Cesare Pietroiusti, Lavori da vergognarsi, ovvero il riscatto delle opere neglette
Ho spesso pensato alla possibilità di fare della “retrospettiva” – l’occasione in cui si rivisitano, si ri-vedono, le proprie opere fatte nel passato – non una ripetizione, bensì una situazione inedita o, in altre parole, una nuova opera.
E’ acclarato il fatto che ogni nuovo allestimento – anche della stessa opera – rappresenta inevitabilmente una diversa lettura, una diversa attribuzione di senso e, come notoriamente dice Boris Groys, finanche la copia “può acquisire, attraverso l’allestimento, l’aura, la vivente attualità e la dimensione storica dell’originale”(*). Secondo me tale attribuzione di senso non è assicurata poiché ogni ricontestualizzazione retrospettiva richiede comunque una forma e un’idea, e resta la possibilità (che esiste sempre, per ogni gesto di un artista) che in una determinata mostra non si crei alcuna aura, alcuna energia vitale, alcuno spessore storico. Insomma il problema della mostra è sempre là, fortunatamente, e chiama l’artista a uno sforzo – di pensiero, di lavoro materiale, di organizzazione – perché un “nuovo” allestimento, seppure di opere “vecchie”, raggiunga, magari non l’“illuminazione profana” (di cui parla lo stesso Groys), ma almeno un qualche significato critico.
Io sono pigro e, probabilmente anche in virtù di spinte motivazionali inconsce, trovo in genere il modo di realizzare opere o mostre facendo il minimo sforzo (di pensiero, di lavoro etc.). Una strategia del pigro è quella di creare corto-circuiti logici, a volte definiti “paradossi”, per far sì che l’analisi di un determinato problema si blocchi di fronte ad una situazione di indecidibilità, ovvero che il senso si produca, un po’ surrettiziamente, da sé, per una supposta vertigine conseguente alla mise en abyme, all’infinito rimbalzo speculare, di due termini contraddittori, e non ci sia, di conseguenza, lavoro aggiuntivo da fare.
Per questa mostra ho pensato al paradosso di fare una retrospettiva-di-opere-mai-esposte e, dopo avere ipotizzato di esporre opere non fatte o non finite, opere che avrei voluto fare e non ho fatto, oggetti che potrebbero essere opere (o anche no), aggiustamenti di opere contenenti qualche errore, mi sono venuti in mente alcuni lavori che, effettivamente realizzati in passato per una certa mostra, non ho mai utilizzato perché, dopo averli fatti, mi sembrarono inadeguati, brutti, fuori contesto, oppure copie pedisseque di lavori di altri artisti. Lavori, insomma, di cui mi sono vergognato e che ho nascosto, e che oggi, per vari motivi, possono aspirare a un riscatto. Un riscatto che potrebbe essere anche di quella parte del sé dell’artista che all’epoca ha dovuto comunque subire una censura – spesso sotto la forma dell’impietoso giudizio di qualche altra persona, intervenuta all’ultimo momento a smascherare l’inadeguatezza o la stupidità di un’opera o la imbarazzante somiglianza con un’opera già esistente.
