Antonella Albani "Ho scoperto dove sono"
A cura di: Michela Becchis e Roberta Melasecca
“L’assoluta nettezza, direi geometricità delle fotografie di Antonella Albani a prima vista provoca un piccolo spavento. Si badi bene, non paura, spavento, cioè un’emozione improvvisa e forte di fronte a qualcosa che non conosciamo bene. Perché guardando la sequenza delle sue immagini non si riesce a inserirle in una facile dimensione. Apparentemente fredde, l’obiettivo sembra non concedere nessuna sinuosa, fantasiosa concessione, lavorate fino a che il più piccolo “pentimento” perda la vita, le figure dentro le fotografie appaiono come congelate, volontariamente lontane dall’esistenza, ogni traccia di naturalismo scompare in una lucentezza assoluta. Nella serie protagonista di questa mostra, poi, si aggiunge il rigoroso bianco, anzi un rigoroso spazio bianco, che assume il ruolo di ellissi che ha in letteratura, chiedendo all’osservatore di riempirlo di senso, ma che, al tempo stesso, intende allarmare il suo sguardo in cerca di altri riferimenti oltre alla muta, silente figura. Ma proprio mentre guardiamo le fotografie sentiamo lo scarto, la non verità di questa sensazione, la discrepanza tra ciò che osserviamo e la prima inquietante impressione.(...) Antonella Albani vive infatti la possibile distanza dalla perfezione di ogni sua fotografia come una colpa. Certo, la perfezione, come gran parte delle cose della limitatezza umana, è solo un punto di vista, ma è quel punto di vista che lei vuole protagonista dentro il suo sguardo. «Un'ispirazione che ignori la vita e dalla vita sia ignorata, non è ispirazione, ma ossessione», prosegue Bachtin. Ed è vero. Come è vero che in Antonella Albani vive però quotidianamente un’ossessione che si palesa nei suoi lavori come un osservare se stessa e il mondo in modo distaccato e appartato, ma senza mai far venire meno la responsabilità che sente nei confronti dello sguardo degli altri. Ecco la soluzione dello spavento: il nitore perfettamente riuscito della sua responsabilità.” (dal testo critico di Michela Becchis)“Antonella Albani indaga l’infinitamente vasto della sua anima mediante l’infinitamente piccolo, mediante il dettaglio del dettaglio del dettaglio. E lo fa con una malinconica ironia: coglie gli aspetti paradossali e assurdi dell’esistenza rappresentando il proprio doppio all’interno del non senso di una architettura domestica. Antonella compie una azione performativa nello spazio perimetrato di una stanza che conduce ad una dimensione interiore di conoscenza, il cui livello non necessariamente porta ad una esaustività di risposte. L’atteggiamento dell’artista, nel ritrarre se stessa, non è carezza all’ego in uno slancio narcisista; non è neanche automedicazione come è stato definito il lavoro di Francesca Woodman; o patetica disperazione che la trasferisce in ombre insondate della mente. È una sorta di gioco nel quale il compagno di giochi è il suo stesso riflesso, che lei osserva attraverso l’obiettivo fotografico. Così si nasconde e riappare, mantenendo celato il suo volto che, se lo potessimo osservare, sarebbe come le accorate immagini vittoriane di Julia Margaret Cameron. Il gioco presto diventa ossessione, reiterazione della realtà che la circonda, ripetizione delicata di paure, insicurezze, speranze che Antonella esorcizza attraverso l’utilizzo di simboli, oggetti provenienti dalla sua memoria o dalla sua stessa disincantata frenesia di collezionismo. Le fotografie di Antonella Albani mostrano una luce bianchissima, irreale: descrivono un mondo surreale, se per surrealismo si intende contraddizione della realtà e del pensiero. Senza ombre, eterea, la figura si staglia a tratti abbandonata, altre volte timorosa, o alla ricerca di quell’altro da sé Antonella snoda una narrazione simbolica e ironicamente onirica, fatta di luci, silenzi e sguardi mai visti: un procedere per frammenti, sospesi tra oggetto e soggetto che tendono ad equipararsi in una semantica sottile e disincantata.” (dal testo critico di Roberta Melasecca)
Luoghi
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