Dario Maglionico. Claustrophilia
La rottura degli schemi tradizionali di rappresentazione, inevitabile portato delle Avanguardie del Novecento, assume oggi un particolare rilievo nelle espressioni figurative, talora condensandosi in una non rara forma di deflagrazione dei rapporti di spazio e tempo.
A frantumarsi, nell’ambito della pittura, è soprattutto la linearità narrativa, l’unità del racconto che lascia il campo alla convivenza, a tratti confusa, di una pluralità di episodi, spesso affastellati l’uno sull’altro, convergenti e compresenti in una dimensione destrutturata.
La simultaneità di episodi è, tuttavia, il sintomo di un diverso modo di concepire la realtà. L’idea, cioè, che possano convivere, all’interno dello spazio convenzionale della tela, diversi punti di vista, è, in verità, ormai diventata una prassi ampiamente diffusa.
Per molti pittori contemporanei, e segnatamente per quelli provenienti dall’ex DDR o dai paesi europei che facevano parte del blocco sovietico, la destrutturazione del racconto visivo documenta una reale frantumazione (e poi un tentativo di ricostruzione) del tessuto sociale nel quale sono cresciuti, mentre per gli artisti occidentali, un tempo tutelati dal Patto Atlantico, questo modello di rappresentazione policentrica è una risposta all’affermarsi di un linguaggio visivo banalizzato e deteriorato tanto nella forma quanto nei contenuti. Penso qui, soprattutto all’impoverimento dell’immaginario massmediatico e delle varie forme di comunicazione nella società dei consumi, che ha imposto agli artisti più coscienziosi un necessario ripensamento dei valori formali e dei contenuti della pittura figurativa.
Che ne siano coscienti o meno, gli artisti oggi sono influenzati da nuovi modelli percettivi della realtà, conseguenti tanto alla diffusione massiccia delle tecnologie digitali, che spesso induce nuovi modelli operativi, quanto alle conquiste nel campo delle scienze derivate dall’applicazione della meccanica quantistica in nuove branche di ricerca. Basti pensare, come spiega il fisico teorico Carlo Rovelli, membro dell’Institut universitaire de France e dell’Académie internationale de philosophie des sciences, che “le equazioni della meccanica quantistica e le loro conseguenze vengono usate quotidianamente da fisici, ingegneri, chimici e biologi nei campi più svariati”1 e inoltre che, senza di esse, buona parte della tecnologia che oggi utilizziamo non esisterebbe.
Nello specifico caso della pittura di Dario Maglionico, la destrutturazione del linguaggio narrativo attraverso la simultaneità di episodi che rompono la continuità del racconto, è il risultato di una riflessione sul concetto di reificazione, termine filosofico, che peraltro dà il titolo a una serie di opere, utilizzato da Karl Marx per descrivere la mercificazione (o riduzione a oggetto) delle persone e del complesso delle loro credenze morali, politiche, culturali e psicologiche. Nei dipinti di Maglionico questa riduzione oggettuale della persona assume i connotati di una traccia mnemonica, un’apparizione sfocata, ma localizzata tra le pareti di un interno domestico. Non è tanto la persona fisica a essere reificata, ma piuttosto il suo residuo psicologico e morale, impresso, anche se in modo aleatorio e fantasmatico, tra le maglie architettoniche dell’unità abitativa. Provvisoria e simultanea nelle tele dell’artista è, infatti, la presenza umana, che la casa assorbe come impronta parziale e dinamica di un passaggio, di un attraversamento che sembra imprimersi, come uno strascico, nel mobile tessuto spazio-temporale. Naturalmente, anche l’impianto fisico in cui si muovono (o si muovevano) le figure umane, risulta modificato. Il punto di vista dell’osservatore, nel registrare simultaneamente i diversi momenti dell’azione, subisce lievi alterazioni e così la posizione dei quadri alle pareti, dei mobili, dei complementi d’arredo - ma anche la loro stessa conformazione - diventa instabile, imprecisa, oscillante.
Certo si potrebbe affermare, semplicemente, che nella pittura di Dario Maglionico la realtà è il risultato di una creazione arbitraria della mente, la sintesi visiva e opinabile di qualcosa di troppo complesso da descrivere. Tuttavia, la veridicità del suo modello rappresentativo troverebbe facilmente riscontro nelle teorie della fisica moderna, confortata, per esempio, dalla descrizione dei salti quantici nelle particelle subatomiche, il cosiddetto principio di “non località” o dalla scoperta, da Einstein in poi, della natura fondamentalmente illusoria e soggettiva dei concetti di spazio e tempo. In fondo, Maglionico è un pittore realista, anche se il suo realismo non obbedisce più, o non solo, ai principi della fisica newtoniana.
D’altro canto, egli sembra interessato a esplorare anche alcuni processi psichici che, come spiegavo altrove, possono riferirsi al variegato ambito delle ricerche sul Campo Mentale.
