Fabio Adani “Ubique”
A cura di: Francesca Baboni
Si inaugura venerdì 19 febbraio alle ore 18.00 presso la Galleria Loppis Open Lab di Parma la mostra personale di Fabio Adani “Ubique” a cura di Francesca Baboni, con un progetto inedito sul rapporto tra uomo, montagna e senso del divino onnipresente in natura, come indicato anche dal titolo dell'esposizione.
Come scrive la curatrice: “Fabio Adani riprende un tema antico riattualizzandolo con un'accezione contemporanea e facendone un diario di viaggio indicativo per un cammino di personale ascesi. Le immagini si rincorrono assieme a brevi appunti di vita vissuta e studi su carta, suscitando riflessioni che prendono inizio dal rapporto uomo-natura ma che diventano indagini accurate, trasportandoci in una meta - dimensione più interiore, filosofica o spirituale. Il suo individuale Sturm und drang, giocato sulla dicotomia tra l'imponente materia rocciosa e cieli sfumati, si va a costituire in un insieme di memorie visive e riflessioni sul senso del camminare umano, in un percorso espositivo che attua una illusoria continuità tra opera e parete. Ciò che pare profilarsi all'orizzonte come se fosse visivamente davanti a noi, non assume più un valore naturalistico in sé, ma diviene viatico per cogliere lo spirito più profondo del luogo, all'insegna di un' identificazione con l'anima stessa di chi ha la possibilità di accedervi. Dal Catinaccio alle Pale di San Martino, passando dal Campanile di Val Montanaia, dalla sembianza di figura umana che guarda verso l'infinito, il Sacro non è mai stato così vicino, ubique. Non è dunque la sua un'idea stereotipata ma un'esperienza vissuta e tangibile catturata dal segno. La catena delle Dolomiti, in cui svettano cime che appaiono fortezze difficilmente espugnabili, piramidi attrattive e intriganti come antichi templi, viene trasfigurata dall'immaginario dell'artista che le trasforma in apparizioni oniriche rielaborate dalla sua memoria, in un viaggio raccontato attraverso la suggestione mentale di un'atmosfera. Mentre la pennellata si perde mirabilmente nei profili appena tratteggiati dal raffinato e sapiente virtuosismo della grafite arricchita da interventi a tecnica mista, la pesantezza del colosso si fonde assieme alla leggerezza e alla trasparenza delle nubi e all'orizzonte che a poco a poco va a svanire. L'uomo lascia segni del suo passaggio, ma non appare quasi mai se non piccolissimo di fronte alla mostruosità della natura, pronto a sfidarla trepidante per raggiungere la vetta e librarsi in volo. L'installazione al centro della stanza allude proprio a questa scalata in divenire, come se si osservasse il panorama dall'alto. Ecco che l'atto del salire si rivela meditazione e ricerca di un silenzio interiore, di un tempo lento, quello del passo di chi va alla ricerca di una pace introvabile, lasciandosi dietro la zavorra di un contesto urbano schizofrenico divenuto oramai insopportabile.
Ed è quella la meta. Sentire il respiro della montagna come presenza viva e pulsante e arrivare a rapportarsi a lei, al suo mistero di eternità assoluta, con l'occhio che si allarga e si perde verso l'infinito occupando l'intero spazio circostante, nel momento in cui il semplice atto del vedere diviene metafora dell'esistere.”
Come scrive la curatrice: “Fabio Adani riprende un tema antico riattualizzandolo con un'accezione contemporanea e facendone un diario di viaggio indicativo per un cammino di personale ascesi. Le immagini si rincorrono assieme a brevi appunti di vita vissuta e studi su carta, suscitando riflessioni che prendono inizio dal rapporto uomo-natura ma che diventano indagini accurate, trasportandoci in una meta - dimensione più interiore, filosofica o spirituale. Il suo individuale Sturm und drang, giocato sulla dicotomia tra l'imponente materia rocciosa e cieli sfumati, si va a costituire in un insieme di memorie visive e riflessioni sul senso del camminare umano, in un percorso espositivo che attua una illusoria continuità tra opera e parete. Ciò che pare profilarsi all'orizzonte come se fosse visivamente davanti a noi, non assume più un valore naturalistico in sé, ma diviene viatico per cogliere lo spirito più profondo del luogo, all'insegna di un' identificazione con l'anima stessa di chi ha la possibilità di accedervi. Dal Catinaccio alle Pale di San Martino, passando dal Campanile di Val Montanaia, dalla sembianza di figura umana che guarda verso l'infinito, il Sacro non è mai stato così vicino, ubique. Non è dunque la sua un'idea stereotipata ma un'esperienza vissuta e tangibile catturata dal segno. La catena delle Dolomiti, in cui svettano cime che appaiono fortezze difficilmente espugnabili, piramidi attrattive e intriganti come antichi templi, viene trasfigurata dall'immaginario dell'artista che le trasforma in apparizioni oniriche rielaborate dalla sua memoria, in un viaggio raccontato attraverso la suggestione mentale di un'atmosfera. Mentre la pennellata si perde mirabilmente nei profili appena tratteggiati dal raffinato e sapiente virtuosismo della grafite arricchita da interventi a tecnica mista, la pesantezza del colosso si fonde assieme alla leggerezza e alla trasparenza delle nubi e all'orizzonte che a poco a poco va a svanire. L'uomo lascia segni del suo passaggio, ma non appare quasi mai se non piccolissimo di fronte alla mostruosità della natura, pronto a sfidarla trepidante per raggiungere la vetta e librarsi in volo. L'installazione al centro della stanza allude proprio a questa scalata in divenire, come se si osservasse il panorama dall'alto. Ecco che l'atto del salire si rivela meditazione e ricerca di un silenzio interiore, di un tempo lento, quello del passo di chi va alla ricerca di una pace introvabile, lasciandosi dietro la zavorra di un contesto urbano schizofrenico divenuto oramai insopportabile.
Ed è quella la meta. Sentire il respiro della montagna come presenza viva e pulsante e arrivare a rapportarsi a lei, al suo mistero di eternità assoluta, con l'occhio che si allarga e si perde verso l'infinito occupando l'intero spazio circostante, nel momento in cui il semplice atto del vedere diviene metafora dell'esistere.”