Alessandra Maisto "The power of light"
A cura di: Salvatore Serio
Quando Saulo si apprestava a raggiungere Damasco, per mettere in atto la repressione dei cristiani, non immaginava che, per quella via, avrebbe avuto luogo la sua conversione. È quello che quasi sempre accade a chi comincia un percorso. Finisce per condurre, chi lo percorre, per strade che prima non aveva immaginato. Come poteva mai pensare, un assassino, che sarebbe diventato l’«apostolo dei Gentili» e, fonte di ispirazione di anime smarrite e, in egual misura, di artisti? Non capita tutti i giorni di imbattersi in una mostra con soggetti ispirati alle Sacre Scritture. La tradizione in cui queste opere si inseriscono è antica e ampissima. Ma fa parte di un mondo che difficilmente si concilia con gli interessi del pubblico moderno. Ecco perché l’artista, Alessandra Maisto, ha deciso di portare alla luce aspetti che prima non erano mai stati rivelati. Ben al di là del concetto di cristianità, le sue tele di stoffa, che come sindoni custodiscono i suoi soggetti, sono espressione viva e attuale di un’umanità e di una fragilità in cui chiunque può riconoscersi. Pur inserendosi al margine di una tradizione classica e rinascimentale, la scelta originale dei soggetti, che un tempo era prerogativa di committenti, la rende consapevole committente di sé stessa. Ma protagonista indiscussa delle sue opere è la luce, che assume un significato catartico di purificazione e rivelazione. È l’oro del Divino, che appare e che sfiora le sue figure, come una manna salvifica e potente. Una luce pagana che vuole condurre non solo i suoi soggetti, ma anche coloro che li osservano, in una dimensione mistica e sublime. È la stessa luce a dare forma e vita alle figure. Queste, plasmate dal Divino, quasi alla stregua delle idee iperuraniche di Platone, prendono corpo e, insieme, umanità. Quella stessa umanità che li distanzia dalla perfezione a cui anelano bramosamente. E lo spasmo pacato di questa ricerca, pare infondere in loro un sospiro di vita che sfiora lo spettatore. Lo stesso alito che pareva animare il Cardinale Scipione Borghese del Bernini, pare quasi destare “Lazzaro”, che tira un sospiro di sollievo a un passo dal rivedere la luce. Ed è sempre la luce, in forma di fuoco, ad insegnare le lingue ai popoli, la domenica della Pentecoste, che vediamo nella tela “Parlare in lingue”. La luce come verità e conoscenza, che si fondono in una redenzione mistica dalle tenebre. Redenzione che non manca in “Levi”. Matteo, esattore, rievoca, oltre alla gestualità della “Conversione”, anche il Caravaggio del “Bacchino malato”, che pare fare ammenda delle tenebre in cui era confinato. Ed ecco apparire, a poco a poco la novità che ci propone l’artista. Volti che la storia dell’arte ci ha sempre presentato come fieri e sicuri, ci appaiono ora tremuli e umani. Esempio supremo di tale rivoluzione è “600 carri”. Il titolo ci guida nella lettura di un’opera il cui protagonista, Mosè, è terrorizzato dall’imminente carica, che si appresta e che schiaccia lui e il suo popolo, tra il Faraone e il Mar Rosso. E sono i suoi occhi a parlare per lui, balbuziente e anziano, e a far mostra di una fragilità del tutto nuova, di un orrore degno delle vivide immagini dantesche. Anche il responsabile di questa furia fa parte della collezione. Il Faraone infatti, col titolo di “Cuore indurito” fa mostra di sé e di un rancore senza il quale nessuna redenzione sarebbe avvenuta. Nessuna terra promessa sarebbe stata raggiunta. Non mancano in questa raccolta soggetti femminili, pervasi, tutti, da una dignità e da una forza che le rende le sue protagoniste attuali e superbe. Nomi sconosciuti e nomi nuovi, di cui si mostrano aspetti prima d’ora trascurati, si affiancano in un’unica realtà di donne come non erano mai state, mai prima d’ora, raccontate. Maria “Maddalena”, che ancora una volta rievoca un illustre predecessore, Caravaggio, affianca “Agar”, schiava di Abramo, costretta a concedersi al suo padrone per dargli un erede che la sua sposa sembrava non potergli dare. Mesta, dopo essere stata congedata insieme a suo figlio, conserva intatta la sua femminilità e la sua eleganza, che ricorda la purezza dei canoni classici, di tempi altrettanto antichi. Così “Betsabea”, moglie prima di “Uria l’Ittita”, poi di “Davide”, pare essere stata mutilata di un amore, che l’invidia di Davide per Uria, le aveva strappato. Le sottili corde che spesso uniscono le tele dell’artista, non fanno che rendere unica questa collezione, che sembra essere pervasa da un continuo dialogo tra le opere. Spicca, ancora, tra le figure femminili, Salomè. Che pare danzare flessuosa di fronte allo spettatore. Una danza macabra però, che fa da preludio a un omicidio. È in questo modo che si combinano morte e salvezza nelle opere dell’artista. Luce ed ombra si affiancano e si completano. “Lucifero”, tagliato in due, ci mostra meglio di qualunque spiegazione questo concetto. Un portatore di luce caduto nelle tenebre, che porta i segni dell’antico splendore e dell’eterno travaglio. Altra sorte spetta ad “Abele”, lacerato dal dolore non per la sua morte, ma per i suoi figli che non nasceranno mai. Con il suo grido straziante condanna suo fratello e l’umanità a una colpa che dovrà essere scontata attraverso un percorso di redenzione. Proprio quella redenzione che aveva salvato Saulo, che strizza gli occhi, altro gesto umano troppo umano, di fronte a una luce che lo salva e acceca allo stesso tempo. “Damasco” rappresenta un cammino che ciascuno di noi dovrebbe compiere, e a cui “Michele Arcangelo”, terrifico monito, ci spinge.
In conclusione, possiamo di certo affermare, che chi ammira queste opere non può che rimanere affascinato e scosso al tempo stesso. Perché chi osserva quei volti, in perfetta continuità con la tradizione classico-rinascimentale, prende parte al loro cordoglio e alla loro speranza. Percorre, insieme a loro, le tappe che portano, alla fine del percorso, ad una consapevolezza e verità che le tele sussurrano all’unisono”.
Adriana Brancaccio
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