Flavia Franceschini – Gianfranco Goberti Ombre della memoria
A cura di: Silvia Pegoraro e Carlo Ciccarelli
Giovedì 4 giugno 2015, alle ore 18, la Ulisse Gallery Contemporary Art inaugurerà, nella prestigiosa sede di Via Capo le Case 32 in Roma, la mostra FLAVIA FRANCESCHINI / GIANFRANCO GOBERTI - Ombre della memoria (a cura di Silvia Pegoraro e Carlo Ciccarelli), che resterà allestita sino al 24 luglio 2015. Oltre trenta opere dei due artisti ferraresi - molte delle quali inedite - a delineare un percorso dialogico attraverso i temi dell’ombra, della memoria, dell’assenza, per interrogarsi sulla natura stessa dell’arte, e sul suo destino . Per l’occasione uscirà, a documentare la mostra, il n. 2 degli “Album di Ulisse” (Edizioni Grafiche Turato, a cura di S. Pegoraro).
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La genesi dell'arte è sempre una genesi dia-logica, in cui le differenze concorrono, dialogando, alla formazione di una specifica identità di senso. Proprio questo dialogo, che è anche dià-lògos, percorso attraverso la struttura espressiva della mente umana, vuole mettere in evidenza questa mostra, attraverso il dialogo tra le menti e le opere di due artisti italiani, entrambi nati e operanti nella splendida e “metafisica“ città di Ferrara: Flavia Franceschini e Gianfranco Goberti. Il linguaggio simbolico dell’arte è sommamente rispettoso della differenza e della distanza, come quelle che, per tanti versi, esistono tra Franceschini e Goberti, ma qui si vuole cogliere - pur nella diversità di presupposti e tecniche - un sottile fil rouge che lega i loro percorsi: un’indagine sulla dicotomia ombra-luce, che è anche una simbiosi, sia nella dimensione percettivo-strutturale sia in quella metaforica, e che porta a una presa di coscienza, anche, di quell’ombra che è propria dell’uomo contemporaneo, smarrito nella vertigine del quotidiano. I due artisti praticano intensamente, ognuno a suo modo, una metaforica dell'ombra, spaziando dalla concezione junghiana dell’ombra come forma dell'ambiguità, al Giordano Bruno del De umbris idearum, secondo il quale l'aspetto del divino a cui l'uomo può accedere non può darsi che nell'ombra.
Il rapporto che la scultrice Flavia Franceschini intrattiene con le sue opere è intensamente gestuale: la sua formazione di scultrice-intagliatrice in legno la induce ben presto a una sorta di corpo a corpo con la materia, con la sua resistenza e la sua solidità, che con l’andar del tempo e la sperimentazione di nuove tecniche e nuovi materiali (gesso, carta, colle, stoffa) , che alla “forza di levare” affiancano sempre più spesso la “via di porre”, si trasforma in fluidità e duttilità, stratificazione di memorie e velature.
Flavia Franceschini rielabora l’icona simbolista – e in qualche misura tardo-gotico e manierista - del femminile diafano e sognante, misterioso ed esoterico, dominato da una forte tensione spirituale. Mobilità, avvitamento, spiegamento, musicalità sono alcune delle sensazioni – tutte dinamiche – che suscitano nello spettatore le sue sculture, dove ogni corpo-figura genera il suo spazio assoluto, seguendo la traccia della memoria o del sogno, in un intrigante racconto visivo-visionario. Qui fiaba e realtà, storia e immaginazione si annodano ininterrottamente, ed è così che una strana e tenera Maternità e una sorta di autoritratto dell’artista possono dialogare con le figure mitiche della Fenice, di Teti e Melusina, di Orfeo ed Euridice e di Leda, e il duca Borso d’Este può perdersi in pianure dagli accenti fiabeschi che rinviano alla pittura ferrarese del ’400, ma anche a certi paesaggi visionari di Grünewald o Altdorfer, e nello stesso tempo ai desolati paesaggi interiori di Antonioni.
