Aron Demetz "Solide fragilità"
A cura di: Testo di Alessandro Romanini
La storia della scultura contemporanea si presenta come una serie di processi discontinui, con fratture nette e radicali, che hanno dato vita a nuove e fondamentali direzioni di ricerca, sviluppatesi parallelamente e in concomitanza – e spesso concorrenza – con quelle legate a tecniche e materiali ben sperimentati Questo ha generato ai giorni nostri una definizione di scultura ampia, variegata e praticamente onnicomprensiva di ogni forma espressiva dotata di elaborazione plastica a prescindere dalla tipologia formale, dalla tecnica realizzativa e dai materiali impiegati.
Questa accezione ampia del termine scultura, impiegato da artisti e critici ha origine negli anni Ottanta, dopo la svolta culturale postmoderna, che ha infranto la distinzione netta tra elaborazioni sperimentali e le forme “classiche” ancora in vigore negli anni Sessanta-Settanta.
Ultima stagione avanguardistica, animata dalla nascita e dall’affermazione delle tendenze neo-dada, minimaliste, pop, ambientali, processuali, performative e concettuali.
Altro criterio che ha dominato il XX secolo e si è esteso al nuovo millennio nel campo della ricerca plastica è il definitivo abbandono della dimensione celebrativa, con la connessa perdita della monumentalità e del suo deittico, il piedistallo.
La scultura di Aron Demetz si situa perfettamente in linea con quello che è il dibattito internazionale relativo alla scultura, una ricerca plastica che non abbandona le radici storiche, anatomiche e di conoscenza della tecnica e dei materiali, ma anzi ne fa il fulcro e il motore di nuove forme di sperimentazione.
Questo per sgombrare immediatamente il campo da pregiudizi che si generano di fronte a forme scultoree armoniche, nelle quali i canoni anatomici e formali persistono e riconducono senza mediazioni concettuali al referente fisico.
L’opera di Demetz si riconduce nell’ambito di quella che Francesco Poli definisce scultura come forma plastica1, quella con maggiore spessore storico, definizione che comprende ogni genere di opere realizzate con il taglio diretto del marmo o del legno; modellando la creta, la cera o il gesso e con le fusioni in bronzo e in altri metalli.
In questa categoria si possono inserire a pieno titolo altre forme di elaborazione plastica eseguite con altri materiali o forme spurie che vedono il connubio di materiali di diversa estrazione, sia naturali che sintetici, come le sue sculture cosparse di resina.
Questo contesto è dominato dal tema della figura umana, che rimane inevitabilmente legato alle problematiche della statua e del simulacro umano in genere, anche quando si affronta il tema in modo inedito.
La figura umana in Demetz si carica di una serie di forti valenze etiche ed esistenziali, che trovano un degno e coerente corollario nel processo di produzione e negli strumenti utilizzati.
Una processualità realizzativa inscindibile rispetto agli esiti formali; processo e prodotto come stessi elementi di un’unica genesi creativa.
In questo processo generativo delle opere il piano dei contenuti (i significati che l’artista intende trasmettere con il proprio lavoro) risulta fondamentale tanto quanto quello formale dell’espressione.
I due piani sono indissolubilmente interconnessi.
Il valore espressivo e qualitativo dell’opera per Demetz deriva dall’importanza e dalla profondità dei contenuti e dall’originalità ed efficacia estetica delle forme espressive utilizzate.
L’artista si confronta e propone senza remore o pregiudizi i valori formali come preminenti, con i connessi concetti di bellezza e piacere estetico.
Valori che si sono riaffermati, dalla fine degli anni Settanta, con la caduta dei luoghi comuni di ascendenza avanguardistica cristallizzati dall’entrata nella fase della post-modernità.
Questa fase di passaggio ha decretato l’abbandono di forme d’interrogazione sulle modalità di espressione, di natura hegeliana, con approcci fondati sul costrutto teorico, tesi-antitesi-sintesi, affrancandosi – almeno parzialmente – da quel processo che ha attraversato in maniera carsica tutto il XX secolo.
Processo che ha fatto definire i contorni della scultura come prodotto duchampiano, bloccando per lungo tempo l’analisi e l’approccio alla scultura secondo canoni estetici ed espressivi.
La formazione di Demetz e il suo debutto professionale negli anni Novanta lo portano ad avere una profonda conoscenza di tutti questi elementi, che abbinata a una profonda coscienza dei procedimenti di lavorazione affinati per mezzo di un’incessante prassi lo portano a uno stato di controllo realizzativo elevatissimo.