“Mi sono reso conto”, afferma, infatti, l’artista, “che i miei sono tutti ritratti di famiglia, in cui i miei genitori, i miei zii, la mia ragazza, costituiscono varianti differenziate della mia identità”. Nel tentativo di individuare le ragioni intime della sua pittura, Maglionico ha riscontrato una similitudine con una forma di psiconevrosi chiamata claustrofilia. La claustrofilia, una tendenza morbosa a vivere in spazi chiusi e appartati, esprime l’esigenza dell’individuo di fondersi con le figure genitoriali, rispondendo a un profondo desiderio di protezione che non assume necessariamente un carattere patologico.
Nei dipinti di Maglionico le figure familiari, con la loro qualità effimera ed evanescente, sono quindi espressioni di un io frazionato, parcellizzato in una pletora di entità esterne. In tal senso, l’interno domestico, contenitore di quelle apparizioni, diventa metafora stessa dell’individuo, un luogo appartato e sicuro, un argine contro le pressioni provenienti dall’esterno o, come scriveva John Ruskin, “il luogo della pace; il rifugio, non soltanto da ogni torto, ma anche da ogni paura, dubbio e discordia”.
Quello che emerge dalla serie delle Reificazioni di Dario Maglionico è, quindi, l’espressione del convergere di una varietà d’istanze: dalle ragioni puramente linguistiche e formali, che riguardano, come dicevo, la necessità di riformulare i parametri della rappresentazione figurativa adeguandola a nuove necessità espressive, fino ai contenuti psicologici ed emotivi, che costituiscono invece l’ossatura tematica e, se vogliamo, motivazionale di questo ciclo di opere. Intendo dire che nella ricerca dell’artista, la sintesi linguistica e la disanima psicologica sono strettamente correlate in un sistema di scambi in cui l’una alimenta l’altra. Il linguaggio espressivo, infatti, può generare i temi, che, a loro volta, possono suscitare nuove soluzioni pittoriche.
Il motivo della claustrofilia, che l’artista ha individuato ex post, cioè solo dopo la realizzazione delle più recenti Reificazioni e, dunque, per effetto di un’analisi a freddo sulle ragioni della propria pittura, diventa ancora più radicale nella serie degli Studi del buio.
Sono opere caratterizzate da una forte riduzione cromatica, virata sui toni cupissimi del nero, che lasciano intravedere scorci d’interni silenziosi, luoghi claustrali, appena irrorati da sottili lampi di luce, dove lo spazio fisico dell’unità abitativa diventa un’immagine traslata di quello mentale e, insieme, la metafora sensibile di una discesa negli stati più profondi della coscienza individuale.
A frantumarsi, nell’ambito della pittura, è soprattutto la linearità narrativa, l’unità del racconto che lascia il campo alla convivenza, a tratti confusa, di una pluralità di episodi, spesso affastellati l’uno sull’altro, convergenti e compresenti in una dimensione destrutturata.
La simultaneità di episodi è, tuttavia, il sintomo di un diverso modo di concepire la realtà. L’idea, cioè, che possano convivere, all’interno dello spazio convenzionale della tela, diversi punti di vista, è, in verità, ormai diventata una prassi ampiamente diffusa.
Per molti pittori contemporanei, e segnatamente per quelli provenienti dall’ex DDR o dai paesi europei che facevano parte del blocco sovietico, la destrutturazione del racconto visivo documenta una reale frantumazione (e poi un tentativo di ricostruzione) del tessuto sociale nel quale sono cresciuti, mentre per gli artisti occidentali, un tempo tutelati dal Patto Atlantico, questo modello di rappresentazione policentrica è una risposta all’affermarsi di un linguaggio visivo banalizzato e deteriorato tanto nella forma quanto nei contenuti. Penso qui, soprattutto all’impoverimento dell’immaginario massmediatico e delle varie forme di comunicazione nella società dei consumi, che ha imposto agli artisti più coscienziosi un necessario ripensamento dei valori formali e dei contenuti della pittura figurativa.
Che ne siano coscienti o meno, gli artisti oggi sono influenzati da nuovi modelli percettivi della realtà, conseguenti tanto alla diffusione massiccia delle tecnologie digitali, che spesso induce nuovi modelli operativi, quanto alle conquiste nel campo delle scienze derivate dall’applicazione della meccanica quantistica in nuove branche di ricerca. Basti pensare, come spiega il fisico teorico Carlo Rovelli, membro dell’Institut universitaire de France e dell’Académie internationale de philosophie des sciences, che “le equazioni della meccanica quantistica e le loro conseguenze vengono usate quotidianamente da fisici, ingegneri, chimici e biologi nei campi più svariati”1 e inoltre che, senza di esse, buona parte della tecnologia che oggi utilizziamo non esisterebbe.