La scultura di Flavia Franceschini sembra svilupparsi secondo due tendenze contrarie: da una parte un movimento che coagula i fluidi, solidifica le trasparenze, ispessisce le luci ; dall’altra una tensione che porta la materia duttile, salda ma infinitamente sensibile, costellata di tracce, d’impronte leggere, di memorie di corpi, sempre sul punto di dissolversi, di disseminarsi, per ri-manifestarsi come visione di un’idea di spazio in cui è fondamentale la reversibilità interno/esterno, concavo/convesso, visibile/invisibile, come nella serie delle Diafane presenze.
La pittura di Gianfranco Goberti, dal cromatismo austero e sontuoso, s’inserisce per molti aspetti in una direzione di ricerca affine a quella della Metafisica, individuando la propria forma di specificità espressiva in una sorta di decontestualizzazione dei soggetti/oggetti . I suoi oggetti – corde e poltrone, camicie e cravatte maschili, frammenti e dettagli di statue antiche…- sono lì, sulla soglia della pittura, la celebrano e insieme ne denunciano l’illusione. Familiari ed estranei ad un tempo, riconoscibili ma improvvisamente assurdi, improvvisamente “eccessivi” ed enigmatici. Si avvicinano e s’ingigantiscono, questi oggetti, e insieme perdono quell’ambito di appartenenza che costituiva il loro orizzonte di comprensione. Focalizzando l’attenzione sull’”altra parte” del reale, e del visibile, Goberti carica le sue immagini di forza visionaria e “straniante”, e rinvia a quella “polivalenza metaforica del segno” che i Metafisici attribuivano all’architettura. E certo non mancano elementi architettonici in queste architetture di immagini di Goberti, che giocano spesso sulla potenza del “negativo”, di ciò che si può percepire solo in quanto assenza.
l pittore approfondisce un duplice aspetto dell’ombra : l’ombra proiettata, l’ombra come doppio di un corpo, che talora è assente dall’immagine, è sottratto alla nostra vista, e vive soltanto nel profilo misterioso e deformato del suo fantasma (come ne La spia, 2002). Queste ombre nitide ma senza identità, cariche di inquietudine e di mistero, ci proiettano già nell’universo dell’ombra “assoluta” di Goberti: l’ombra che inghiotte il volto, come nello splendido Pugile all’angolo (2005), o ne Il testimone (2012), o ancora nel maestoso e umiliato Icaro dalle ali bruciate (2000). Goberti ci guida in un viaggio nell’immagine ai confini della sua sparizione: un non-vedere essenziale alla genesi della visione; un arcaico immemoriale, vertiginoso, che è compito paradossale dell’arte conservare all’interno dell’opera.
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La genesi dell'arte è sempre una genesi dia-logica, in cui le differenze concorrono, dialogando, alla formazione di una specifica identità di senso. Proprio questo dialogo, che è anche dià-lògos, percorso attraverso la struttura espressiva della mente umana, vuole mettere in evidenza questa mostra, attraverso il dialogo tra le menti e le opere di due artisti italiani, entrambi nati e operanti nella splendida e “metafisica“ città di Ferrara: Flavia Franceschini e Gianfranco Goberti. Il linguaggio simbolico dell’arte è sommamente rispettoso della differenza e della distanza, come quelle che, per tanti versi, esistono tra Franceschini e Goberti, ma qui si vuole cogliere - pur nella diversità di presupposti e tecniche - un sottile fil rouge che lega i loro percorsi: un’indagine sulla dicotomia ombra-luce, che è anche una simbiosi, sia nella dimensione percettivo-strutturale sia in quella metaforica, e che porta a una presa di coscienza, anche, di quell’ombra che è propria dell’uomo contemporaneo, smarrito nella vertigine del quotidiano. I due artisti praticano intensamente, ognuno a suo modo, una metaforica dell'ombra, spaziando dalla concezione junghiana dell’ombra come forma dell'ambiguità, al Giordano Bruno del De umbris idearum, secondo il quale l'aspetto del divino a cui l'uomo può accedere non può darsi che nell'ombra.