Una capacità “artigianale”, conquistata nella secolare tradizione lavorativa del legno di Selva di Valgardena, che prevede come inscindibile la catena di lavoro delle mani, quello della testa e dell’immaginazione secondo la formula espressa da Richard Sennett nel suo libro Homo Faber2.
L’operato di Aron Deemetz si inquadra in quel circolo coevolutivo tra mente e mano, prensione e apprendimento (come indica sempre Sennett).
Secondo questo circolo “ogni problema porta a una riflessione e a un’azione che dà vita a nuovi problemi. Il buon artista – parafrasando Sennett – usa le sue soluzioni per scoprire nuovi territori; nella sua mente, la soluzione di un problema e l’individuazione di nuovi problemi sono intimamente legati”.
Questo processo giustifica la coesistenza armonica di conservazione delle conoscenze anatomiche, della perizia tecnica e materica, con un’inesausta e insopprimibile esigenza di sperimentazione in Demetz.
Lo stesso principio di armonizzazione dicotomica è quello legato all’ossimoro del titolo.
Una fragilità connaturata all’esistenza umana, incrementata esponenzialmente dalla congiuntura storica, cristallizzata in forme solide scultoree.
Una forma di neomonumentalità, affrancata da istanze encomiastiche, dove la dimensione celebrativa è tutta dedicata all’individuo e all’esistenza.
Queste dinamiche si estendono allo spazio nel quale l’opera si integra, spazio che diviene parte integrante dell’opera stessa, inscindibile elemento della sintassi espressiva plastica progettata dall’autore.
Demetz crea forme solide che sono motori di riflessione a funzionamento estetico.
La solidità della forma intaccata dal lavoro del fuoco, che pervade in profondità la struttura conferendole una superficie fortemente connotata e ieratica, allo stesso tempo caratterizza l’opera di un’aura di univocità, scevra di qualsiasi orpello e infrastruttura decorativa.
Una superficie che lascia spazio solo alla riflessione attiva, a uno stato di partecipazione simpatetica dello spettatore, affrancata dalla passiva contemplazione.
La materia ricondotta a uno stato assoluto, inequivocabile, conquistato attraverso un processo che vede la natura – il tronco – trasformata in cultura attraverso le fasi di lavorazione, che rappresentano allo stesso tempo la stratificazione delle conoscenze pratiche, anatomiche e di pensiero dell’artista, ricondotta a uno stato primigenio, ancor più essenziale dell’elemento naturale.
Un processo “a togliere”, condotto attraverso l’uso del fuoco, scarsamente controllabile, nonostante la perizia acquistata da Demetz.
È proprio questa dimensione aleatoria, che interessa l’artista, in quanto fa diventare l’imprevedibilità, l’incontrollabile, il “caso” connaturato all’impiego della fiamma, coautori dell’opera.
Introduce così quel surplus di “realtà”, con la sua struttura aperta e imprevedibile, che infonde all’opera una dimensione esistenziale, che trasporta la riflessione individuale dell’artista in una dimensione universale.
Allo stesso modo l’inserimento di resine e funghi sono strumentali al percorso di ricerca dell’artista.
Le resine come elemento curativo, utilizzato dalla natura come processo di reintegrazione di ferite strutturali dei tronchi e i funghi, Pholiota Denuntians, come indicatori naturali di stati precari e di malattia.
Un approccio alla fragilità, condotto attraverso il sapiente uso di elementi naturali coordinati dalla perizia esecutiva, un’allegoria della precarietà e della continua minaccia insita nella dialettica natura-cultura e dell’illusoria volontà di controllo dell’individuo sull’ambiente e sui fenomeni naturali3.
Demetz, struttura coscientemente e con perizia certosina un processo di decostruzione dei processi naturali – metaforici dell’esistenza umana – che coinvolgono la materia e i mezzi tecnici, che devono adattarsi in maniera simbiotica al concetto da esprimere.
Un processo che riproduce e rielabora caricandolo di significati quello metamorfico del reale, innescando una lotta con il tiranno Chronos, condotta con le armi della forma.
Una forma resa spesso essenziale e debole dal fuoco, monitorata e sorvegliata da elementi micotici, lenita e rinvigorita dalla resina; una resistenza contro il cupio dissolvi condotta da Demetz con l’istinto del viaggiatore, cosciente dell’impossibilità di fermare il tempo, con la convinzione dell’irrinunciabile esigenza di creare continuamente nuove ed eterne rinascite, dar vita a incessanti utopie e ipotetici nuovi percorsi.
