Giacinto Cerone. Una nota che non c’è
A cura di: Marco Tonelli
Montrasio Arte è lieta di annunciare Giacinto Cerone. Una nota che non c’è (inaugurazione lunedì 27 marzo), a cura di Marco Tonelli, saggio critico di Marco Tonelli, interviste di Adelaide Santambrogio e Ilaria Despina Bozzi.
In mostra una selezione di sculture in ceramica realizzate da Giacinto Cerone (Melfi 1957 - Roma 2004) dalla fine degli anni Novanta sino all’anno della sua prematura scomparsa. Il percorso espositivo si snoda attraverso una ventina di opere, tra le altre la serie dedicata ai fiumi del Vietnam. Un nucleo di fotografie e video corredano la mostra. I lavori di Giacinto Cerone (Melfi 1957 - Roma 2004) portano i segni di un’inquietudine profonda. Cerone aggredisce la materia, con gesti rapidi e incisivi. Tagli, torsioni, lacerazioni diventano la sintesi formale della prorompente composizione plastica dello scultore. Seppure Cerone abbia utilizzato in modo profondo e appassionato diversi materiali (legno, metallo, gesso, plexiglas, vetroresina, moplen, ceramica, marmo, pietra), è ovviamente la ceramica (e in buona parte il gesso) quello che ci trasmette in modo forse più diretto e letterale l’impronta della sua fisicità e della sua gestualità: il nucleo materico di partenza è infatti in questo caso una massa morbida, imprimibile e malleabile di creta che l’artista piegava direttamente con le mani, bucava con le dita, graffiava con le unghie, violentava con i gomiti, rompeva con i pugni o con i piedi, prendeva a bastonate. I blocchi geometrici e, appunto, vuoti, di terra cruda, che gli venivano preparati a partire dal 1993 e fino sua alla morte da Davide Servadei presso la Bottega Gatti di Faenza (nel 1991 Cerone aveva già realizzato numerose ceramiche ad Albisola presso le Ceramiche San Giorgio con Salino e Poggi e poche altre nel 1987), li sottoponeva a torsioni, rotture, squarci, fino a batterli violentemente con un tubo se il suo corpo non riusciva a farli esplodere di rabbia e disperazione, estasi e vita. Il modo di lavorare l’argilla per Cerone è stato sintomatico nel senso del sintomo in psicanalisi, secondo cioè rimossi e ritorni, sepolture ed emersioni in cui eventi dell’oggi risvegliano e risignificano traumi di ieri. Nel suo caso possiamo parlare non tanto né in modo autobiografico di scultura come trauma, ferita o lacerazione, ma del trauma della scultura, proiettando e trasformando nei processi stessi del farla (nel modo tipico di Cerone) qualsiasi originaria contesa con la materia o qualsivoglia attività esistenziale…
Un catalogo bilingue (italiano • inglese), edito da Silvana editoriale in collaborazione con l’Archivio Giacinto Cerone (Roma) e Montrasio Arte, accompagna l’esposizione. Un ampio apparato fotografico e documentario completa l’edizione.
In mostra una selezione di sculture in ceramica realizzate da Giacinto Cerone (Melfi 1957 - Roma 2004) dalla fine degli anni Novanta sino all’anno della sua prematura scomparsa. Il percorso espositivo si snoda attraverso una ventina di opere, tra le altre la serie dedicata ai fiumi del Vietnam. Un nucleo di fotografie e video corredano la mostra. I lavori di Giacinto Cerone (Melfi 1957 - Roma 2004) portano i segni di un’inquietudine profonda. Cerone aggredisce la materia, con gesti rapidi e incisivi. Tagli, torsioni, lacerazioni diventano la sintesi formale della prorompente composizione plastica dello scultore. Seppure Cerone abbia utilizzato in modo profondo e appassionato diversi materiali (legno, metallo, gesso, plexiglas, vetroresina, moplen, ceramica, marmo, pietra), è ovviamente la ceramica (e in buona parte il gesso) quello che ci trasmette in modo forse più diretto e letterale l’impronta della sua fisicità e della sua gestualità: il nucleo materico di partenza è infatti in questo caso una massa morbida, imprimibile e malleabile di creta che l’artista piegava direttamente con le mani, bucava con le dita, graffiava con le unghie, violentava con i gomiti, rompeva con i pugni o con i piedi, prendeva a bastonate. I blocchi geometrici e, appunto, vuoti, di terra cruda, che gli venivano preparati a partire dal 1993 e fino sua alla morte da Davide Servadei presso la Bottega Gatti di Faenza (nel 1991 Cerone aveva già realizzato numerose ceramiche ad Albisola presso le Ceramiche San Giorgio con Salino e Poggi e poche altre nel 1987), li sottoponeva a torsioni, rotture, squarci, fino a batterli violentemente con un tubo se il suo corpo non riusciva a farli esplodere di rabbia e disperazione, estasi e vita. Il modo di lavorare l’argilla per Cerone è stato sintomatico nel senso del sintomo in psicanalisi, secondo cioè rimossi e ritorni, sepolture ed emersioni in cui eventi dell’oggi risvegliano e risignificano traumi di ieri. Nel suo caso possiamo parlare non tanto né in modo autobiografico di scultura come trauma, ferita o lacerazione, ma del trauma della scultura, proiettando e trasformando nei processi stessi del farla (nel modo tipico di Cerone) qualsiasi originaria contesa con la materia o qualsivoglia attività esistenziale…
Un catalogo bilingue (italiano • inglese), edito da Silvana editoriale in collaborazione con l’Archivio Giacinto Cerone (Roma) e Montrasio Arte, accompagna l’esposizione. Un ampio apparato fotografico e documentario completa l’edizione.
Luoghi
www.montrasioarte.com 02 878448
orario: mar-ven 11-13 e 14-18