Lavori da vergognarsi, ovvero Il riscatto delle opere neglette, pur partendo da un assunto semplice, può porre questioni a loro modo indecidibili. Si tratta di una mostra presa “sotto gamba”? Forse sì, visto che l’artista non fa altro che tirar fuori qualcosa dai suoi sgabuzzini. Si tratta di una forma di dimostrazione che l’ “inedito” è una categoria che ha più valore del “valido”? Forse, visto che opere sbagliate, cioè già giudicate prive di valore, potrebbero acquisirlo proprio in virtù del fatto di essere state, una volta, scartate e accantonate. Si tratta del tentativo di dimostrare che l’opera in assoluto “bella” o “giusta” non esiste? Forse, visto che io sospetto che l’artista qui in questione (sempre io) abbia, in fondo, basato la sua ricerca artistica, e trovato l’energia che la muove e la determina, in un irrisolto conflitto contro l’opera d’arte, contro la sua ingombrante e parassitaria oggettualità, contro la sua esibita pretesa di sintetizzare l’assoluto. Un astio che, probabilmente, è il frutto distorto di un desiderio inibito di presenza dell’opera. Questa mostra afferma quel vergognoso desiderio, soddisfacendolo (ma anche ingannandolo) proprio con la presentazione delle meno legittimate fra tutte le opere, i lavori da vergognarsi. (C. P. )
E’ acclarato il fatto che ogni nuovo allestimento – anche della stessa opera – rappresenta inevitabilmente una diversa lettura, una diversa attribuzione di senso e, come notoriamente dice Boris Groys, finanche la copia “può acquisire, attraverso l’allestimento, l’aura, la vivente attualità e la dimensione storica dell’originale”(*). Secondo me tale attribuzione di senso non è assicurata poiché ogni ricontestualizzazione retrospettiva richiede comunque una forma e un’idea, e resta la possibilità (che esiste sempre, per ogni gesto di un artista) che in una determinata mostra non si crei alcuna aura, alcuna energia vitale, alcuno spessore storico. Insomma il problema della mostra è sempre là, fortunatamente, e chiama l’artista a uno sforzo – di pensiero, di lavoro materiale, di organizzazione – perché un “nuovo” allestimento, seppure di opere “vecchie”, raggiunga, magari non l’“illuminazione profana” (di cui parla lo stesso Groys), ma almeno un qualche significato critico.
Io sono pigro e, probabilmente anche in virtù di spinte motivazionali inconsce, trovo in genere il modo di realizzare opere o mostre facendo il minimo sforzo (di pensiero, di lavoro etc.). Una strategia del pigro è quella di creare corto-circuiti logici, a volte definiti “paradossi”, per far sì che l’analisi di un determinato problema si blocchi di fronte ad una situazione di indecidibilità, ovvero che il senso si produca, un po’ surrettiziamente, da sé, per una supposta vertigine conseguente alla mise en abyme, all’infinito rimbalzo speculare, di due termini contraddittori, e non ci sia, di conseguenza, lavoro aggiuntivo da fare.
Per questa mostra ho pensato al paradosso di fare una retrospettiva-di-opere-mai-esposte e, dopo avere ipotizzato di esporre opere non fatte o non finite, opere che avrei voluto fare e non ho fatto, oggetti che potrebbero essere opere (o anche no), aggiustamenti di opere contenenti qualche errore, mi sono venuti in mente alcuni lavori che, effettivamente realizzati in passato per una certa mostra, non ho mai utilizzato perché, dopo averli fatti, mi sembrarono inadeguati, brutti, fuori contesto, oppure copie pedisseque di lavori di altri artisti. Lavori, insomma, di cui mi sono vergognato e che ho nascosto, e che oggi, per vari motivi, possono aspirare a un riscatto. Un riscatto che potrebbe essere anche di quella parte del sé dell’artista che all’epoca ha dovuto comunque subire una censura – spesso sotto la forma dell’impietoso giudizio di qualche altra persona, intervenuta all’ultimo momento a smascherare l’inadeguatezza o la stupidità di un’opera o la imbarazzante somiglianza con un’opera già esistente.
Lavori da vergognarsi, ovvero Il riscatto delle opere neglette, pur partendo da un assunto semplice, può porre questioni a loro modo indecidibili. Si tratta di una mostra presa “sotto gamba”? Forse sì, visto che l’artista non fa altro che tirar fuori qualcosa dai suoi sgabuzzini. Si tratta di una forma di dimostrazione che l’ “inedito” è una categoria che ha più valore del “valido”? Forse, visto che opere sbagliate, cioè già giudicate prive di valore, potrebbero acquisirlo proprio in virtù del fatto di essere state, una volta, scartate e accantonate. Si tratta del tentativo di dimostrare che l’opera in assoluto “bella” o “giusta” non esiste? Forse, visto che io sospetto che l’artista qui in questione (sempre io) abbia, in fondo, basato la sua ricerca artistica, e trovato l’energia che la muove e la determina, in un irrisolto conflitto contro l’opera d’arte, contro la sua ingombrante e parassitaria oggettualità, contro la sua esibita pretesa di sintetizzare l’assoluto. Un astio che, probabilmente, è il frutto distorto di un desiderio inibito di presenza dell’opera. Questa mostra afferma quel vergognoso desiderio, soddisfacendolo (ma anche ingannandolo) proprio con la presentazione delle meno legittimate fra tutte le opere, i lavori da vergognarsi. (C. P. )