Creare nuovi spazi di solida armonia nell’estrema precarietà.
In fondo il compito dell’artista, che si fa carico di svolgerlo anche per conto degli altri individui.
Questa accezione ampia del termine scultura, impiegato da artisti e critici ha origine negli anni Ottanta, dopo la svolta culturale postmoderna, che ha infranto la distinzione netta tra elaborazioni sperimentali e le forme “classiche” ancora in vigore negli anni Sessanta-Settanta.
Ultima stagione avanguardistica, animata dalla nascita e dall’affermazione delle tendenze neo-dada, minimaliste, pop, ambientali, processuali, performative e concettuali.
Altro criterio che ha dominato il XX secolo e si è esteso al nuovo millennio nel campo della ricerca plastica è il definitivo abbandono della dimensione celebrativa, con la connessa perdita della monumentalità e del suo deittico, il piedistallo.
La scultura di Aron Demetz si situa perfettamente in linea con quello che è il dibattito internazionale relativo alla scultura, una ricerca plastica che non abbandona le radici storiche, anatomiche e di conoscenza della tecnica e dei materiali, ma anzi ne fa il fulcro e il motore di nuove forme di sperimentazione.
Questo per sgombrare immediatamente il campo da pregiudizi che si generano di fronte a forme scultoree armoniche, nelle quali i canoni anatomici e formali persistono e riconducono senza mediazioni concettuali al referente fisico.
L’opera di Demetz si riconduce nell’ambito di quella che Francesco Poli definisce scultura come forma plastica1, quella con maggiore spessore storico, definizione che comprende ogni genere di opere realizzate con il taglio diretto del marmo o del legno; modellando la creta, la cera o il gesso e con le fusioni in bronzo e in altri metalli.
In questa categoria si possono inserire a pieno titolo altre forme di elaborazione plastica eseguite con altri materiali o forme spurie che vedono il connubio di materiali di diversa estrazione, sia naturali che sintetici, come le sue sculture cosparse di resina.
Questo contesto è dominato dal tema della figura umana, che rimane inevitabilmente legato alle problematiche della statua e del simulacro umano in genere, anche quando si affronta il tema in modo inedito.
La figura umana in Demetz si carica di una serie di forti valenze etiche ed esistenziali, che trovano un degno e coerente corollario nel processo di produzione e negli strumenti utilizzati.
Una processualità realizzativa inscindibile rispetto agli esiti formali; processo e prodotto come stessi elementi di un’unica genesi creativa.
In questo processo generativo delle opere il piano dei contenuti (i significati che l’artista intende trasmettere con il proprio lavoro) risulta fondamentale tanto quanto quello formale dell’espressione.
I due piani sono indissolubilmente interconnessi.
Il valore espressivo e qualitativo dell’opera per Demetz deriva dall’importanza e dalla profondità dei contenuti e dall’originalità ed efficacia estetica delle forme espressive utilizzate.
L’artista si confronta e propone senza remore o pregiudizi i valori formali come preminenti, con i connessi concetti di bellezza e piacere estetico.
Valori che si sono riaffermati, dalla fine degli anni Settanta, con la caduta dei luoghi comuni di ascendenza avanguardistica cristallizzati dall’entrata nella fase della post-modernità.
Questa fase di passaggio ha decretato l’abbandono di forme d’interrogazione sulle modalità di espressione, di natura hegeliana, con approcci fondati sul costrutto teorico, tesi-antitesi-sintesi, affrancandosi – almeno parzialmente – da quel processo che ha attraversato in maniera carsica tutto il XX secolo.
Processo che ha fatto definire i contorni della scultura come prodotto duchampiano, bloccando per lungo tempo l’analisi e l’approccio alla scultura secondo canoni estetici ed espressivi.
La formazione di Demetz e il suo debutto professionale negli anni Novanta lo portano ad avere una profonda conoscenza di tutti questi elementi, che abbinata a una profonda coscienza dei procedimenti di lavorazione affinati per mezzo di un’incessante prassi lo portano a uno stato di controllo realizzativo elevatissimo.
Una capacità “artigianale”, conquistata nella secolare tradizione lavorativa del legno di Selva di Valgardena, che prevede come inscindibile la catena di lavoro delle mani, quello della testa e dell’immaginazione secondo la formula espressa da Richard Sennett nel suo libro Homo Faber2.