Nello specifico caso della pittura di Dario Maglionico, la destrutturazione del linguaggio narrativo attraverso la simultaneità di episodi che rompono la continuità del racconto, è il risultato di una riflessione sul concetto di reificazione, termine filosofico, che peraltro dà il titolo a una serie di opere, utilizzato da Karl Marx per descrivere la mercificazione (o riduzione a oggetto) delle persone e del complesso delle loro credenze morali, politiche, culturali e psicologiche. Nei dipinti di Maglionico questa riduzione oggettuale della persona assume i connotati di una traccia mnemonica, un’apparizione sfocata, ma localizzata tra le pareti di un interno domestico. Non è tanto la persona fisica a essere reificata, ma piuttosto il suo residuo psicologico e morale, impresso, anche se in modo aleatorio e fantasmatico, tra le maglie architettoniche dell’unità abitativa. Provvisoria e simultanea nelle tele dell’artista è, infatti, la presenza umana, che la casa assorbe come impronta parziale e dinamica di un passaggio, di un attraversamento che sembra imprimersi, come uno strascico, nel mobile tessuto spazio-temporale. Naturalmente, anche l’impianto fisico in cui si muovono (o si muovevano) le figure umane, risulta modificato. Il punto di vista dell’osservatore, nel registrare simultaneamente i diversi momenti dell’azione, subisce lievi alterazioni e così la posizione dei quadri alle pareti, dei mobili, dei complementi d’arredo - ma anche la loro stessa conformazione - diventa instabile, imprecisa, oscillante.
Certo si potrebbe affermare, semplicemente, che nella pittura di Dario Maglionico la realtà è il risultato di una creazione arbitraria della mente, la sintesi visiva e opinabile di qualcosa di troppo complesso da descrivere. Tuttavia, la veridicità del suo modello rappresentativo troverebbe facilmente riscontro nelle teorie della fisica moderna, confortata, per esempio, dalla descrizione dei salti quantici nelle particelle subatomiche, il cosiddetto principio di “non località” o dalla scoperta, da Einstein in poi, della natura fondamentalmente illusoria e soggettiva dei concetti di spazio e tempo. In fondo, Maglionico è un pittore realista, anche se il suo realismo non obbedisce più, o non solo, ai principi della fisica newtoniana.
D’altro canto, egli sembra interessato a esplorare anche alcuni processi psichici che, come spiegavo altrove, possono riferirsi al variegato ambito delle ricerche sul Campo Mentale.
“Mi sono reso conto”, afferma, infatti, l’artista, “che i miei sono tutti ritratti di famiglia, in cui i miei genitori, i miei zii, la mia ragazza, costituiscono varianti differenziate della mia identità”. Nel tentativo di individuare le ragioni intime della sua pittura, Maglionico ha riscontrato una similitudine con una forma di psiconevrosi chiamata claustrofilia. La claustrofilia, una tendenza morbosa a vivere in spazi chiusi e appartati, esprime l’esigenza dell’individuo di fondersi con le figure genitoriali, rispondendo a un profondo desiderio di protezione che non assume necessariamente un carattere patologico.
Nei dipinti di Maglionico le figure familiari, con la loro qualità effimera ed evanescente, sono quindi espressioni di un io frazionato, parcellizzato in una pletora di entità esterne. In tal senso, l’interno domestico, contenitore di quelle apparizioni, diventa metafora stessa dell’individuo, un luogo appartato e sicuro, un argine contro le pressioni provenienti dall’esterno o, come scriveva John Ruskin, “il luogo della pace; il rifugio, non soltanto da ogni torto, ma anche da ogni paura, dubbio e discordia”.
Quello che emerge dalla serie delle Reificazioni di Dario Maglionico è, quindi, l’espressione del convergere di una varietà d’istanze: dalle ragioni puramente linguistiche e formali, che riguardano, come dicevo, la necessità di riformulare i parametri della rappresentazione figurativa adeguandola a nuove necessità espressive, fino ai contenuti psicologici ed emotivi, che costituiscono invece l’ossatura tematica e, se vogliamo, motivazionale di questo ciclo di opere. Intendo dire che nella ricerca dell’artista, la sintesi linguistica e la disanima psicologica sono strettamente correlate in un sistema di scambi in cui l’una alimenta l’altra. Il linguaggio espressivo, infatti, può generare i temi, che, a loro volta, possono suscitare nuove soluzioni pittoriche.
Il motivo della claustrofilia, che l’artista ha individuato ex post, cioè solo dopo la realizzazione delle più recenti Reificazioni e, dunque, per effetto di un’analisi a freddo sulle ragioni della propria pittura, diventa ancora più radicale nella serie degli Studi del buio.
Sono opere caratterizzate da una forte riduzione cromatica, virata sui toni cupissimi del nero, che lasciano intravedere scorci d’interni silenziosi, luoghi claustrali, appena irrorati da sottili lampi di luce, dove lo spazio fisico dell’unità abitativa diventa un’immagine traslata di quello mentale e, insieme, la metafora sensibile di una discesa negli stati più profondi della coscienza individuale.
Luoghi
www.rivaartecontemporanea.it 3337854068
a pochi passi dalla Basilica di Santa Croce