Filippo Cavalli “Sand”
A cura di: Anna Vittoria Zuliani
“Sand” è una raccolta di “paesaggi di sabbia”, attraversati e fotografati da Filippo Cavalli durante un viaggio in Marocco nel 2017. Nove immagini di questo progetto saranno esposte alle pareti della CUBO Gallery e dello spazio entropia al CUBO di Parma da venerdì 19 ottobre.
Il fotografo colleziona “sandlandscapes” durante il progressivo allontanamento dai luoghi centrali più densamente abitati del Paese nordafricano, e riflette sulla immobilità e la distanza atemporale tipica di questi territori. Nelle immagini l’uomo compare inizialmente come co-protagonista al fianco dell’architettura, e scompare totalmente negli spazi a margine, caratterizzati dall’assenza e dall’abbandono. Lo spazio desertico nelle inquadrature aumenta parallelamente alla distanza percorsa, e proprio dove l’uomo rivela la propria assenzal’architettura mostra unabellezza di forme purissime, scultoree. L’uomo è piccolo di fronte alla vastità del deserto, dove non è possibile mettere radici: vi restano i segni del suo passaggio, lasciati nel tentativo di addomesticare questo luogo selvaggio.
“Sand” è dunque una raccolta di fotografie di paesaggi avvolti dalla sabbia del Marocco, immobili e sospesi in un’atmosfera di piccole particelle ocra, miele, arancio e rosa. Il sole alto del mezzogiorno cancella ogni ombra, brucia i colori e sfuma i contorni degli elementi: ogni cosa sembra illuminata dal suo interno.
Il fotografo è spesso solo di fronte a questo scenario nudo sospeso tra la terra e il cielo, la lontananza è tangibile. L’uomo che generalmente lo abita è al riparo, e il paesaggio sembraspopolato:quidomina il confronto tra deserto e architettura. Una sorta di atmosfera di calore, luce e sabbia sembra cristallizzare il tempo che scorre in questi luoghi. Come una membrana protettiva e alienante, li preservadalla contaminazione della modernità, dal superfluo che attanaglia i nostri territori. Poche eccezioniforano e penetrano questa membrana.
Quelli di sabbia sono paesaggi che impressionano per la loro essenzialità di forme, caratterizzati da una costante ricerca di soluzioni alle necessità: l’architettura nella sua accezione primitiva e primaria di riparo, i più elementari mezzi di trasporto, l’abbigliamento che riveste la sola funzione protettiva dalla polvere, dal sole e dal vento. Tutto sembra così essenziale e lontano dalla ridondanza dei nostri contesti occidentali, traboccanti, gonfi di oggetti di consumo. L’immutabilità di questi luoghi è al centro della ricerca del fotografo, che ci rivela una essenzialità inconcepibile ai nostri occhi. Potrebbero accompagnare queste immagini le parole che usa il poeta Tahar Ben Jelloun per descrivere il Marocco. “È poesia/generata dall’assenza/un paese che nasce/sul bordo del tempo e dell’esilio/dopo un sonno profondo” (da Stelle velate. Poesie 1966-1995, Einaudi, 1998)
La densità dei luoghi abitati si contrappone alla tanto maggiore vastità di spazio desertico che li circonda. La sensazione è quella di paesaggi tentati, incompiuti, interrotti. Fermi nel tempo e silenziosi. Li illumina una luce sacraabbagliantee li avvolge un inesorabile manto di polvere e sabbia.
Il fotografo colleziona “sandlandscapes” durante il progressivo allontanamento dai luoghi centrali più densamente abitati del Paese nordafricano, e riflette sulla immobilità e la distanza atemporale tipica di questi territori. Nelle immagini l’uomo compare inizialmente come co-protagonista al fianco dell’architettura, e scompare totalmente negli spazi a margine, caratterizzati dall’assenza e dall’abbandono. Lo spazio desertico nelle inquadrature aumenta parallelamente alla distanza percorsa, e proprio dove l’uomo rivela la propria assenzal’architettura mostra unabellezza di forme purissime, scultoree. L’uomo è piccolo di fronte alla vastità del deserto, dove non è possibile mettere radici: vi restano i segni del suo passaggio, lasciati nel tentativo di addomesticare questo luogo selvaggio.
“Sand” è dunque una raccolta di fotografie di paesaggi avvolti dalla sabbia del Marocco, immobili e sospesi in un’atmosfera di piccole particelle ocra, miele, arancio e rosa. Il sole alto del mezzogiorno cancella ogni ombra, brucia i colori e sfuma i contorni degli elementi: ogni cosa sembra illuminata dal suo interno.
Il fotografo è spesso solo di fronte a questo scenario nudo sospeso tra la terra e il cielo, la lontananza è tangibile. L’uomo che generalmente lo abita è al riparo, e il paesaggio sembraspopolato:quidomina il confronto tra deserto e architettura. Una sorta di atmosfera di calore, luce e sabbia sembra cristallizzare il tempo che scorre in questi luoghi. Come una membrana protettiva e alienante, li preservadalla contaminazione della modernità, dal superfluo che attanaglia i nostri territori. Poche eccezioniforano e penetrano questa membrana.
Quelli di sabbia sono paesaggi che impressionano per la loro essenzialità di forme, caratterizzati da una costante ricerca di soluzioni alle necessità: l’architettura nella sua accezione primitiva e primaria di riparo, i più elementari mezzi di trasporto, l’abbigliamento che riveste la sola funzione protettiva dalla polvere, dal sole e dal vento. Tutto sembra così essenziale e lontano dalla ridondanza dei nostri contesti occidentali, traboccanti, gonfi di oggetti di consumo. L’immutabilità di questi luoghi è al centro della ricerca del fotografo, che ci rivela una essenzialità inconcepibile ai nostri occhi. Potrebbero accompagnare queste immagini le parole che usa il poeta Tahar Ben Jelloun per descrivere il Marocco. “È poesia/generata dall’assenza/un paese che nasce/sul bordo del tempo e dell’esilio/dopo un sonno profondo” (da Stelle velate. Poesie 1966-1995, Einaudi, 1998)
La densità dei luoghi abitati si contrappone alla tanto maggiore vastità di spazio desertico che li circonda. La sensazione è quella di paesaggi tentati, incompiuti, interrotti. Fermi nel tempo e silenziosi. Li illumina una luce sacraabbagliantee li avvolge un inesorabile manto di polvere e sabbia.