del mondo esterno in cui le immagini diventano il dispositivo ultimo per la comprensione della compenetrazione della luce nell’ombra come serie infinita di proiezioni di profili che essa definisce.
La metafora dell’“ombra illuminante” si rinnova fra le fronde del lucus di Aperture in cui gli artisti, operando nella licht, mantengono fede alle qualità percettive del loro mezzo espressivo attraverso il quale custodiscono i fugaci fenomeni luminosi (phainómena) che permeano la realtà fenomenica. Gioberto Noro agendo nell’opposizione congiunta di luminosità e oscurità della radura diventano essi stessi dei gelichteten capaci, secondo l’invito di Eraclito, di disvelare e preservare la Lichtung (Heidegger, 1927) attraverso una costruzione dell’ombra.
Le immagini della serie White rooms sono l’emblema di tutto questo processo conoscitivo e compositivo poiché è solo grazie alla padronanza del vuoto e al sapiente uso formale della luce che è possibile rendere visibile l’invisibile – Eraclito sosteneva che ciò che è nascosto e invisibile ha molta più rilevanza di quanto è apparente e visibile – e ottenere tale resa spaziale tridimensionale in contrasto con l’elemento fisico bidimensionale della fotografia. Come nel taglio di Fontana, anche qui siamo di fronte a un “concetto spaziale” in cui il superamento della superficie permette di varcare la soglia dell’immagine per entrare in uno “spazio altro” dove lo spettatore diventa parte integrante dell’opera dal momento che si instaura una relazione simmetrica e d’interazione con l’immagine.
All’esperienza estetica del vuoto, contemporaneamente, si deve aggiungere la consapevolezza che la serie White rooms è un’evidente costruzione artificiale che richiede al pubblico la “sospensione dell’incredulità” (Coleridge, 1817) affinché possa addentrarsi in quella visione particolare in cui è possibile apprezzare l’architettura della luce. La riproduzione del mondo, portatrice di un’ambiguità visiva, assume una pienezza e concretezza di cui solamente attraverso una visione percettiva della luce è possibile fruire della forma. La maquette, come una scatola scenica, riproduce lo spazio “aperto” (Rilke, 1922) del reale rivelandosi attraverso l’obiettivo della macchina fotografica posto dinanzi a catturare l’elemento luminoso restituendolo come una porzione del mondo che, per un processo gestaltico, la mente è portata a completare cogliendo nel particolare l’universale. Gioberto Noro operano così un “ritaglio” paradossale del mondo che si afferma solo ed esclusivamente nel momento stesso in cui è rappresentato come una porzione del campo visivo. Ciò avviene anche per le Aperture e le Mappe poiché, quest’ultime inoltre facenti già parte del paradosso di Borges, sono ascrivibili al “foglio dell’enunciazione” (Peirce, 1904) e come tali rappresentazioni formali e circoscritte del reale che può essere compreso solo se racchiuse nella cornice cognitiva. La fotografia è vissuta da Gioberto Noro come una catarsi aristotelica poiché pur ritagliando un frammento di realtà con determinati limiti ha la capacità deflagrativa di rivelare una realtà molto più ampia, come una visione in fieri capace di trascendere spiritualmente il campo compreso dall’obiettivo.
Facendo un excursus fra le opere appare chiaro come il significato intrinseco sia da rintracciarsi fra gli elementi di pieno e vuoto, ombra e luce, caos e ordine, due fasi della stessa logica della materia (Calvino, 1980). Attraverso questo dualismo è possibile risalire al rapporto dialettico e ancestrale fra silva e domus da cui perviene una stratificazione semantica dell’immagine. Ogni opera, infatti, contiene una pluralità di “forme simboliche” (Cassirer, 1923) e molteplici possibili rinvii a partire da uno stesso soggetto che secondo una diversa visione del mondo (Weltanschauung) è passibile di un arbitrario significato espressivo poiché legato alla sensibilità empatica di ciascuno di noi. Ogni forma di conoscenza è un’inferenza, nessun oggetto, nemmeno il nostro corpo o il nostro stesso Io, viene da noi raggiunto in modo non mediato e diretto: la realtà viene sempre mediata da uno strato di segni, inferenze, rappresentazioni. Il che vale anche per quanto riguarda la percezione: ogni cosa è frutto di interpretazioni precedenti ma attraverso l’embrayage è possibile disporsi percettivamente ai tempi e agli spazi della visione narrativa delle immagini di Gioberto Noro perché disseminate di luce sensibile che si contamina di metaforico appena accede al linguaggio testuale.
La coppia di artisti Gioberto Noro, mossa da una pulsione cognitiva nella realizzazione dell’opera artistica, fa mostra della volontà di conoscere il reale passando attraverso il superamento intellettivo del mezzo fotografico che da semplice macchina diventa strumento d’indagine del mondo e, quindi, del Sé.
In loro l’“Io diviso” si ricongiunge in un perfetto connubio – en to pan – in cui la polarità femminile e maschile (coniunctio oppositorum) è superata da un rapporto di complementarietà percepibile nelle loro immagini in cui i princìpi cosmici si congiungono per dar vita a un’equilibrata unione fra i generi. La salda compostezza e l’androginia delle immagini è la chiara espressione del Rebis di Sergio Gioberto e Marilena Noro che affiora nel trattamento dell’immagine e nell’“individuazione” (in-dividuus, non diviso) degli elementi rappresentati facenti parte di un universo fotografico imprescindibile da quello reale. Il microcosmo fotografato risulta avere un effetto ricorsivo nei confronti del macrocosmo potendosi quindi definire una mise en abyme in cui la dimensione individuale è reiterata in quella universale.