L’operato di Aron Deemetz si inquadra in quel circolo coevolutivo tra mente e mano, prensione e apprendimento (come indica sempre Sennett).
Secondo questo circolo “ogni problema porta a una riflessione e a un’azione che dà vita a nuovi problemi. Il buon artista – parafrasando Sennett – usa le sue soluzioni per scoprire nuovi territori; nella sua mente, la soluzione di un problema e l’individuazione di nuovi problemi sono intimamente legati”.
Questo processo giustifica la coesistenza armonica di conservazione delle conoscenze anatomiche, della perizia tecnica e materica, con un’inesausta e insopprimibile esigenza di sperimentazione in Demetz.
Lo stesso principio di armonizzazione dicotomica è quello legato all’ossimoro del titolo.
Una fragilità connaturata all’esistenza umana, incrementata esponenzialmente dalla congiuntura storica, cristallizzata in forme solide scultoree.
Una forma di neomonumentalità, affrancata da istanze encomiastiche, dove la dimensione celebrativa è tutta dedicata all’individuo e all’esistenza.
Queste dinamiche si estendono allo spazio nel quale l’opera si integra, spazio che diviene parte integrante dell’opera stessa, inscindibile elemento della sintassi espressiva plastica progettata dall’autore.
Demetz crea forme solide che sono motori di riflessione a funzionamento estetico.
La solidità della forma intaccata dal lavoro del fuoco, che pervade in profondità la struttura conferendole una superficie fortemente connotata e ieratica, allo stesso tempo caratterizza l’opera di un’aura di univocità, scevra di qualsiasi orpello e infrastruttura decorativa.
Una superficie che lascia spazio solo alla riflessione attiva, a uno stato di partecipazione simpatetica dello spettatore, affrancata dalla passiva contemplazione.
La materia ricondotta a uno stato assoluto, inequivocabile, conquistato attraverso un processo che vede la natura – il tronco – trasformata in cultura attraverso le fasi di lavorazione, che rappresentano allo stesso tempo la stratificazione delle conoscenze pratiche, anatomiche e di pensiero dell’artista, ricondotta a uno stato primigenio, ancor più essenziale dell’elemento naturale.
Un processo “a togliere”, condotto attraverso l’uso del fuoco, scarsamente controllabile, nonostante la perizia acquistata da Demetz.
È proprio questa dimensione aleatoria, che interessa l’artista, in quanto fa diventare l’imprevedibilità, l’incontrollabile, il “caso” connaturato all’impiego della fiamma, coautori dell’opera.
Introduce così quel surplus di “realtà”, con la sua struttura aperta e imprevedibile, che infonde all’opera una dimensione esistenziale, che trasporta la riflessione individuale dell’artista in una dimensione universale.
Allo stesso modo l’inserimento di resine e funghi sono strumentali al percorso di ricerca dell’artista.
Le resine come elemento curativo, utilizzato dalla natura come processo di reintegrazione di ferite strutturali dei tronchi e i funghi, Pholiota Denuntians, come indicatori naturali di stati precari e di malattia.
Un approccio alla fragilità, condotto attraverso il sapiente uso di elementi naturali coordinati dalla perizia esecutiva, un’allegoria della precarietà e della continua minaccia insita nella dialettica natura-cultura e dell’illusoria volontà di controllo dell’individuo sull’ambiente e sui fenomeni naturali3.
Demetz, struttura coscientemente e con perizia certosina un processo di decostruzione dei processi naturali – metaforici dell’esistenza umana – che coinvolgono la materia e i mezzi tecnici, che devono adattarsi in maniera simbiotica al concetto da esprimere.
Un processo che riproduce e rielabora caricandolo di significati quello metamorfico del reale, innescando una lotta con il tiranno Chronos, condotta con le armi della forma.
Una forma resa spesso essenziale e debole dal fuoco, monitorata e sorvegliata da elementi micotici, lenita e rinvigorita dalla resina; una resistenza contro il cupio dissolvi condotta da Demetz con l’istinto del viaggiatore, cosciente dell’impossibilità di fermare il tempo, con la convinzione dell’irrinunciabile esigenza di creare continuamente nuove ed eterne rinascite, dar vita a incessanti utopie e ipotetici nuovi percorsi.
Creare nuovi spazi di solida armonia nell’estrema precarietà.
In fondo il compito dell’artista, che si fa carico di svolgerlo anche per conto degli altri individui.
Luoghi
http://www.davidepaludetto.com +39 011888641