Antonio Violetta "Ed è ancora Utopia"
A cura di: Irene Biolchini
Ogni artista vive di una sua mitologia, di date e opere feticcio. Nella fortuna critica di Antonio Violetta - e non si può usare un altro termine vista la felice qualità dei testi che hanno accompagnato le sue ricerche - le date cardine dei suoi “inizi” sono sempre state: Utopia, del 1976 e la partecipazione a documenta Kassel, nel 1982. Un 1982 che è stato la porta per molte altre variegate situazioni, fino a quel 1986 in cui espone sia alla Biennale di Venezia che alla Quadriennale di Roma. Il resto è storia non ancora abbastanza nota, nel senso che molto deve essere compreso e valutato del suo percorso, ma comunque conosciuta. Questa mostra si propone di ribaltare le poche certezze giunte fino a noi. Non perché manchino autorevoli testi critici sul suo percorso, anzi come si diceva capita raramente di avere a che fare con una bibliografia di tale spessore e qualità. Bisogna però fare “un passo indietro” per meglio comprendere, e posizionare criticamente, l’attività dell’artista. Oppure, per citare una parola a lui molto cara, il suo “luogo” all’interno della storia dell’arte italiana. La sua vicinanza con l’Arte Povera - era d’altra parte stato lo stesso Celant a invitarlo a Kassel - si costituisce su una similarità di vocabolario, prima ancora che di intenti. Partiamo dal famoso Utopia del 1976, per esempio. Nello stesso anno Germano Celant pubblica per la prima volta Precronistoria, 1966-69 1 , fondamentale strumento attraverso il quale situare l’Arte Povera in un contesto internazionale con simili tendenze e inquietudini, ma anche definitivo segno di distacco dalla “guerriglia” da lui sostenuta sulle pagine di Flash Art (nel 1967). Se la guerriglia utopica nel 1976 era già stata rivista al fine di un ripensamento storicistico, attenzione allora a non cedere alla tentazione di politicizzare- in uno schiacciamento dato dalla distanza - il titolo di Utopia. Leggere questo lavoro in quella chiave ci porterebbe non solo a perdere il senso di un’opera, ma rischierebbe di compromettere la lettura del lavoro di Violetta per un lungo corso di tempo. Utopia è un’apertura impossibile, ma meglio ancora letteralmente, un luogo impossibile. Ecco il senso di quella “piega” del muro: dispiegare, muovere, liberare lo spazio. Aprire un movimento verso un luogo che non può esistere, o meglio verso un luogo dove è impossibile essere se non con l’arte. Ritornare all’etimologia della parola “utopia” non è un vezzo, ma un passaggio necessario per comprendere dove fosse Violetta in quel 1976, ma ancora meglio da dove arrivava. Le carte catramate, esposte in questa occasione dopo un silenzio che le accompagna dagli anni Settanta, ci permettono di comprendere quel suo “svolgersi”: l’aprirsi del foglio che non diventa Pagina (mi si permetta qui il gioco di parole tra la pagina fisica e le note Pagine che popoleranno il mondo di Antonio Violetta negli anni successivi al 1984). Le carte catramate devono all’arte povera non il sogno utopico, ma l’apertura verso nuovi materiali, il rifiuto delle loro gerarchie. Lo svolgimento è un muoversi dentro e fuori la materia, dentro e fuori l’umiltà della carta catramata, appunto. Due fogli incollati dal catrame interno che una volta scaldati possono fare uscire tracce di colore (e proprio la “traccia” sarà non a caso l’ossessione plastica della sua ricerca), possono aprirsi, piegarsi, svolgersi. C’è in queste carte il senso di molta ricerca che verrà. C’è in questo svolgimento molto del dispiegarsi della materia, del suo essere momento. Scriveva infatti Cortenova in occasione della loro prima presentazione nel 1976. La superficie come un libro da aprire, muro da sfogliare, membrana da leggere e allora il tempo e lo spazio