La ricerca poetica di Gioberto Noro, basata sull’esplorazione della struttura della materia e, nel caso specifico la struttura della luce, scruta lo spazio come un agrimensore dando origine alla serie delle Mappe. Figure “umbratili” in cui la dimensione percettiva dello spazio è definita dal passaggio della luce che definisce e compone le forme del visibile studiate e analizzate nel dettaglio per ottenere il controllo dell’ombra. Le mappe per secoli sono state un elemento di studio e di conoscenza del territorio circostante di cui l’uomo ben presto si servì per definire il proprio dominio sulla natura o su altre civiltà. L’ambivalenza della cartografia come strumento di potere, oltre che identitario e di conoscenza, è in questo specifico caso artistico superata: essa diventa espressione energetica dell’erraticità del pensiero degli artisti che immersi nella natura alla ricerca del reale ne percepiscono i flussi ombrosi. La traduzione del percepito in visivo in scala uno a uno è la summa metaforica della loro azione conoscitiva intuitiva del mondo esterno in cui le immagini diventano il dispositivo ultimo per la comprensione della compenetrazione della luce nell’ombra come serie infinita di proiezioni di profili che essa definisce.
La metafora dell’“ombra illuminante” si rinnova fra le fronde del lucus di Aperture in cui gli artisti, operando nella licht, mantengono fede alle qualità percettive del loro mezzo espressivo attraverso il quale custodiscono i fugaci fenomeni luminosi (phainómena) che permeano la realtà fenomenica. Gioberto Noro agendo nell’opposizione congiunta di luminosità e oscurità della radura diventano essi stessi dei gelichteten capaci, secondo l’invito di Eraclito, di disvelare e preservare la Lichtung (Heidegger, 1927) attraverso una costruzione dell’ombra.
Le immagini della serie White rooms sono l’emblema di tutto questo processo conoscitivo e compositivo poiché è solo grazie alla padronanza del vuoto e al sapiente uso formale della luce che è possibile rendere visibile l’invisibile – Eraclito sosteneva che ciò che è nascosto e invisibile ha molta più rilevanza di quanto è apparente e visibile – e ottenere tale resa spaziale tridimensionale in contrasto con l’elemento fisico bidimensionale della fotografia. Come nel taglio di Fontana, anche qui siamo di fronte a un “concetto spaziale” in cui il superamento della superficie permette di varcare la soglia dell’immagine per entrare in uno “spazio altro” dove lo spettatore diventa parte integrante dell’opera dal momento che si instaura una relazione simmetrica e d’interazione con l’immagine.
All’esperienza estetica del vuoto, contemporaneamente, si deve aggiungere la consapevolezza che la serie White rooms è un’evidente costruzione artificiale che richiede al pubblico la “sospensione dell’incredulità” (Coleridge, 1817) affinché possa addentrarsi in quella visione particolare in cui è possibile apprezzare l’architettura della luce. La riproduzione del mondo, portatrice di un’ambiguità visiva, assume una pienezza e concretezza di cui solamente attraverso una visione percettiva della luce è possibile fruire della forma. La maquette, come una scatola scenica, riproduce lo spazio “aperto” (Rilke, 1922) del reale rivelandosi attraverso l’obiettivo della macchina fotografica posto dinanzi a catturare l’elemento luminoso restituendolo come una porzione del mondo che, per un processo gestaltico, la mente è portata a completare cogliendo nel particolare l’universale. Gioberto Noro operano così un “ritaglio” paradossale del mondo che si afferma solo ed esclusivamente nel momento stesso in cui è rappresentato come una porzione del campo visivo. Ciò avviene anche per le Aperture e le Mappe poiché, quest’ultime inoltre facenti già parte del paradosso di Borges, sono ascrivibili al “foglio dell’enunciazione” (Peirce, 1904) e come tali rappresentazioni formali e circoscritte del reale che può essere compreso solo se racchiuse nella cornice cognitiva. La fotografia è vissuta da Gioberto Noro come una catarsi aristotelica poiché pur ritagliando un frammento di realtà con determinati limiti ha la capacità deflagrativa di rivelare una realtà molto più ampia, come una visione in fieri capace di trascendere spiritualmente il campo compreso dall’obiettivo.
Facendo un excursus fra le opere appare chiaro come il significato intrinseco sia da rintracciarsi fra gli elementi di pieno e vuoto, ombra e luce, caos e ordine, due fasi della stessa logica della materia (Calvino, 1980). Attraverso questo dualismo è possibile risalire al rapporto dialettico e ancestrale fra silva e domus da cui perviene una stratificazione semantica dell’immagine. Ogni opera, infatti, contiene una pluralità di “forme simboliche” (Cassirer, 1923) e molteplici possibili rinvii a partire da uno stesso soggetto che secondo una diversa visione del mondo (Weltanschauung) è passibile di un arbitrario significato espressivo poiché legato alla sensibilità empatica di ciascuno di noi. Ogni forma di conoscenza è un’inferenza, nessun oggetto, nemmeno il nostro corpo o il nostro stesso Io, viene da noi raggiunto in modo non mediato e diretto: la realtà viene sempre mediata da uno strato di segni, inferenze, rappresentazioni. Il che vale anche per quanto riguarda la percezione: ogni cosa è frutto di interpretazioni precedenti ma attraverso l’embrayage è possibile disporsi percettivamente ai tempi e agli spazi della visione narrativa delle immagini di Gioberto Noro perché disseminate di luce sensibile che si contamina di metaforico appena accede al linguaggio testuale.
Luoghi
www.albertopeola.com 011 8124460
orario:lun-sab 15.30-19.30, mattino su appuntamento