Corey Mason "Hero"
A cura di: Testo di Marialuisa Pastò
‘La fantasia altro non è che memoria o dilatata o composta’ - sosteneva l’eccentrico filosofo, storico e giurista napoletano Giambattista Vico. Altrettanto significativo è rilevare quanto la logica poetica alla base dell’esperienza primigenia dell’uomo coincida in larga misura con l’immaginazione. Non è pertanto sbagliato affermare che la sorgente primordiale dell’arte risieda appunto in quell’universale fantastico, di cui l’arte stessa si fa espressione.
Vico fu tra i primi a sostenere che i popoli primitivi fossero più vicini alle fonti dell’ispirazione artistica di quanto fosse l’uomo “moderno”.
E se - per un verso - l’armonia imitativa che essi copiavano dall’universo prendeva a modello la natura, dall’altro era frutto di un vero e proprio processo creativo che affidava all’immaginazione la risposta ai grandi “perché” del mondo che li circondava.
Nei lavori dell’americano Corey Mason il rimando alla stilizzazione estetica propria delle pitture rupestri assume un ruolo centrale.
La rigorosa soppressione dei dettagli delle figure e l’assenza di contesto danno vita a immaginari in cui umani, animali e natura si uniscono in dipinti dinamici e dall’eleganza giocosa. I corpi, privati di massa e di volume, diventano delle silhouette che si librano all’interno di uno spazio indefinito, perché infinito.
Forme che si beano della vivacità di colori sgargianti, fissate in un’immobilità senza tempo che sembra galleggiare in superficie, ma che al contempo asseconda l’innato impulso di restituirsi a uno “stato di natura”.
Così facendo, appuntano memorie che si sviluppano lungo un asse in bilico tra passato e presente, tratteggiando il ricordo di esperienze ancestrali che - nel loro palesarsi - tradiscono stereotipi contemporanei: lo swoosh Nike, ad esempio, o i dichiarati riferimenti ad “Hurricane” di Bob Dylan, come le pistole che decorano i suoi vasi.
E proprio alla stregua delle ballate più gloriose, lo spirito vagante del suo gesto suona come un fiotto di forme svelte che rompe gli argini tra figurazione e astrazione.
Le linee volteggiano e si muovono lievi, intrappolate nella danza infinita del ritmo che le imprime sulla tela e che somiglia a un concerto swing fatto di grafismi fluttuanti; sembra quasi di intravedere un’analogia con l’apparente casualità del tratto di Cy Twombly o la forza caratterizzante di una composizione di John Cage. Mentre l’approssimazione del segno pittorico rimanda a quella fedeltà agli impulsi primari propria dell’opera di Picasso.
Più che simboli da interpretare, esse si configurano come tracce che agiscono da ‘attivatori di memoria’ e che mostrano il gradiente inespresso di avvenimenti incastonati nei frammenti di una tensione che va oltre il temporale.
Un’abilità compositiva che fiacca i riferimenti del presente e favorisce il rimando ai misteri di un sentire atavico, rivelando quello che la memoria non riesce ad immaginare e che solo la fantasia riesce a ricordare.
Vico fu tra i primi a sostenere che i popoli primitivi fossero più vicini alle fonti dell’ispirazione artistica di quanto fosse l’uomo “moderno”.
E se - per un verso - l’armonia imitativa che essi copiavano dall’universo prendeva a modello la natura, dall’altro era frutto di un vero e proprio processo creativo che affidava all’immaginazione la risposta ai grandi “perché” del mondo che li circondava.
Nei lavori dell’americano Corey Mason il rimando alla stilizzazione estetica propria delle pitture rupestri assume un ruolo centrale.
La rigorosa soppressione dei dettagli delle figure e l’assenza di contesto danno vita a immaginari in cui umani, animali e natura si uniscono in dipinti dinamici e dall’eleganza giocosa. I corpi, privati di massa e di volume, diventano delle silhouette che si librano all’interno di uno spazio indefinito, perché infinito.
Forme che si beano della vivacità di colori sgargianti, fissate in un’immobilità senza tempo che sembra galleggiare in superficie, ma che al contempo asseconda l’innato impulso di restituirsi a uno “stato di natura”.
Così facendo, appuntano memorie che si sviluppano lungo un asse in bilico tra passato e presente, tratteggiando il ricordo di esperienze ancestrali che - nel loro palesarsi - tradiscono stereotipi contemporanei: lo swoosh Nike, ad esempio, o i dichiarati riferimenti ad “Hurricane” di Bob Dylan, come le pistole che decorano i suoi vasi.
E proprio alla stregua delle ballate più gloriose, lo spirito vagante del suo gesto suona come un fiotto di forme svelte che rompe gli argini tra figurazione e astrazione.
Le linee volteggiano e si muovono lievi, intrappolate nella danza infinita del ritmo che le imprime sulla tela e che somiglia a un concerto swing fatto di grafismi fluttuanti; sembra quasi di intravedere un’analogia con l’apparente casualità del tratto di Cy Twombly o la forza caratterizzante di una composizione di John Cage. Mentre l’approssimazione del segno pittorico rimanda a quella fedeltà agli impulsi primari propria dell’opera di Picasso.
Più che simboli da interpretare, esse si configurano come tracce che agiscono da ‘attivatori di memoria’ e che mostrano il gradiente inespresso di avvenimenti incastonati nei frammenti di una tensione che va oltre il temporale.
Un’abilità compositiva che fiacca i riferimenti del presente e favorisce il rimando ai misteri di un sentire atavico, rivelando quello che la memoria non riesce ad immaginare e che solo la fantasia riesce a ricordare.
Luoghi
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contact: Dario Bonetta - orari: giovedì - sabato 15/19