Il rapporto che la scultrice Flavia Franceschini intrattiene con le sue opere è intensamente gestuale: la sua formazione di scultrice-intagliatrice in legno la induce ben presto a una sorta di corpo a corpo con la materia, con la sua resistenza e la sua solidità, che con l’andar del tempo e la sperimentazione di nuove tecniche e nuovi materiali (gesso, carta, colle, stoffa) , che alla “forza di levare” affiancano sempre più spesso la “via di porre”, si trasforma in fluidità e duttilità, stratificazione di memorie e velature.
Flavia Franceschini rielabora l’icona simbolista – e in qualche misura tardo-gotico e manierista - del femminile diafano e sognante, misterioso ed esoterico, dominato da una forte tensione spirituale. Mobilità, avvitamento, spiegamento, musicalità sono alcune delle sensazioni – tutte dinamiche – che suscitano nello spettatore le sue sculture, dove ogni corpo-figura genera il suo spazio assoluto, seguendo la traccia della memoria o del sogno, in un intrigante racconto visivo-visionario. Qui fiaba e realtà, storia e immaginazione si annodano ininterrottamente, ed è così che una strana e tenera Maternità e una sorta di autoritratto dell’artista possono dialogare con le figure mitiche della Fenice, di Teti e Melusina, di Orfeo ed Euridice e di Leda, e il duca Borso d’Este può perdersi in pianure dagli accenti fiabeschi che rinviano alla pittura ferrarese del ’400, ma anche a certi paesaggi visionari di Grünewald o Altdorfer, e nello stesso tempo ai desolati paesaggi interiori di Antonioni.
La scultura di Flavia Franceschini sembra svilupparsi secondo due tendenze contrarie: da una parte un movimento che coagula i fluidi, solidifica le trasparenze, ispessisce le luci ; dall’altra una tensione che porta la materia duttile, salda ma infinitamente sensibile, costellata di tracce, d’impronte leggere, di memorie di corpi, sempre sul punto di dissolversi, di disseminarsi, per ri-manifestarsi come visione di un’idea di spazio in cui è fondamentale la reversibilità interno/esterno, concavo/convesso, visibile/invisibile, come nella serie delle Diafane presenze.
La pittura di Gianfranco Goberti, dal cromatismo austero e sontuoso, s’inserisce per molti aspetti in una direzione di ricerca affine a quella della Metafisica, individuando la propria forma di specificità espressiva in una sorta di decontestualizzazione dei soggetti/oggetti . I suoi oggetti – corde e poltrone, camicie e cravatte maschili, frammenti e dettagli di statue antiche…- sono lì, sulla soglia della pittura, la celebrano e insieme ne denunciano l’illusione. Familiari ed estranei ad un tempo, riconoscibili ma improvvisamente assurdi, improvvisamente “eccessivi” ed enigmatici. Si avvicinano e s’ingigantiscono, questi oggetti, e insieme perdono quell’ambito di appartenenza che costituiva il loro orizzonte di comprensione. Focalizzando l’attenzione sull’”altra parte” del reale, e del visibile, Goberti carica le sue immagini di forza visionaria e “straniante”, e rinvia a quella “polivalenza metaforica del segno” che i Metafisici attribuivano all’architettura. E certo non mancano elementi architettonici in queste architetture di immagini di Goberti, che giocano spesso sulla potenza del “negativo”, di ciò che si può percepire solo in quanto assenza.
l pittore approfondisce un duplice aspetto dell’ombra : l’ombra proiettata, l’ombra come doppio di un corpo, che talora è assente dall’immagine, è sottratto alla nostra vista, e vive soltanto nel profilo misterioso e deformato del suo fantasma (come ne La spia, 2002). Queste ombre nitide ma senza identità, cariche di inquietudine e di mistero, ci proiettano già nell’universo dell’ombra “assoluta” di Goberti: l’ombra che inghiotte il volto, come nello splendido Pugile all’angolo (2005), o ne Il testimone (2012), o ancora nel maestoso e umiliato Icaro dalle ali bruciate (2000). Goberti ci guida in un viaggio nell’immagine ai confini della sua sparizione: un non-vedere essenziale alla genesi della visione; un arcaico immemoriale, vertiginoso, che è compito paradossale dell’arte conservare all’interno dell’opera.
Luoghi
www.ulissegallery.com 0669380596
Orari: dal lunedì al venerdì, ore 11.00- 19.00 Ingresso: libero