dell’ambiente come operatività all’interno dei suoi diaframmi, sfogliatura dei perimetri, analisi della verticalità 2 . Le carte aprono verso un oltre, che è niente e tutto al tempo stesso. Il nero che arriva a fermare per sempre il gesto attraverso il calore, lo scaldare il foglio. Che poi sarà il fuoco che ferma il gesto sulla terra, il nero della grafite che cancella ed esalta le ombre dei suoi torsi. Tutto sta nel Movimento (altro termine ricorrente nei titoli di Violetta), nel gesto dell’artista che apre verso un luogo che esiste solo nell’arte. Ecco dunque Luogo (del 1977), in cui il nero del foro assorbe lo spazio del muro, stravolge la sua materia facendo emergere ciò che ne è all’interno, anticipando così Luoghi veloci (del 1978) e Luogo d’aurora (pensato nel 1983 e realizzato nel 1987) in cui il centro del cubo segna la sua forza verso l’esterno nel momento dell’esplosione Teca (sempre del 1976) è un altro fondamentale precedente di Luogo d’aurora, nel suo essere cubo che si mostra al suo interno, luogo impossibile, un dispiegarsi di Utopia (sempre del 1976) oltre la superficie della parete. Il gioco avviato dalle carte segna la sperimentazione su carta lucida (qui in una foto in cui la sagoma dell’artista si sovrappone al disegno creando una spazialità ulteriormente esistenziale), un sommarsi di livelli e profondità che aprono ad una dimensione plastica che sfora la bidimensione. È stato Sproccati, descrivendo l’attività iniziale di Violetta, a scrivere: Il disegno, apparentemente così lontano dalla scultura, gioca in questa prima fase dell’opera di Violetta un ruolo di grande rilievo. […] Il disegno acquista corpo, si esplica in volume, raggiunge lo spessore attraverso l’approfondimento persistente e progressivo sul “solco”: il che vuol dire per mezzo del suo farsi scavo, apertura, divaricazione. Su questa “divaricazione” si muovono anche i disegni in mostra, in un continuo procedere e svolgersi del tratto che diventa segno, corpo. Un corpo che diventa plastico attraverso la distruzione del colore: il bianco diventa azzeramento che cede il passo all’ombra, alla piega, alla crespa. Un colore negato che si ritroverà in pochi anni nell’antirombo, nella grafite. Interrotto solo da interventi epifanici di materiali illuminanti (e non colori) come il chiaramitis o la luce che interverrà più tardi a disgregare e sospendere le pagine. Siamo così arrivati ai Momenti di pietra presentati a Kassel nel 1982. Qui Violetta scrive una poesia nella quale leggiamo: Il cielo si scolora momenti e pietre geometrie. Difficile dire se il cielo scolorato fosse quello tedesco o la scultura Cieli del 1982. Certo è che la scultura interviene a placare l’inquietudine, il cielo e l’uomo, o per citare un brano dell’Uomo in rivolta di Camus: La maggiore e più ambiziosa delle arti, la scultura, si accanisce a fissare nelle tre dimensioni il volto sfuggente dell’uomo. A ricondurre il disordine dei gesti all’unità del grande stile. La scultura non respinge la somiglianza, di cui al contrario ha bisogno, ma non la ricerca per prima. Quello che cerca nelle sue grandi epoche è il gesto, l’atteggiamento, lo sguardo vuoto che riassumeranno tutti i gesti e tutti gli sguardi del mondo. Non è il suo assunto imitare, ma stilizzare e imprigionare in un’espressione significativa il passeggero fuggire dei corpi o il vorticare infinito degli atteggiamenti. Soltanto allora erige sul frontone delle città tumultuose il modulo, il tipo, l’immobile perfezione che per un momento placherà l’incessante febbre degli uomini 4 . La febbre degli uomini diventa quindi piega, svolgersi, aprirsi. Entriamo in un spazio dove la materia trionfa oltre la superficie. A cura di Irene BiolchiniLuoghi
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